Al fine di evitare i rischi che derivano, anche per i possibili conflitti di interessi, dalla indebita commistione tra attività forense e pubblico impiego, il legislatore ha adottato la regola dell’incompatibilità.
Nota a Cass. (ord.) 15 novembre 2023, n.31776
Pamela Coti
La commistione indebita fra attività forense e pubblico impiego integra ex se pericolo per l’ente, agli utenti o ai terzi, non essendo necessario allegare e provare da parte dell’amministrazione il concreto pericolo connesso alla violazione dell’obbligo di comportamento, perché tale rischio è già stato valutato dal legislatore.
È quanto stabilito dalla Corte di Cassazione ord. 15 novembre 2023, n. 31776 con riguardo all’applicazione di una sanzione conservativa a carico di un dipendente comunale, accusato della violazione del regime di incompatibilità assoluta tra pubblico impiego ed esercizio della professione forense.
Al riguardo i Supremi Giudici hanno sancito che:
- i casi di compatibilità tra l’esercizio della professione forense e il pubblico impiego costituiscono eccezioni ad una regola, quella dell’incompatibilità, che “è stata voluta dal legislatore al fine di evitare i rischi che derivano, anche per i possibili conflitti di interessi, dalla indebita commistione tra attività forense e pubblico impiego” (Corte Cost. n. 390/2006);
- tale regola si fonda su una “valutazione legislativa di maggior pericolosità del connubio avvocatura-pubblico impiego”, come espressamente indicato dalla Corte Costituzionale (Corte Cost. n. 390/2006, cit.), “talché è conseguenziale l’apprezzamento normativo presuntivo in termini di pericolosità di una commistione in tal senso” (Cass. 13 aprile 2021, n. 9660, in q. sito con nota di F. IACOBONE); ne consegue che, essendo il rischio già insito nell’opzione legislativa, l’amministrazione non è tenuta ad allegare e provare l’esistenza di un pericolo concreto connesso alla violazione della regola dell’incompatibilità;
- “l’incompatibilità tra impiego pubblico part-time ed esercizio della professione forense risponde ad esigenze specifiche di interesse pubblico correlate proprio alla peculiare natura di tale attività privata ed ai possibili inconvenienti che possono scaturire dal suo intreccio con le caratteristiche del lavoro del pubblico dipendente”, ma la ratio sottesa alla normativa limitativa del cumulo è quella “tendente a realizzare l’interesse generale sia al corretto esercizio della professione forense sia alla fedeltà dei pubblici dipendenti” (Cass. n.11833/2013);
- è da escludersi il recupero dei proventi solo a condizione che il part-time del dipendente venga legittimamente esercitato in difetto di situazioni di incompatibilità assoluta con l’attività libero professionale.
La Corte ha poi concluso che, sposando orientamenti ormai consolidati sulle questioni di giurisdizione nella materia del pubblico impiego contrattualizzato, è indubbio che le controversie aventi ad oggetto la domanda della P.A. volta a ottenere dal proprio dipendente il versamento dei corrispettivi percepiti nello svolgimento di un incarico non autorizzato appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, con consequenziale assegnazione alla Sezione Lavoro i ricorsi per Cassazione avverso le sentenze di giudici ordinari che affrontano dette questioni.
