Il divieto di indossare sul luogo di lavoro il velo islamico o qualsiasi altro segno visibile di convinzioni politiche, filosofiche e religiose, previsto dal regolamento interno di una pubblica amministrazione al fine di assicurare un ambiente di lavoro totalmente neutro, è legittimo se si applica indistintamente a tutti i dipendenti e si limita allo stretto necessario.

Nota a CGUE 28 novembre 2023, C-148/22

Sonia Gioia

In materia di discriminazioni, “una norma interna di un’amministrazione comunale che vieta, in maniera generale e indiscriminata, ai membri del personale di tale amministrazione di indossare in modo visibile, sul luogo di lavoro, qualsiasi segno che riveli, in particolare, convinzioni filosofiche o religiose, può essere giustificata dalla volontà di detta amministrazione di istituire, tenuto conto del proprio contesto, un ambiente amministrativo totalmente neutro, purché tale norma sia idonea, necessaria e proporzionata rispetto a tale contesto e tenuto conto dei diversi diritti e interessi in gioco”.

Lo ha stabilito la Corte di Giustizia dell’Unione Europea 28 novembre 2023, C-148/22, investita della questione dal giudice belga (Tribunale del lavoro di Liegi) in relazione ad una fattispecie concernente una dipendente comunale, impiegata con mansioni di responsabile dell’ufficio in attività di back office senza contatto con gli utenti del servizio pubblico, a cui era stato vietato di presentarsi sul luogo di lavoro con il capo coperto in osservanza alla religione musulmana.

Al riguardo, la Corte ha precisato che una norma interna stabilita da un datore di lavoro, pubblico o privato, che vieti ai dipendenti di manifestare verbalmente, con l’abbigliamento o in qualsiasi altro modo, le loro convinzioni politiche, filosofiche o religiose non costituisce, nei confronti dei lavoratori che  seguono determinate regole di abbigliamento in applicazione dei precetti religiosi, una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali – che costituiscono “un solo e unico motivo di discriminazione che comprende tanto le convinzioni religiose quanto le convinzioni filosofiche o spirituali” – ai sensi degli artt. 1 e 2, par. 2, Direttiva 2000/78/CE (recante disposizioni “Per la parità di trattamento in materia di accesso all’occupazione, sia privata sia pubblica”).

Ciò, a condizione che il divieto datoriale riguardi indifferentemente qualsiasi manifestazione di tali convinzioni e tratti in maniera identica tutti i dipendenti, imponendo loro, in maniera generale ed indiscriminata,  una neutralità di abbigliamento che osta al fatto di indossare tali segni (CGUE 15 luglio 2021, C-804/18 e C-341/19, annotata in q. sito da S. GIOIA; CGUE 14 marzo 2017, C-157/15, in q. sito con nota di D. CASAMASSA).

Nello stesso tempo, la Corte non ha escluso che una normativa interna possa introdurre una disparità di trattamento indirettamente fondata sulla religione o le convinzioni personali, ai sensi dell’art. 2, par. 2, lett. b), Dir. cit., “qualora venga dimostrato che l’obbligo apparentemente neutro che tale norma contiene comporta, di fatto, un particolare svantaggio per le persone che aderiscono a una determinata religione o ideologia”.

Una siffatta diversità di trattamento, invece, non integra una violazione della normativa antidiscriminatoria qualora sia “oggettivamente” giustificata “da una finalità legittima” e a condizione che “i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari”, ex art. 2, par. 2, lett. b), punto i), Dir. cit.

In particolare, la politica di rigorosa neutralità imposta da una pubblica amministrazione a tutto il personale allo scopo di instaurare un ambiente amministrativo totalmente neutro “può essere considerata oggettivamente giustificata da una finalità legittima” ma, altrettanto, può esserlo la scelta di un altro datore di lavoro pubblico a favore di una politica di neutralità che consenta, in maniera generale ed indiscriminata, di indossare segni visibili di convinzioni personali, in particolare filosofiche o religiose, anche nei contatti con gli utenti oppure un divieto di indossare siffatti segni limitato alle situazioni che implicano tali contatti.

Ciò, dal momento che il legislatore dell’Unione ha lasciato agli Stati membri e, se del caso, ai loro enti infrastatali la facoltà di decidere, tenuto conto del contesto loro proprio, quanto spazio concedere alla religione o alle convinzioni filosofiche nel settore pubblico e di effettuare la necessaria conciliazione tra la libertà di pensiero, di convinzione e di religione e le finalità legittime che possono essere invocate a giustificazione di una disparità di trattamento ai sensi dell’art. 2, par. 2, lett. b), punto i), Dir. cit.

