Le condotte extra lavorative integranti illecito penale tenute prima dell’instaurazione del rapporto lavorativo non rilevano a meno che siano incompatibili con il vincolo fiduciario fra lavoratore e datore di lavoro.
Nota a Cass. ord. 20 febbraio 2024, n. 4502
Flavia Durval
La Corte di Cassazione ord. 20 febbraio 2024, n. 4502 (conf. a Cass. n. 3076/2020, in q. sito con nota di C.N. PLACCO e Cass. n. 24259/2016) sintetizza taluni rilevanti principi in tema di condotte extra lavorative illecite, precisando che:
a) in via generale si può configurare una responsabilità disciplinare solo quando la condotta sia posta in essere mentre il rapporto di lavoro è in corso (anche se non necessariamente in connessione con le mansioni espletate);
b) al di fuori del rapporto di lavoro non può infatti diversamente raffigurarsi un obbligo di diligenza e/o di fedeltà ex artt. 2104 e 2105 c.c. e, quindi, una sua ipotetica violazione idonea a dare luogo a responsabilità disciplinare ex art. 2106 c.c. Sicché anche nel caso in cui i contratti collettivi inseriscano nell’elenco degli illeciti disciplinari “puramente e semplicemente, l’avere il lavoratore riportato condanna penale per determinati fatti-reato non connessi con lo svolgimento del rapporto di lavoro, nondimeno tali previsioni possono definirsi stricto sensu come disciplinari soltanto ove la condotta criminosa e la condanna abbiano avuto luogo durante il rapporto medesimo”;
c) tuttavia, quanto detto non esclude che comportamenti costituenti reato possano integrare giusta causa di licenziamento anche se realizzati “a rapporto lavorativo non ancora in corso e non in connessione con esso”. Come noto, infatti, ai sensi degli artt. 2119 c.c. e 1, L. n. 604/1966, “per giusta causa non si intende unicamente la condotta ontologicamente disciplinare, ma anche quella che, pur non essendo stata posta in essere in connessione con lo svolgimento del rapporto di lavoro e magari si sia verificata anteriormente ad esso, nondimeno si riveli ugualmente incompatibile con il permanere di quel vincolo fiduciario che lo caratterizza e sempre che sia stata giudicata con sentenza di condanna irrevocabile intervenuta a rapporto ormai in atto” (Cass. n. 24259/2016, cit);
d) pertanto, nell’ipotesi di condotta criminosa realizzata prima dell’instaurazione del rapporto di lavoro, il giudice dovrà valutare se la condotta extralavorativa sia di per sé incompatibile con l’essenziale elemento fiduciario proprio del rapporto di lavoro. Ciò, sulla base del seguente principio di diritto: “condotte costituenti reato possono – anche a prescindere da apposita previsione contrattuale in tal senso – integrare giusta causa di licenziamento sebbene realizzate prima dell’instaurarsi del rapporto di lavoro, purché siano state giudicate con sentenza di condanna irrevocabile intervenuta a rapporto ormai in atto e si rivelino – attraverso una verifica giurisdizionale da effettuarsi sia in astratto sia in concreto – incompatibili con il permanere di quel vincolo fiduciario che lo caratterizza”.
Tutto ciò premesso, i giudici hanno osservato che: 1) i fatti addebitati non solo erano assai risalenti nel tempo; 2) la stessa irrevocabilità della sentenza di condanna era precedente alla instaurazione del rapporto di lavoro; 3) la sentenza della Corte di merito ha evidenziato come la società non avesse né specificamente indicato “l’incidenza negativa” di fatti così risalenti “sull’espletamento delle mansioni lavorative” e, quindi, il riflesso attuale sulla concretezza del rapporto, né provato la perdurante contiguità con ambienti criminali, “limitandosi a prospettare un mero rischio ancorato a “fatti accertati o commessi […] anteriormente alla instaurazione del rapporto di lavoro”. Con la conseguenza che i comportamenti così risalenti non sono stati considerati dai giudici di merito incompatibili con il permanere del vincolo fiduciario connotante il rapporto di lavoro dedotto in giudizio; 4) a fronte della esclusione, da parte della Corte territoriale, che i fatti addebitati, estranei al rapporto lavorativo, benché sicuramente gravi, potessero assumere rilevanza disciplinare attuale, in quanto molto risalenti nel tempo e precedenti all’instaurazione del rapporto, la parte ricorrente non ha identificato quali fossero i parametri integrativi del precetto normativo elastico che sarebbero stati violati dai giudici del merito, “per cui la denuncia, mancando l’individuazione di una incoerenza del loro giudizio rispetto agli standards, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale, si traduce in una censura generica e meramente contrappositiva rispetto al giudizio valutativo operato in sede di merito”.