Sentenza
CORTE DI CASSAZIONE, ORDINANZA 15 NOVEMBRE 2023, n. 31776
Svolgimento del processo
1.con la sentenza n. 57/2018 la Corte di appello di Torino ha confermato, correggendone la motivazione, la pronuncia emessa l’11 maggio 2017 dal Tribunale della stessa sede, con la quale era stato, da un lato, accolto il ricorso di A.A. nei confronti del Comune di (Omissis) volto a ottenere l’annullamento della sanzione disciplinare di sospensione dal servizio e dalla retribuzione per giorni dieci e, dall’altro, respinta la domanda riconvenzionale dell’amministrazione diretta alla condanna del lavoratore al versamento dei proventi dello svolgimento dell’attività professionale di avvocato a decorrere dall’iscrizione all’albo ((Omissis)) ovvero dalla scadenza dei trentasei mesi previsti per il diritto di opzione dalla L. n. 339 del 2003;
2. al A.A., lavoratore inquadrato come responsabile amministrativo, Cat. B3, in part time al 50% dal 1997 al fine di iscriversi all’albo dei praticanti procuratori legali ed esercitare la relativa attività, era stata inflitta, con provvedimento del 19 luglio 2016, la sanzione conservativa per condotta contraria al codice di comportamento dei pubblici dipendenti (art. 3, comma 5 lett. k, c.c.n.l. Regioni e Autonomie Locali), in quanto, diventato avvocato nel (Omissis) e iscrittosi all’albo, aveva mantenuto l’iscrizione anche dopo la scadenza, in data (Omissis), del termine di trentasei mesi dall’entrata in vigore della L. n. 339 del 2003, in tal guisa violando il regime di incompatibilità assoluta tra pubblico impiego ed esercizio della professione forense sancito dall’art. 1, stessa legge;
3. la Corte territoriale, ritenendo assorbito il motivo di gravame sulla tempestività della contestazione (la cui tardività era stata viceversa affermata dal primo giudice), riteneva che la norma richiamata (art. 3, comma 5, lett. k, c.c.n.l. cit.) punisse la violazione di obblighi di comportamento da cui scaturiva “disservizio ovvero danno o pericolo all’ente”, elementi (questi) non allegati nè dimostrati dal Comune di (Omissis) nell’iter disciplinare e nei due gradi di giudizio e non configurabili in re ipsa per la sola violazione delle regole comportamentali;
4. sulla riconvenzionale del Comune, il giudice d’appello, ferma la giurisdizione del giudice ordinario per assenza del “danno erariale” richiesto per l’attribuzione della questione alla giurisdizione contabile, confermava il dictum di rigetto del primo giudice perchè l’obbligo di versamento dei proventi di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, comma 7, non si applicava, ai sensi del comma 6, stesso articolo, “ai dipendenti con rapporto di lavoro a tempo parziale con prestazione lavorativa non superiore al 50% di quella a tempo pieno”;
nella specie, il part time non poteva considerarsi nullo alla stregua del rilievo che il Comune, acquisita contezza della qualifica di avvocato del A.A. fin dal 1999, avrebbe dovuto, nel corso del rapporto, farne valere la sopravvenuta illegittimità a seguito dello scadere del termine di trentasei mesi previsto dalla L. n. 339 del 2003;
5. avverso la decisione di secondo grado ha proposto ricorso per cassazione il Comune di (Omissis) affidato a cinque motivi, cui ha resistito A.A. con controricorso contenente altresì ricorso incidentale condizionato affidato a due motivi; entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative.