Pertanto, la volontà dell’amministrazione di dare ai propri utenti un’immagine di neutralità può ritenersi idonea a giustificare la discriminazione purché il divieto datoriale:

  • assicuri che la politica di neutralità sia realmente perseguita “in modo coerente e sistematico”;
  • risulti strettamente necessario alla luce della portata e della gravità delle conseguenze sfavorevoli che l’amministrazione intende evitare;
  • riguardi qualsiasi forma visibile di espressione delle convinzioni politiche, filosofiche o religiose quando i lavoratori sono a contatto con il pubblico o tra loro, in quanto il fatto di indossare segni, anche se di piccole dimensioni, compromette l’idoneità della misura a raggiungere l’obiettivo perseguito e rimette in discussione la coerenza stessa di tale politica.

Siffatto accertamento compete al giudice del rinvio, che dovrà procedere ad “una ponderazione degli interessi in gioco” tenendo conto, da un lato, del diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione e del divieto di qualsiasi forma di discriminazione fondata sulla religione (artt. 10 e 21 Carta dei diritti fondamentali) e, dall’altro, del principio di neutralità in applicazione del quale il datore di lavoro pubblico mira a garantire agli utenti e ai propri dipendenti “un ambiente amministrativo privo di manifestazioni visibili di convinzioni personali, in particolare filosofiche o religiose”.

Nel caso di specie, la Corte ha stabilito che  il divieto di indossare simboli religiosi, imposto dal regolamento interno dell’Amministrazione comunale a tutti i dipendenti al fine di assicurare un ambiente di lavoro totalmente neutro, non costituisce una discriminazione fondata sulla religione, purché tale norma “sia idonea, necessaria e proporzionata” rispetto al contesto in cui il datore di lavoro pubblico si trova ad operare e tenga conto “dei diversi diritti ed interessi in gioco”, circostanze che spetta al giudice del rinvio verificare.

Sentenza

CORTE DI GIUSTIZIA UE, SENTENZA 28 NOVEMBRE 2023, IN CAUSA C-148/22

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1.La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’articolo 2, paragrafo 2, lettere a) e b), della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (GU 2000, L 303, pag. 16).

2. Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra OP, agente a contratto della commune d’Ans (comune di Ans, in prosieguo: il “comune”), e detto comune in merito al divieto imposto da quest’ultimo ai suoi dipendenti di indossare qualsiasi segno visibile che possa rivelare la loro appartenenza ideologica o filosofica o le loro convinzioni politiche o religiose.

Contesto normativo

Diritto dell’Unione

3. L’articolo 1 della direttiva 2000/78 così dispone:

“La presente direttiva mira a stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento”.

4. L’articolo 2 di tale direttiva, intitolato “Nozione di discriminazione”, prevede quanto segue:

“1. Ai fini della presente direttiva, per “principio della parità di trattamento” si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata su uno dei motivi di cui all’articolo 1.

2. Ai fini del paragrafo 1:

a) sussiste discriminazione diretta quando, sulla base di uno qualsiasi dei motivi di cui all’articolo 1, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga;

b) sussiste discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di un particolare handicap, le persone di una particolare età o di una particolare tendenza sessuale, rispetto ad altre persone, a meno che:

i) tale disposizione, tale criterio o tale prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari; (…)

(…)”.

5. L’articolo 3, paragrafo 1, della richiamata direttiva recita:

“Nei limiti dei poteri conferiti alla Comunità, la presente direttiva, si applica a tutte le persone, sia del settore pubblico che del settore privato, compresi gli organismi di diritto pubblico, per quanto attiene:

(…)

c) all’occupazione e alle condizioni di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e la retribuzione;

(…)”.

Diritto belga

6. La loi du 10 mai 2007 tendant à lutter contre certaines formes de discrimination (legge del 10 maggio 2007 sulla lotta a talune forme di discriminazione; Moniteur belge del 30 maggio 2007, pag. 29016), nella versione applicabile alla controversia principale (in prosieguo: la “legge generale contro la discriminazione”), traspone la direttiva 2000/78 nel diritto belga.

7. L’articolo 4 di tale legge così recita:

“Ai fini dell’applicazione della presente legge, si intende per:

1° rapporti di lavoro: i rapporti che comprendono, tra l’altro, l’occupazione, le condizioni di accesso al lavoro, le condizioni di lavoro e le norme sul licenziamento, e questo:

– sia nel settore pubblico che nel settore privato;

(…)

4° criteri tutelati: l’età, l’orientamento sessuale, lo stato civile, la nascita, il patrimonio, le convinzioni religiose, filosofiche o politiche, la lingua, lo stato di salute attuale o futuro, una disabilità, una caratteristica fisica o genetica, l’origine sociale;

(…)

6° distinzione diretta: la situazione che si verifica allorché, sulla base di uno dei criteri tutelati, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra persona in una situazione analoga;

7° discriminazione diretta: distinzione diretta, fondata su uno dei criteri tutelati, che non può essere giustificata sulla base delle disposizioni del titolo II;

8° distinzione indiretta: la situazione che si verifica allorché una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono comportare un particolare svantaggio per le persone caratterizzate da uno dei criteri tutelati rispetto alle altre;

9° discriminazione indiretta: distinzione indiretta, fondata su uno dei criteri tutelati, che non può essere giustificata sulla base delle disposizioni del titolo II;

(…)”.