Si riportano le interessanti conclusioni della Corte di Appello di Lecce:
la Corte ha, in sintesi, accertato che la società, dopo aver acquisito dal certificato del casellario giudiziale la notizia della “sussistenza, a carico del C., di un procedimento per reati previsti dall’art. 75 della legge n. 685 del 1975 (associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti) e richiamate le disposizioni antimafia di cui al D. Lgs. n. 159/2011”, aveva contestato al dipendente che “la Sua presenza all’interno dell’organizzazione lavorativa è divenuta incompatibile stante i procedimenti penali in corso così come accertati e riportati nella documentazione consegnata”, evidenziando altresì che la società aveva “rapporti unicamente con le pubbliche amministrazioni e dovendo obbligatoriamente vigilare affinché nella propria organizzazione non vi siano dipendenti contigui al mondo della <criminalità organizzata>”;
la Corte, respingendo il motivo di appello della società, ha innanzitutto ritenuto che “il nucleo della contestazione” dovesse essere individuato “nella prevenzione del rischio effettivo di infiltrazioni mafiose nella compagine aziendale”, ma che, “in concreto, il rischio risulta essere stato ancorato dall’appellante esclusivamente ai richiamati carichi pendenti per fatti accertati e commessi dall’appellato anteriormente alla instaurazione del rapporto di lavoro e non connessi con la prestazione lavorativa”; ha, quindi, argomentato che la società aveva “proposto un’interpretazione ampia del concetto di giusta causa di licenziamento, in buona sostanza facendo coincidere il fatto/comportamento addebitabile al lavoratore con uno status giuridico soggettivo di costui, avulso dal rapporto di lavoro anche sotto il profilo cronologico, come appunto il mero fatto di essere sottoposto a procedimento penale per vicende anteriori ed estranee”;
tuttavia, secondo la Corte, “mancando la valutazione specifica dell’incidenza negativa del procedimento penale ivi menzionato sull’espletamento delle mansioni lavorative o sulla permeabilità dell’azienda rispetto alle infiltrazioni mafiose”, doveva reputarsi che la giusta causa di licenziamento fosse “manifestamente insussistente”;
Sentenza
CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 20 febbraio 2024, n. 4502
Lavoro – Licenziamento – Rischio effettivo di infiltrazioni mafiose nella compagine aziendale – Valutazione specifica dell’incidenza negativa del procedimento penale sull’espletamento delle mansioni lavorative – Condotte extra lavorative integranti illecito penale tenute prima dell’instaurazione del rapporto lavorativo – Incompatibilità con il vincolo fiduciario – Rigetto
Rilevato che
1.la Corte di Appello di Lecce, con la sentenza impugnata, ha confermato la pronuncia di prime cure con cui, nell’ambito di un procedimento ex lege n. 92 del 2012, era stata accolta l’impugnativa del licenziamento intimato in data 19 aprile 2019 a C.F. dalla M. S.r.l., esercente attività di raccolta di rifiuti solidi urbani, con conseguente condanna alla reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro ed al pagamento di una indennità risarcitoria commisurata a dodici mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, oltre al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del recesso fino a quello dell’effettiva reintegra;
2. la Corte ha, in sintesi, accertato che la società, dopo aver acquisito dal certificato del casellario giudiziale la notizia della “sussistenza, a carico del C., di un procedimento per reati previsti dall’art. 75 della legge n. 685 del 1975 (associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti) e richiamate le disposizioni antimafia di cui al D. Lgs. n. 159/2011”, aveva contestato al dipendente che “la Sua presenza all’interno dell’organizzazione lavorativa è divenuta incompatibile stante i procedimenti penali in corso così come accertati e riportati nella documentazione consegnata”, evidenziando altresì che la società aveva “rapporti unicamente con le pubbliche amministrazioni e dovendo obbligatoriamente vigilare affinché nella propria organizzazione non vi siano dipendenti contigui al mondo della <criminalità organizzata>”;
la Corte, respingendo il motivo di appello della società, ha innanzitutto ritenuto che “il nucleo della contestazione” dovesse essere individuato “nella prevenzione del rischio effettivo di infiltrazioni mafiose nella compagine aziendale”, ma che, “in concreto, il rischio risulta essere stato ancorato dall’appellante esclusivamente ai richiamati carichi pendenti per fatti accertati e commessi dall’appellato anteriormente alla instaurazione del rapporto di lavoro e non connessi con la prestazione lavorativa”; ha, quindi, argomentato che la società aveva “proposto un’interpretazione ampia del concetto di giusta causa di licenziamento, in buona sostanza facendo coincidere il fatto/comportamento addebitabile al lavoratore con uno status giuridico soggettivo di costui, avulso dal rapporto di lavoro anche sotto il profilo cronologico, come appunto il mero fatto di essere sottoposto a procedimento penale per vicende anteriori ed estranee”;