Motivi della decisione
i motivi del ricorso principale possono essere così sintetizzati;
1.con il primo mezzo si censura la sentenza impugnata per falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, comma 1, in relazione L. n. 339 del 2003, artt. 1, 2e 3, del D.P.R. n. 62 del 2013, art. 3, nonchè per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5); la sentenza impugnata, pur dando atto che il dipendente aveva violato il dovere di esclusività, mantenendo l’iscrizione all’Ordine degli avvocati dopo la scadenza del termine di trentasei mesi dall’entrata in vigore della L. n. 339 del 2003, aveva erroneamente ritenuto che ciò non bastasse a integrare l’illecito in difetto di prova dello “specifico disservizio ovvero danno o pericolo all’ente, agli utenti o ai terzi”, profilo che non aveva rilevanza per la configurabilità dell’illecito ma solo sul piano della proporzionalità della sanzione;
2. con il secondo motivo si lamenta l’erronea applicazione degli artt. 115 e 115 c.p.c., anche in relazione all’art. 3, comma 5 lett. k, c.c.n.l. 11.04.2008 Regioni e Autonomie Locali, avendo la Corte d’appello ritenuto che la sanzione disciplinare fosse illegittima per avere l’amministrazione omesso di allegare e fornire prova dello “specifico disservizio ovvero danno o pericolo” provocato dal A.A. con la condotta contestatagli; si deduce l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5); il giudice d’appello non si era avveduto dell’assoluta inconciliabilità tra il dovere di fedeltà del pubblico dipendente alla Nazione e l’esercizio della professione forense, che impone di difendere gli interessi dell’assistito, e del connesso conflitto di interessi con pregiudizio per l’Ente, il quale aveva chiesto di dimostrare, tramite acquisizione di specifica documentazione, anche la “materialità del danno”;
3. con il terzo mezzo si deduce l’erronea applicazione della L. n. 339 del 2003, artt. 1, 2, e 3, della L. n. 247 del 2012, art. 18, lett. d, del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53 e art. 55, comma 2, in relazione agli artt. 2104, 2105e 2106 c.c., per avere la Corte d’appello errato nell’elevare l’elemento del “disservizio, del danno o del pericolo” al rango di elemento costitutivo dell’illecito disciplinare in grado di mandare assolto l’incolpato pur in presenza di una situazione di incompatibilità assoluta (art. 360 c.p.c., n. 3); secondo il Comune, il danno o il disservizio non farebbero parte degli elementi tipici della fattispecie disciplinare, per l’integrazione della quale basterebbe l’intenzionale violazione dell’obbligo di esclusività anche se rimossa a seguito di diffida;
4. con il quarto motivo si lamenta l’erronea e falsa applicazione dell’art. 3, comma 5, lett. k, c.c.n.l. 11.04.2008 e degli artt. 1362, 1363, 1365, 1367 c.c., per avere la Corte d’appello interpretato la disciplina come impositiva in capo al datore di lavoro dell’onere della prova dello specifico “disservizio ovvero danno o pericolo all’ente, agli utenti o ai terzi”; si deduce nuovamente l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5); il Comune di (Omissis), oltre al fatto storico della violazione dell’obbligo di comportamento, non doveva provare alcunchè;
5. con il quinto, ed ultimo, motivo si denuncia “l’erroneità della decisione dove essa ha negato la ripetizione delle somme percepite dal lavoratore nel corso dell’attività professionale; si lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, commi 6 e 7, della L. n. 662 del 1996, art. 1, comma 58 e della L. n. 339 del 2003, in combinato disposto con la L. n. 247 del 2012, art. 18, lett. d), nonchè l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 350 c.p.c., nn. 3 e 5)”; in particolare era erronea l’affermazione del giudice d’appello secondo cui l’amministrazione, in presenza di part time al 50% concesso a far tempo dal 1997, non poteva far valere l’obbligo di riversamento dei compensi legati all’esercizio della professione forense: l’omessa comunicazione da parte del dipendente del conseguimento del titolo di avvocato nel (Omissis) aveva impedito, infatti, all’amministrazione di procedere alla revoca del part time ai sensi della L. n. 339 del 2003, art. 1, e, in ogni caso, alla scadenza dei trentasei mesi previsti dalla L. n. 339 del 2003 cit., il part time doveva dirsi nullo per violazione di norma imperativa (artt. 1339 e 1418 c.c.) con ogni conseguenziale effetto sull’obbligo di riversamento dei proventi;