8. L’articolo 5, paragrafo 1, di detta legge prevede quanto segue:

“Ad eccezione delle materie di competenza delle comunità o delle regioni, la presente legge si applica a tutte le persone, sia del settore pubblico che del settore privato, compresi gli organismi di diritto pubblico (…)”.

9. L’articolo 7 della legge generale contro la discriminazione recita:

“Ogni distinzione diretta basata su uno dei criteri tutelati costituisce discriminazione diretta, a meno che tale distinzione diretta sia oggettivamente giustificata da una finalità legittima e che i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari”.

10. L’articolo 8 di tale legge così dispone:

“par.1. In deroga all’articolo 7, e fatte salve le altre disposizioni del presente titolo, una distinzione diretta basata sull’età, sull’orientamento sessuale, sulle convinzioni religiose o filosofiche, o su una disabilità nei settori di cui all’articolo 5, paragrafo 1, punti [4, 5 e 7], può essere giustificata unicamente da requisiti professionali essenziali e determinanti.

par.2. Un requisito professionale essenziale e determinante può sussistere unicamente laddove:

– una particolare caratteristica relativa all’età, all’orientamento sessuale, alle convinzioni religiose o filosofiche o alla disabilità sia essenziale e determinante in ragione della natura delle specifiche attività lavorative interessate o del contesto in cui esse vengono espletate, e;

– il requisito si basi su una finalità legittima e sia proporzionato in rapporto ad essa.

par.3. Spetta al giudice verificare, caso per caso, se tale determinata caratteristica costituisca un requisito professionale essenziale e determinante.

(…)”.

11. L’articolo 9 di detta legge è formulato nei termini seguenti:

“Qualsiasi distinzione indiretta fondata su uno dei criteri tutelati costituisce una discriminazione indiretta,

– a meno che la disposizione, il criterio o la prassi apparentemente neutri su cui si basa la distinzione indiretta siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari; o,

– a meno che, in caso di distinzione indiretta basata sulla disabilità, sia dimostrato che non è possibile adottare alcuna soluzione ragionevole”.

Procedimento principale e questioni pregiudiziali

12. La ricorrente nel procedimento principale lavora per il comune dall’11 aprile 2016 e occupa, dall’11 ottobre 2016, il posto di “responsabile dell’ufficio”, funzione che svolge principalmente senza contatto con gli utenti del servizio pubblico (“back office”). Essa ha esercitato la sua funzione senza indossare segni idonei a rivelare le sue convinzioni religiose e senza formulare rivendicazioni scritte in tal senso fino all’8 febbraio 2021, data in cui ha chiesto di poter portare il “velo sul lavoro” a partire dal 22 febbraio 2021.

13. Con decisione del 18 febbraio 2021, la giunta comunale del comune (in prosieguo: la “giunta”) ha respinto tale domanda e ha provvisoriamente vietato alla ricorrente nel procedimento principale di indossare, nell’esercizio della sua attività professionale, segni che rivelassero le sue convinzioni religiose, fino all’adozione di una normativa generale relativa all’uso di tali segni all’interno dell’amministrazione comunale.

14. Il 26 febbraio 2021, dopo aver sentito la ricorrente nel procedimento principale, la giunta ha adottato una seconda decisione, che confermava il divieto in questione fino all’adozione di una siffatta normativa generale.

15. Il 29 marzo 2021, il consiglio comunale ha modificato il regolamento di lavoro di tale comune inserendovi un obbligo di “neutralità esclusiva” sul luogo di lavoro, inteso come divieto per tutti i dipendenti del comune di indossare, in tale luogo, qualsiasi segno visibile idoneo a rivelare le loro convinzioni personali, in particolare religiose o filosofiche, a prescindere dal fatto che tali dipendenti siano o meno a contatto con il pubblico. L’articolo 9 di tale regolamento prevede quindi, in particolare, quanto segue:

“Il lavoratore ha libertà di espressione nel rispetto del principio di neutralità, del proprio obbligo di riservatezza e del proprio dovere di lealtà.

Il lavoratore è tenuto a rispettare il principio di neutralità, il che implica il dovere di astenersi da qualsiasi forma di proselitismo e il divieto di esibire qualsiasi segno vistoso che possa rivelare la sua appartenenza ideologica o filosofica o le sue convinzioni politiche o religiose. Tale regola si applica al lavoratore sia nell’ambito dei suoi contatti con il pubblico sia nei suoi rapporti con i suoi superiori e i suoi colleghi.