6. nel suo ricorso incidentale condizionato il A.A. denuncia, con il primo motivo, formulato ex art. 360 c.p.c., n. 1, il difetto di giurisdizione, per essere la decisione della questione riferita alla ripetizione delle somme percepite dal A.A. al di fuori del rapporto di impiego di competenza della Corte dei conti ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, comma 7 bis; era indiscutibile la giurisdizione della Corte dei conti, da riconoscersi anche per il periodo anteriore all’introduzione (con la L. 6 novembre 2012, n. 190, art. 1, comma 42, lett. d)) dell’art. 53 cit., comma 7 bis, dovendo annettersi a tale modifica natura meramente confermativa della sussistenza della giurisdizione contabile;
7. con il secondo motivo di ricorso incidentale si denuncia (art. 360 c.p.c., n. 3) la violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 bis, comma 4, per avere il giudice d’appello ritenuto assorbita la questione della tardività della contestazione, affermata invece dal primo giudice che aveva individuato il dies a quo del termine per la conclusione del procedimento disciplinare a partire dalla data di prima acquisizione della notizia dell’infrazione; nella specie, il datore di lavoro era al corrente dell’esercizio della professione di avvocato fin dal (Omissis) e l’illegittimità della condotta risaliva al (Omissis), id est alla scadenza dei trentasei mesi indicati dalla L. n. 339 del 2003, mentre la lettera di contestazione disciplinare era del (Omissis);
8. i primi quattro motivi del ricorso principale, da trattare congiuntamente per l’intima connessione logico-giuridica, sono fondati;
9. il quadro normativo e fattuale entro cui si inscrive la vicenda è pacifico;
9.1 secondo il disposto della L. n. 662 del 1996, art. 1, comma 56, in combinato disposto con il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, comma 6, l’esercizio della libera professione, senza distinzione e quindi anche in ambito forense, poteva essere consentito dalla P.A., come era avvenuto nel caso di specie, allorquando il dipendente operasse presso di essa in regime di part time; la L. n. 339 del 2003, art. 1, nell’affermare che restavano fermi i limiti di cui al R.D. n. 1578 del 1933, aveva però successivamente sancito l’incompatibilità assoluta tra professione di avvocato e lo status di pubblico dipendente (art. 3, comma 2, R.D. cit.), stabilendo (L. n. 339 cit., art. 2, comma 1) che, nel termine di 36 mesi, il dipendente potesse optare per il mantenimento o la cessazione del rapporto di impiego dandone comunicazione al Consiglio dell’Ordine di riferimento e che “in mancanza di comunicazione entro il termine previsto, i consigli degli ordini degli avvocati provvedono alla cancellazione di ufficio dell’iscritto al proprio albo”, fermo restando (L. n. 339 cit., art. 2, comma 2) che il pubblico dipendente, nell’ipotesi di opzione per la prosecuzione del rapporto, aveva diritto ad essere reintegrato in esso a tempo pieno;
9.2 il Comune di (Omissis) in data (Omissis), dunque a termine (36 mesi) abbondantemente scaduto, aveva instaurato in data (Omissis) il procedimento disciplinare, con contestuale diffida al A.A. per la cessazione immediata dell’attività forense, sul presupposto che costui avesse proseguito il rapporto di pubblico impiego in condizione di incompatibilità, definendo poi lo stesso iter disciplinare con l’applicazione della sospensione dal servizio e dalla retribuzione per giorni dieci;
9.3 ciò premesso, va precisato che alla fattispecie dedotta in giudizio trova applicazione l’art. 25 del c.c.n.l. Comparto Regioni ed Autonomie Locali stipulato il 22.1.2004 – in quanto la condotta oggetto di addebito disciplinare risale al (Omissis) (scadenza del termine di 36 mesi previsto dalla L. n. 339 del 2003) – e non il c.c.n.l. stipulato il 11.4.2008, al quale hanno fatto riferimento la Corte territoriale e il ricorrente;