(…)”.

16. La ricorrente nel procedimento principale ha avviato vari procedimenti diretti a far dichiarare che la sua libertà di religione era stata violata, e tra questi in particolare un’azione inibitoria, proposta dinanzi al giudice del rinvio, avverso le due decisioni individuali menzionate ai punti 13 e 14 della presente sentenza nonché contro la modifica del regolamento di lavoro di cui trattasi nel procedimento principale. A sostegno di tale azione, essa afferma di essere stata discriminata a causa della sua religione.

17. Per quanto riguarda tali decisioni individuali, il giudice del rinvio ritiene che il divieto di indossare il velo islamico imposto alla ricorrente nel procedimento principale costituisca una differenza di trattamento direttamente fondata sulla religione di quest’ultima rispetto agli altri membri del personale del comune, dal momento che altri segni di convinzioni personali, in particolare religiose, indossati discretamente, sono stati tollerati dal comune sul luogo di lavoro in passato e lo sono tuttora. Peraltro, esso ritiene che tale differenza di trattamento non sia giustificata da requisiti professionali essenziali e determinanti, ai sensi dell’articolo 8 della legge generale contro la discriminazione, in quanto la ricorrente nel procedimento principale esercita le sue funzioni principalmente in “back office”, e che costituisca quindi una discriminazione diretta, ai sensi della direttiva 2000/78. Di conseguenza, esso ha dichiarato fondata l’azione della ricorrente nel procedimento principale per il periodo compreso tra il 18 febbraio 2021, data di adozione della prima di tali decisioni individuali, e il 29 marzo 2021, data di adozione della modifica del regolamento di lavoro di cui trattasi nel procedimento principale.

18. Per quanto riguarda tale modifica, il giudice del rinvio afferma che essa mira a garantire che tanto gli atti compiuti dall’agente pubblico quanto il suo aspetto siano rigorosamente neutri, indipendentemente dalla natura delle sue funzioni e dal contesto in cui sono esercitate. Esso ritiene che la regola introdotta da detta modifica costituisca apparentemente una discriminazione indiretta poiché essa è neutra, ma che l’applicazione che ne viene fatta dal comune sia a geometria variabile. Infatti, secondo tale giudice, tale regola è “esclusiva” nei confronti della ricorrente nel procedimento principale e “più inclusiva” per i suoi colleghi che hanno altre convinzioni personali. Di conseguenza, detto giudice ha provvisoriamente consentito alla ricorrente nel procedimento principale di indossare un segno visibile che possa rivelare le sue convinzioni religiose, ma unicamente quando lavora in “back office” e non quando è a contatto con gli utenti o quando esercita una funzione di autorità.

19. Tuttavia, il giudice del rinvio nutre dubbi quanto alla conformità con le disposizioni della direttiva 2000/78 di una disposizione di un regolamento di lavoro, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, che impone un obbligo di “neutralità esclusiva” a tutti i dipendenti di una pubblica amministrazione, anche a quelli che non hanno rapporti con gli utenti.

20. In tale contesto, il tribunal du travail de Liège (Tribunale del lavoro di Liegi, Belgio) ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:

“1) Se l’articolo 2, paragrafo 2, lettere a) e b), della direttiva [2000/78] possa essere interpretato nel senso che autorizza una pubblica amministrazione a organizzare un ambiente amministrativo totalmente neutro e a vietare pertanto a tutti i membri del personale, a prescindere dal fatto che siano o meno a diretto contatto con il pubblico, di indossare segni [che possano rivelare convinzioni religiose].

2) Se l’articolo 2, paragrafo 2, lettere a) e b), della direttiva [2000/78] possa essere interpretato nel senso che autorizza una pubblica amministrazione a organizzare un ambiente amministrativo totalmente neutro e a vietare pertanto a tutti i membri del personale, a prescindere dal fatto che siano o meno a diretto contatto con il pubblico, di indossare segni [che possano rivelare convinzioni religiose], benché tale divieto neutro sembri colpire in maggioranza le donne, potendo dunque costituire una discriminazione dissimulata fondata sul genere”.

Sulle questioni pregiudiziali

Sulla prima questione

21. Con la prima questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 2, paragrafo 2, lettere a) e b), della direttiva 2000/78 debba essere interpretato nel senso che una norma interna di un’amministrazione comunale che vieta, in maniera generale e indiscriminata, ai membri del personale di tale amministrazione di indossare in modo visibile, sul luogo di lavoro, qualsiasi segno che riveli, in particolare, convinzioni filosofiche o religiose, possa essere giustificata dalla volontà di detta amministrazione di creare un ambiente amministrativo totalmente neutro.