nondimeno, l’erronea indicazione del c.c.n.l. applicabile “ratione temporis” è priva di effetti, atteso che le disposizioni contenute nell’art. 3 del c.c.n.l. dell’11.4.2008 Regioni e autonomie locali sono, in parte qua, sovrapponibili a quelle contenute nell’art. 25 del c.c.n.l. del 22.1.2004;
9.4 com’è agevole constatare, le prime quattro censure del Comune di (Omissis) ruotano tutte sulla violazione del regime dell’incompatibilità assoluta e convergono nell’affermazione dell’esistenza di un conflitto di interessi, di natura immanente, atto a integrare quel “disservizio, danno o pericolo” previsto dall’art. 3, comma 5, lett. k, c.c.n.l. 2008 (recte, art. 25 c.c.n.l. del 22.1.2004);
l’art. 25 al comma 5 c.c.n.l. (con formulazione sovrapponibile alla clausola contenuta nell’art. 3, comma 5, lett. k) del c.c.n.l. del 11.4.2008) punisce con la sanzione disciplinare della sospensione dal servizio con privazione della retribuzione fino ad un massimo di 10 giorni, tra le altre violazioni, quella degli “(…) obblighi di comportamento non ricompresi specificatamente nelle lettere precedenti, da cui sia derivato disservizio ovvero danno o pericolo all’ente, agli utenti o ai terzi”;
9.5 il tenore letterale della disposizione, nell’inciso “da cui sia derivato disservizio ovvero danno o pericolo all’ente, agli utenti o ai terzi”, non deve trarre in inganno e deve essere inteso alla stregua della peculiarità della fattispecie in esame, sicchè non può dirsi corretta l’esegesi della Corte territoriale che ha ritenuto non ascrivibile l’addebito all’ipotesi enunciata nell’atto di contestazione disciplinare in difetto di puntuale allegazione e prova della “derivazione” causale di uno specifico “disservizio, danno o pericolo” dalla condotta violativa degli obblighi posta in essere dal dipendente;
questo perchè i casi di compatibilità costituiscono eccezioni ad una regola, quella dell’incompatibilità, che, come si è detto, è stata voluta dal legislatore al fine di evitare i rischi che derivano, anche per i possibili conflitti di interessi, dalla indebita commistione tra attività forense e pubblico impiego (Corte Cost. n. 390/2006). Regola che si fonda su una valutazione legislativa, discrezionale ma non irrazionale, di maggior pericolosità del connubio avvocatura-pubblico impiego, che la Corte costituzionale (sempre Corte Cost. 390/2006 cit.) ha già espressamente così spiegato, talchè è conseguenziale l’apprezzamento normativo presuntivo in termini di pericolosità di una commistione in tal senso (cfr. Cass. 13 aprile 2021, n. 9660);
9.6 in tale contesto, la sentenza impugnata, che non ha valutato tale specifico (ed essenziale) profilo, escludendo che la commistione tra impiego pubblico e professione forense integrasse ex se “pericolo all’ente, agli utenti o ai terzi”, dev’essere cassata; non serviva, infatti, allegare e provare da parte dell’amministrazione il “concreto pericolo” connesso alla violazione dell’obbligo di comportamento perchè tale rischio era, in fondo, già insito nell’opzione legislativa, “non potendo ritenersi priva di qualsiasi razionalità una valutazione – operata dal legislatore – di maggiore pericolosità e frequenza di tali inconvenienti quando la “commistione” riguardi la professione forense” (così Corte Cost. n. 390/2006 cit.);
10. a ciò consegue l’inammissibilità del secondo motivo del ricorso incidentale condizionato, dovendo la questione della tardività della contestazione d’addebito, che è stata ritenuta assorbita dal giudice d’appello, essere riesaminata dinanzi al giudice del rinvio;