22. In via preliminare, occorre ricordare, da un lato, che la nozione di “religione” di cui all’articolo 1 della direttiva 2000/78 comprende sia il forum internum, ossia il fatto di avere convinzioni, sia il forum externum, ossia la manifestazione pubblica della fede religiosa (sentenza del 14 marzo 2017, G4S S.S., C-157/15, EU:C:2017:203, punto 28). Si deve aggiungere che tale articolo cita allo stesso titolo la religione e le convinzioni personali, al pari dell’articolo 19TFUE, ai sensi del quale il legislatore dell’Unione europea può prendere i provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni fondate, tra l’altro, sulla “religione o le convinzioni personali”, o dell’articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che, tra i diversi motivi di discriminazione che esso menziona, prende in considerazione “la religione o le convinzioni personali”. Ne consegue che, ai fini dell’applicazione di tale direttiva, i termini “religione” e “convinzioni personali” vanno trattati come due facce dello stesso e unico motivo di discriminazione (sentenza del 15 luglio 2021, W. e M.M.H., C-804/18 e C-341/19, EU:C:2021:594, punto 47).

23. Dall’altro lato, dato che, conformemente all’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2000/78, quest’ultima si applica a tutte le persone, sia del settore pubblico che del settore privato, compresi gli organismi di diritto pubblico, una disposizione come quella di cui all’articolo 9 del regolamento di lavoro del comune, che vieta al suo personale di indossare in modo visibile sul luogo di lavoro qualsiasi segno di convinzioni personali, in particolare filosofiche o religiose, rientra nell’ambito di applicazione di tale direttiva. Peraltro, una siffatta disposizione dev’essere considerata afferente “all’occupazione e alle condizioni di lavoro”, ai sensi di tale articolo 3, paragrafo 1, lettera c), di tale direttiva.

24. Esposte tali precisazioni, occorre osservare che la prima questione del giudice del rinvio riguarda sia l’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78, relativo alla “discriminazione diretta”, sia l’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), di tale direttiva, relativo alla “discriminazione indiretta”.

25. A tale proposito, occorre ricordare che una norma interna stabilita da un datore di lavoro che vieta sul luogo di lavoro soltanto l’uso di segni di convinzioni personali, in particolare filosofiche o religiose, che siano vistosi e di grandi dimensioni può costituire una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78, nei casi in cui il criterio relativo all’uso di tali segni sia inscindibilmente legato a una o più religioni o convinzioni personali determinate [v., in tal senso, sentenze del 15 luglio 2021, W. e M.M.H., C-804/18 e C-341/19, EU:C:2021:594, punti da 72 a 78, nonché del 13 ottobre 2022, S.C.R.L. (Abbigliamento con connotazione religiosa), C-344/20, EU:C:2022:774, punto 31]. Tuttavia, dalla decisione di rinvio non risulta che la norma di cui trattasi nel procedimento principale rientri in una fattispecie di questo tipo.

26. Per contro, una norma interna stabilita da un datore di lavoro che vieta di indossare sul luogo di lavoro qualsiasi segno visibile di convinzioni personali, in particolare filosofiche o religiose, non costituisce una siffatta discriminazione diretta ove riguardi indifferentemente qualsiasi manifestazione di tali convinzioni e tratti in maniera identica tutti i dipendenti dell’impresa, imponendo loro, in maniera generale ed indiscriminata, segnatamente, una neutralità di abbigliamento che osta al fatto di indossare tali segni (sentenze del 14 marzo 2017, G4S S.S., C-157/15, EU:C:2017:203, punti 30 e 32, e del 15 luglio 2021, W. e M.M.H., C-804/18 e C-341/19, EU:C:2021:594, punto 52).

27. Infatti, poiché ogni persona può avere una religione o convinzioni religiose, filosofiche o spirituali, una norma di tal genere, a condizione che sia applicata in maniera generale e indiscriminata, non istituisce una differenza di trattamento fondata su un criterio inscindibilmente legato alla religione o a tali convinzioni personali (sentenze del 15 luglio 2021, W. e M.M.H., C-804/18 e C-341/19, EU:C:2021:594, punto 52, e del 13 ottobre 2022, S.C.R.L. (Abbigliamento con connotazione religiosa), C-344/20, EU:C:2022:774, punti 33 e 34].

28. Pertanto, a meno che il giudice del rinvio constati che, nonostante la maniera generale e indifferenziata con cui è formulato l’articolo 9 del regolamento di lavoro di cui trattasi nel procedimento principale, la ricorrente in detto procedimento è stata oggetto di un trattamento diverso rispetto ad altri lavoratori che siano stati autorizzati a manifestare le loro convinzioni personali, in particolare religiose o filosofiche, indossando un segno visibile rivelatore di tali convinzioni personali o in altro modo, e che, per questo, essa ha subito una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78, tale giudice dovrà esaminare se la norma di cui all’articolo 9 del regolamento di lavoro del comune possa comportare un particolare svantaggio per le persone che aderiscono a una determinata religione o a determinate convinzioni personali, effettivamente costitutivo di una discriminazione indiretta fondata su uno di tali motivi, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), di tale direttiva.