è inammissibile, infatti, per carenza di interesse il motivo del ricorso incidentale “allorchè proponga censure che non sono dirette contro una statuizione della sentenza di merito bensì a questioni su cui il giudice di appello non si è pronunciato ritenendole assorbite” (come avvenuto, appunto, nel caso che occupa, visto che il giudice di appello ha ritenuto di annullare la sanzione conservativa per ragioni di merito), atteso che in relazione a tali questioni “manca la soccombenza che costituisce il presupposto dell’impugnazione, salva la facoltà di riproporre le questioni medesime al giudice del rinvio, in caso di annullamento della sentenza” (da ultimo, Cass. 03/04/2023, n. 9200; Cass., Sez. L, 23/07/2018, n. 19503; Cass. sent. 22/09/2017, n. 22095, conforme anche Cass. sent. 12/06/2020, n. 11270; nello stesso senso già Cass. ord. 20/12/2012, n. 23548; Cass., 11/05/2006, n. 10848);
11. infondato è, invece, il primo motivo del ricorso incidentale condizionato sulla giurisdizione, il cui esame, per ragioni logiche, deve precedere quello del quinto motivo del ricorso principale;
occorre preliminarmente osservare che, con decreto del 10 settembre 2018, il Primo Presidente di questa Corte, rilevato che si sono formati orientamenti ormai consolidati sulle questioni di giurisdizione nella materia del pubblico impiego contrattualizzato, ha assegnato alla Sezione Lavoro i ricorsi per cassazione avverso le sentenze di giudici ordinari che affrontano dette questioni (cfr. altresì, più di recente, Cass., Sez. U., 19/01/2022, n. 1599 secondo cui “l’art. 374 c.p.c., va interpretato nel senso che, tranne nei casi di impugnazione delle decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti, i ricorsi che pongono questioni di giurisdizione possono essere trattati dalle sezioni semplici allorchè sulla regola finale di riparto della giurisdizione “si sono già pronunciate le sezioni unite”, ovvero sussistono ragioni di inammissibilità inerenti alla modalità di formulazione del motivo (ad esempio, per inosservanza dei requisiti di cui all’art. 366 c.p.c., difetto di specificità, di interesse etc.) ed all’esistenza di un giudicato sulla giurisdizione (esterno o interno, esplicito o implicito), costituendo questione di giurisdizione anche la verifica in ordine alla formazione del giudicato”);
12. ciò posto, all’esito della pronunzia delle Sezioni Unite di questa Corte (Cass., Sez. U., n. 19072 del 2016) si è ormai consolidato il principio, cui va data continuità, in base al quale la controversia avente ad oggetto la domanda della P.A. volta a ottenere dal proprio dipendente il versamento dei corrispettivi percepiti nello svolgimento di un incarico non autorizzato appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario anche dopo l’inserimento, nel D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, del comma 7 bis ad opera della L. n. 190 del 2012, art. 1, comma 42, lett. b), attesa la natura sanzionatoria dell’obbligo di versamento previsto dal comma 7, che prescinde dalla sussistenza di specifici profili di danno richiesti per la giurisdizione del giudice contabile (v. Cass., Sez. Un., 26/07/2022, n. 23240; Cass. 19/01/2018, n. 16722; Cass., Sez. Un., 16/04/2018, n. 1415; Cass., Sez. Un., 09/03/2018, n. 5789; Cass., Sez. Un., 28/05/2018, n. 13239; Cass., Sez. Un., 03/08/2018, n. 20533; Cass., Sez. Un., 10/01/2017, n. 8688);
13. ferma (or dunque) la giurisdizione del giudice ordinario, il quinto motivo del ricorso principale è da accogliere sebbene in base a ragione di diritto in parte diversa da quella prospettata dal Comune di (Omissis);
la Corte di cassazione può ritenere, infatti, fondata la questione, sollevata dal ricorso, per una ragione giuridica diversa da quella specificamente indicata dalla parte, con il solo limite dell’immutazione dei fatti accertati nelle fasi di merito ed esposti nel ricorso per cassazione e nella stessa sentenza impugnata, sempre che ciò non comporti la modifica della domanda, per come definita nelle fasi di merito, o l’integrazione di un’eccezione in senso stretto (cfr. sul principio, tra le tante, Cass. Sez. VI/III, 05/10/2021, n. 26991, che richiama Cass. 28/07/2017, n. 18775; 14/02/2014, n. 3437; 22/03/2007, n. 6935 ed anche Cass. 03/12/2020, n. 27704 e, nello stesso senso, Cass. 31/05/2022, n. 17670; Cass., Sez. II, 01/03/2022, n. 6728; Cass., 30/03/2021, n. 8717);