29. A tale proposito, da una giurisprudenza costante della Corte risulta che una norma interna, stabilita da un datore di lavoro, che vieta di indossare in modo visibile sul luogo di lavoro qualsiasi segno di convinzioni personali, in particolare filosofiche o religiose, può costituire una differenza di trattamento indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, ai sensi di tale disposizione, qualora venga dimostrato che l’obbligo apparentemente neutro che tale norma contiene comporta, di fatto, un particolare svantaggio per le persone che aderiscono a una determinata religione o ideologia (v. in tal senso, sentenze del 14 marzo 2017, G4S S.S., C-157/15, EU:C:2017:203, punto 34, nonché del 15 luglio 2021, W. e M.M.H., C-804/18 e C-341/19, EU:C:2021:594, punto 59).

30. Conformemente all’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), punto i), della direttiva 2000/78, una siffatta differenza di trattamento non costituisce tuttavia una discriminazione indiretta qualora sia oggettivamente giustificata da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari (sentenza del 15 luglio 2021, W. e M.M.H., C-804/18 e C-341/19, EU:C:2021:594, punto 60).

31. A tale riguardo, occorre rilevare che, se è vero che spetta in ultima analisi al giudice nazionale, che è l’unico competente a valutare i fatti, stabilire se e in quale misura la disposizione del regolamento di lavoro di cui trattasi nel procedimento principale sia conforme a tali requisiti, la Corte, chiamata a fornire risposte utili al giudice nazionale, è competente a dare indicazioni, ricavate dal fascicolo del procedimento principale nonché dalle osservazioni scritte e orali ad essa sottoposte, che consentano al medesimo giudice di pronunciarsi sulla controversia concreta di cui è investito.

32. In primo luogo, per quanto riguarda la condizione relativa all’esistenza di una finalità legittima, dalla domanda di pronuncia pregiudiziale risulta che, secondo il comune, l’articolo 9 del regolamento di lavoro di cui trattasi nel procedimento principale, recante divieto di indossare in modo visibile qualsiasi segno che riveli le convinzioni personali, in particolare filosofiche o religiose, dei membri del personale del comune, a prescindere dal fatto che questi ultimi siano o meno a contatto con il pubblico, ha lo scopo di attuare il principio di neutralità del servizio pubblico, il quale troverebbe il suo fondamento giuridico negli articoli 10 e 11 della Costituzione belga, nel principio di imparzialità e nel principio di neutralità dello Stato.

33. A tale riguardo, a ciascuno Stato membro, ivi compresi, eventualmente, i suoi enti infrastatali, nel rispetto delle competenze loro attribuite, dev’essere riconosciuto un margine di discrezionalità nella concezione della neutralità del servizio pubblico che esso intende promuovere sul luogo di lavoro. Pertanto, la politica di “neutralità esclusiva” che una pubblica amministrazione, nel caso di specie comunale, intende imporre ai suoi dipendenti, a seconda del contesto suo proprio e nell’ambito delle sue competenze, al fine di instaurare al suo interno un ambiente amministrativo totalmente neutro, può essere considerata oggettivamente giustificata da una finalità legittima, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), punto i), della direttiva 2000/78. Del pari, può esserlo la scelta di un’altra pubblica amministrazione, a seconda del contesto suo proprio e nell’ambito delle sue competenze, a favore di un’altra politica di neutralità, quale un’autorizzazione generale e indiscriminata a indossare segni visibili di convinzioni personali, in particolare filosofiche o religiose, anche nei contatti con gli utenti, oppure un divieto di indossare siffatti segni limitato alle situazioni che implicano tali contatti.

34. Infatti, la direttiva 2000/78 stabilisce soltanto un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, che lascia un margine di discrezionalità agli Stati membri e, se del caso, ai loro enti infrastatali, consentendo loro di tenere conto del contesto loro proprio, in considerazione della diversità dei loro approcci quanto allo spazio che intendono concedere, al loro interno, alla religione o alle convinzioni filosofiche nel settore pubblico. Il margine di discrezionalità così riconosciuto agli Stati membri e, se del caso, ai loro enti infrastatali, in mancanza di consenso a livello dell’Unione, deve tuttavia andare di pari passo con un controllo, che spetta ai giudici nazionali e dell’Unione, consistente, in particolare, nel verificare se le misure adottate, a seconda dei casi, a livello nazionale, regionale o locale siano giustificate in linea di principio e se siano proporzionate (v., in tal senso, sentenza del 15 luglio 2021, W. e M.M.H., C-804/18 e C-341/19, EU:C:2021:594, punti 86 e 88 nonché giurisprudenza citata).