13.1 tale rilievo consente, quindi, di esaminare funditus il tema dell’interpretazione della disposizione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, commi 6 e 7, senza limitarsi a verificare i profili legati alla presunta nullità del part-time, per asserita contrarietà a norma imperativa;
non serve parlare, infatti, di nullità del part time per il periodo di incompatibilità assoluta successivo al (Omissis) – i.e., scadenza del termine di 36 mesi previsto per l’esercizio dell’opzione dalla L. n. 339 del 2003 – al fine di realizzare, di fatto, quel ripristino del rapporto a tempo pieno che, nella prospettiva dell’Ente ricorrente, consentirebbe di far valere l’applicazione della disciplina del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, comma 7;
invero, questa Corte ha già chiarito di recente (v. Cass. 13/04/2021, n. 9660: v. in particolare il punto 6 della motivazione) che il giudice adito per la cognizione sulla legittimità dell’operato della P.A. o del consiglio dell’ordine, qualora ritenga che il dissenso espresso dall’una o dall’altra autorità rispetto al cumulo di attività sia legittimo, non disapplica, nè sanziona di nullità l’eventuale autorizzazione che sia stata rilasciata dall’altra autorità;
ed analogamente si è in altra pronuncia precisato, sotto diversa angolazione, che il riespandersi del rapporto dal part time al tempo pieno è conseguenza, stabilita dalla L. n. 339 del 2003, art. 2, comma 2, dell’esercizio dell’opzione, anche in forma tacita, ma ha per presupposto, qualora il competente Ordine per qualsiasi ragione non provveda allo scadere del termine alla cancellazione dell’iscritto, la cessazione da parte dell’interessato dell’attività forense, sicchè non è neppure sostenibile che la P.A. “a fronte della mancata cessazione dell’attività forense sia tenuta previamente a riammettere il dipendente al tempo pieno, così finendo per addirittura aggravare il contrasto con la norma di legge che sancisce l’incompatibilità assoluta tra quella professione e il pubblico impiego” (v. Cass. 11/07/2019, n. 18700);
13. 2 proprio muovendo da tali considerazioni, s’intende come ogni rilievo sull’applicazione dell’art. 53 cit., comma 7, possa prescindere dall’accertamento della nullità del part-time; a riguardo, giova evidenziare che il persistere della commistione tra rapporto di lavoro part time e professione forense non determina di per sè l’inapplicabilità, come erroneamente ritenuto dal giudice di secondo grado, dell’obbligo di riversare i proventi derivanti dallo svolgimento dell’attività professionale del D.Lgs. n. 165 del 2001, ex art. 53, comma 7;
13.3 l’art. 53, comma 7, nella formulazione ratione temporis vigente, così dispone:
“I dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall’amministrazione di appartenenza (…). In caso di inosservanza del divieto, salve le più gravi sanzioni e ferma restando la responsabilità disciplinare, il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell’erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell’entrata del bilancio dell’amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti”;
il precedente comma 6 stabilisce che: “I commi da 7 a 13 del presente articolo si applicano ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, comma 2, compresi quelli di cui all’art. 3, con esclusione dei dipendenti con rapporto di lavoro a tempo parziale con prestazione lavorativa non superiore al cinquanta per cento di quella a tempo pieno, dei docenti universitari a tempo definito e delle altre categorie di dipendenti pubblici ai quali è consentito da disposizioni speciali lo svolgimento di attività libero-professionali (…)”;
ora, il comma 6 cit. è stato erroneamente inteso dal giudice d’appello come preclusivo al recupero dei proventi (“i commi da 7 a 13 del presente articolo (…) non possono applicarsi al Dott. A.A., il cui rapporto di lavoro era in regime di part time al (e non superiore al) 50%”, così pag. 11 della sentenza impugnata), risultando il lavoratore, alla scadenza del termine dei 36 mesi per l’esercizio del diritto di opzione previsto dalla L. n. 339 del 2003, ancora in rapporto di part time al 50%, seppure esso si fosse illegittimamente protratto – osserva sempre il giudice d’appello – perchè la situazione di commistione indebita tra pubblico impiego e attività forense era da intendersi come non superabile in alcun modo;