35. Inoltre, dalla direttiva 2000/78 risulta che il legislatore dell’Unione non ha effettuato esso stesso la necessaria conciliazione tra la libertà di pensiero, di convinzione e di religione e le finalità legittime che possono essere invocate a giustificazione di una disparità di trattamento, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), punto i), di tale direttiva, ma ha lasciato il compito di procedere a tale conciliazione agli Stati membri e, se del caso, ai loro enti infrastatali nonché ai loro giudici (sentenza del 15 luglio 2021, W. e M.M.H., C-804/18 e C-341/19, EU:C:2021:594, punto 87).

36. Pertanto, si può ritenere che una disposizione come l’articolo 9 del regolamento di lavoro di cui trattasi nel procedimento principale persegua una finalità legittima, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), punto i), della direttiva 2000/78.

37. In secondo luogo, come ricordato al punto 30 della presente sentenza, una norma interna come quella di cui trattasi nel procedimento principale, per sottrarsi alla qualificazione come “discriminazione indiretta”, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78, deve anche essere idonea a garantire la buona applicazione della finalità perseguita dal datore di lavoro. Nel caso di specie, ciò presuppone che l’obiettivo della “neutralità esclusiva” che il comune si è prefissato sia realmente perseguito in modo coerente e sistematico, e che il divieto di indossare qualsiasi segno visibile di convinzioni personali, in particolare filosofiche e religiose, previsto dall’articolo 9 del regolamento di lavoro di cui trattasi nel procedimento principale si limiti allo stretto necessario (v., in tal senso, sentenza del 15 luglio 2021, W. e M.M.H., C-804/18 e C-341/19, EU:C:2021:594, punto 68).

38. A tale proposito, anzitutto, spetterà al giudice del rinvio verificare se il comune persegua tale finalità in modo realmente coerente e sistematico nei confronti dell’insieme dei dipendenti.

39. Occorre poi rilevare che la finalità legittima consistente nell’assicurare, attraverso una politica di “neutralità esclusiva” come quella stabilita dall’articolo 9 del regolamento di lavoro di cui trattasi nel procedimento principale, un ambiente amministrativo totalmente neutro può essere perseguita efficacemente solo se non è ammessa alcuna manifestazione visibile di convinzioni personali, in particolare filosofiche o religiose, quando i lavoratori sono a contatto con gli utenti del servizio pubblico o sono a contatto tra loro, poiché il fatto di indossare qualsiasi segno, anche se di piccole dimensioni, compromette l’idoneità della misura a raggiungere l’obiettivo asseritamente perseguito e rimette così in discussione la coerenza stessa di tale politica (v., in tal senso, sentenza del 15 luglio 2021, W. e M.M.H., C-804/18 e C-341/19, EU:C:2021:594, punto 77). Una norma siffatta è quindi necessaria.

40. Spetterà inoltre al giudice del rinvio, alla luce di tutti gli elementi caratteristici del contesto in cui tale norma è stata adottata, procedere a una ponderazione degli interessi in gioco tenendo conto, da un lato, dei diritti e dei principi fondamentali in questione, ossia, nel caso di specie, il diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione garantito all’articolo 10 della Carta dei diritti fondamentali, il quale ha come corollario il divieto di qualsiasi discriminazione fondata sulla religione sancito all’articolo 21 della stessa e, dall’altro lato, del principio di neutralità in applicazione del quale la pubblica amministrazione interessata mira a garantire, mediante detta norma limitata al luogo di lavoro, agli utenti dei suoi servizi e ai membri del suo personale un ambiente amministrativo privo di manifestazioni visibili di convinzioni personali, in particolare filosofiche o religiose.

41. Alla luce delle considerazioni che precedono, occorre rispondere alla prima questione dichiarando che l’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78 dev’essere interpretato nel senso che una norma interna di un’amministrazione comunale che vieta, in maniera generale e indiscriminata, ai membri del personale di tale amministrazione di indossare in modo visibile, sul luogo di lavoro, qualsiasi segno che riveli, in particolare, convinzioni filosofiche o religiose, può essere giustificata dalla volontà di detta amministrazione di istituire, tenuto conto del proprio contesto, un ambiente amministrativo totalmente neutro, purché tale norma sia idonea, necessaria e proporzionata rispetto a tale contesto e tenuto conto dei diversi diritti e interessi in gioco.

Sulla seconda questione

42. Con la seconda questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 2, paragrafo 2, lettere a) e b), della direttiva 2000/78 debba essere interpretato nel senso che consente a un’autorità pubblica di organizzare un ambiente amministrativo totalmente neutro vietando di indossare in modo visibile segni che rivelino, in particolare, convinzioni filosofiche o religiose all’insieme dei membri del suo personale, a prescindere dal fatto che essi siano o meno a contatto diretto con il pubblico, qualora tale divieto sembri riguardare in maggioranza donne e possa pertanto costituire una discriminazione indiretta fondata sul sesso.