13.4 orbene, tale illegittima protrazione riposa (appunto) nell’obbligo di esclusività, desumibile dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, che ha particolare rilievo nel rapporto di impiego pubblico perchè trova il suo fondamento costituzionale nell’art. 98 Cost., con il quale il legislatore costituente, nel prevedere che “i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione”, ha voluto rafforzare il principio di imparzialità di cui all’art. 97 Cost., sottraendo il dipendente pubblico dai condizionamenti che potrebbero derivare dall’esercizio di altre attività (cfr. fra le tante Cass. n. 427/2019; Cass. n. 20880/2018, che richiama Cass. n. 28797/2017; Cass. 8722/2017 e Cass. n. 28975/2017);
questa Corte ha del resto già affermato (Cass., Sez. U., 16/05/2013, n. 11833) che l’incompatibilità tra impiego pubblico part-time ed esercizio della professione forense risponde ad esigenze specifiche di interesse pubblico correlate proprio alla peculiare natura di tale attività privata ed ai possibili inconvenienti che possono scaturire dal suo intreccio con le caratteristiche del lavoro del pubblico dipendente”, ma altresì che ratio di fondo della normativa limitativa del cumulo è quella “tendente a realizzare l’interesse generale sia al corretto esercizio della professione forense sia alla fedeltà dei pubblici dipendenti”, a conferma della coesistenza degli interessi di cui si è detto e della discrezionale regolazione del loro rapporto ad opera della normativa di legge;
13.5 stando così le cose, se dell’art. 53 cit., comma 6, esclude il recupero dei proventi di attività esercitate dai lavoratori part time solo se a costoro risulta “consentito da disposizioni speciali” l’espletamento di attività libero-professionali, allora la norma non può che essere letta, sul piano logico-sistematico, nel senso di imporre, viceversa, tale recupero laddove lo svolgimento dell’attività professionale concomitante al pubblico impiego non sia stata autorizzata o non sia, a fortiori, in assoluto autorizzabile;
13.6 in tal senso, in linea con la funzione sanzionatoria della disposizione, è inequivoca la parte finale del primo periodo del comma 6, dove è scritto: “(…), con esclusione dei dipendenti con rapporto di lavoro a tempo parziale con prestazione lavorativa non superiore al cinquanta per cento di quella a tempo pieno (…) ai quali è consentito da disposizioni speciali lo svolgimento di attività libero-professionali”; disposizione (questa) da raccordare, sul piano logico, all’incipit del comma successivo, contenente il divieto di svolgere, per tutti i dipendenti pubblici, incarichi retribuiti “non previamente autorizzati” ovvero (in assoluto) non autorizzabili dall’amministrazione;
13.7 ne consegue, in definitiva, che può escludersi il recupero dei proventi solo a condizione che il part-time del dipendente venga legittimamente esercitato in difetto di situazioni di incompatibilità assoluta con l’attività libero professionale, condizione qui – trattandosi nello specifico di attività forense – insussistente;
14. conclusivamente, va accolto il ricorso principale, rigettato il primo motivo del ricorso incidentale condizionato e dichiarato inammissibile il secondo; la sentenza impugnata va conseguentemente cassata, con rinvio per nuovo esame alla Corte d’appello di Torino cui si demanda anche la liquidazione delle spese di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso principale, rigetta il primo motivo del ricorso incidentale condizionato e dichiara inammissibile il secondo, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Torino, in diversa composizione, cui demanda anche la liquidazione delle spese di legittimità.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso incidentale, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.