43. In proposito, occorre ricordare che dallo spirito di cooperazione che deve caratterizzare il funzionamento del rinvio pregiudiziale discende che è indispensabile che il giudice nazionale esponga nella sua decisione di rinvio i motivi precisi per cui ritiene che una risposta alle sue questioni sull’interpretazione di determinate disposizioni del diritto dell’Unione sia necessaria alla soluzione della controversia di cui è investito (sentenza del 27 febbraio 2018, A.S.J., C-64/16, EU:C:2018:117, punto 20 e giurisprudenza citata).

44. Secondo una giurisprudenza costante, nell’ambito della cooperazione tra la Corte e i giudici nazionali, la necessità di pervenire a un’interpretazione del diritto dell’Unione che sia utile per il giudice nazionale impone che quest’ultimo rispetti scrupolosamente i requisiti relativi al contenuto di una domanda di pronuncia pregiudiziale e indicati in maniera esplicita all’articolo 94 del regolamento di procedura della Corte (sentenza del 19 aprile 2018, Consorzio I.M.C., C-152/17, EU:C:2018:264, punto 21 e giurisprudenza citata).

45. Così, da un lato, conformemente all’articolo 94, lettera a), del regolamento di procedura, è indispensabile che il giudice del rinvio definisca il contesto di fatto e di diritto nel quale si inseriscono le questioni da esso sollevate o che, quantomeno, illustri le ipotesi di fatto su cui si basano tali questioni. Infatti, nell’ambito del procedimento istituito dall’articolo 267 TFUE, la Corte può pronunciarsi esclusivamente sull’interpretazione di un testo dell’Unione a partire dai fatti ad essa presentati dal giudice nazionale (sentenza del 2 marzo 2023, B.R.M., C-394/21, EU:C:2023:146, punto 60 e giurisprudenza citata).

46. Dall’altro lato, come enunciato all’articolo 94, lettera c), del regolamento di procedura, è indispensabile che la decisione di rinvio contenga l’illustrazione dei motivi che hanno indotto il giudice del rinvio a interrogarsi sull’interpretazione di determinate disposizioni del diritto dell’Unione, nonché il collegamento che esso stabilisce tra dette disposizioni e la normativa nazionale applicabile alla causa principale (sentenza del 2 settembre 2021, I.F., C-570/19, EU:C:2021:664, punto 133 e giurisprudenza citata).

47. Si deve altresì sottolineare che le informazioni contenute nelle decisioni di rinvio servono non solo a consentire alla Corte di fornire risposte utili, bensì anche a dare ai governi degli Stati membri e alle altre parti interessate la possibilità di presentare osservazioni ai sensi dell’articolo 23 dello Statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea. Spetta alla Corte provvedere affinché tale possibilità sia garantita, tenuto conto del fatto che, a norma della suddetta disposizione, soltanto le decisioni di rinvio vengono notificate alle parti interessate (sentenza del 2 settembre 2021, I.F., C-570/19, EU:C:2021:664, punto 134 e giurisprudenza citata).

48. Nel caso di specie, per quanto riguarda l’esistenza di un’eventuale discriminazione indiretta fondata sul sesso, menzionata in tale seconda questione, occorre ricordare che tale motivo rientra nell’ambito di applicazione della direttiva 2006/54/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 luglio 2006, riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego (GU 2006, L 204, pag. 23) che, all’articolo 2, paragrafo 1, lettera b), definisce espressamente la nozione di discriminazione indiretta fondata sul sesso, e non nell’ambito di applicazione della direttiva 2000/78, che è l’unico atto menzionato da detta questione.

49. Inoltre, la decisione di rinvio non contiene indicazioni che consentano di determinare l’ipotesi di fatto su cui si fonda la seconda questione nonché i motivi per i quali una risposta a tale questione, in aggiunta alla risposta alla prima questione, sarebbe necessaria per la soluzione della controversia principale.

50. In tali circostanze, la seconda questione è irricevibile.

Sulle spese

51. Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.

P.Q.M.

Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara:

L’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro,

dev’essere interpretato nel senso che:

una norma interna di un’amministrazione comunale che vieta, in maniera generale e indiscriminata, ai membri del personale di tale amministrazione di indossare in modo visibile, sul luogo di lavoro, qualsiasi segno che riveli, in particolare, convinzioni filosofiche o religiose, può essere giustificata dalla volontà di detta amministrazione di istituire, tenuto conto del proprio contesto, un ambiente amministrativo totalmente neutro, purché tale norma sia idonea, necessaria e proporzionata rispetto a tale contesto e tenuto conto dei diversi diritti e interessi in gioco.

 

Pubblico impiego e divieto di indossare simboli religiosi sul luogo di lavoro
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