tuttavia, secondo la Corte, “mancando la valutazione specifica dell’incidenza negativa del procedimento penale ivi menzionato sull’espletamento delle mansioni lavorative o sulla permeabilità dell’azienda rispetto alle infiltrazioni mafiose”, doveva reputarsi che la giusta causa di licenziamento fosse “manifestamente insussistente”;
la Corte territoriale ha negato poi che ricorressero i presupposti di legittimità del recesso sia per giustificato motivo oggettivo, sia per giustificato motivo soggettivo “in mancanza di prova dell’attualità della condotta del C. con associazione di criminalità organizzata”;
3. quanto alla tutela applicabile ad un contratto soggetto alla disciplina sanzionatoria contenuta nella l. n. 92 del 2012, conformemente al primo giudice, la Corte ha ritenuto che fosse “corretto propendere per l’insussistenza ontologica del <fatto> così come contestato poiché esso si risolve nella supposizione, priva di fondamento, che i fatti reato addebitati al C. comprovino/attestino il rischio di infiltrazione nella compagine aziendale di elementi perlomeno contigui ad una organizzazione di criminalità organizzata”; ragione per cui è stata disposta la reintegrazione prevista dall’art. 18, comma 4, dell’art. 18 S.d.L. novellato;
4. per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la soccombente società con tre motivi; ha resistito con controricorso l’intimato, che ha anche comunicato memoria;
all’esito della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nel termine di sessanta giorni;
Considerato che
1.il primo motivo di ricorso denuncia: “Violazione o falsa applicazione dell’art. 3, l. n. 604 del 1966, in relazione all’art. 2119 c.c. (art. 360 n. 3 c.p.c.)”; si critica la sentenza impugnata per avere erroneamente qualificato il licenziamento per cui è causa come recesso per giustificato motivo oggettivo;
col secondo motivo si denuncia: “Violazione o falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. nonché dell’art. 1, l. n. 604 del 1966 (art. 360 n. 3 c.p.c.)”; si critica diffusamente la sentenza impugnata per non avere fatto corretta applicazione della clausola elastica della “giusta causa”; in particolare, si sostiene che “nel caso di specie, la Corte di merito, probabilmente avendo effettuato una operazione di “copia incolla” con altro precedente emesso in fattispecie analoga non ha considerato che non è possibile sostenere che mancherebbe altresì allegazioni e prove sull’effettiva responsabilità del C. per i reati contestatigli […] in quanto il lavoratore è stato condannato e va aggiunto che, con ordinanza del 12.6.2001, il Tribunale di Sorveglianza di Lecce non ha rilevato l’estinzione della pena per il reato contestato e relativo alla associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti”; si aggiunge: “allo stato, quindi, valutata la specifica attività svolta da M. che, come detto, opera unicamente in virtù di contratti di appalto con Pubbliche Amministrazioni, le condotte extra lavorative poste in essere dal C. per come risultanti dal certificato del casellario e non smentite, anche se riferite alla commissione di reati in epoca datata, sono tali da essere considerate giuridicamente rilevanti per il suo datore di lavoro e, quindi, in grado di ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario sussistente tra le parti”;
2. i motivi, congiuntamente esaminabili per connessione, non sono meritevoli di accoglimento;
2.1. innanzitutto, occorre evidenziare che la Corte territoriale ha comunque motivato in ordine alla insussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo soggettivo di licenziamento, attesa la natura “ontologicamente” disciplinare del recesso intimato all’esito di un procedimento disciplinare avuto riguardo a fatti riferibili alla condotta del dipendente; sicché perde di rilievo decisivo la censura formulata col primo motivo di ricorso;
2.2. ciò posto, vale ribadire quanto già affermato da questa Corte con riferimento a condotte extra lavorative, integranti illecito penale, tenute prima dell’instaurazione del rapporto lavorativo (cfr. Cass. n. 24259 del 2016; conf. Cass. n. 3076 del 2020);
infatti, in tanto può aversi una responsabilità disciplinare in quanto si tratti d’una condotta posta in essere mentre il rapporto di lavoro è in corso (quantunque non necessariamente in connessione con le mansioni espletate);
diversamente, non si configura neppure un obbligo di diligenza e/o di fedeltà ex artt. 2104 e 2105 c.c. e, quindi, una sua ipotetica violazione, l’unica che possa dare luogo ex art. 2106 c.c. a responsabilità disciplinare; anche laddove i contratti collettivi inseriscano nel novero degli illeciti disciplinari, puramente e semplicemente, l’avere il lavoratore riportato condanna penale per determinati fatti-reato non connessi con lo svolgimento del rapporto di lavoro, nondimeno tali previsioni possono definirsi stricto sensu come disciplinari soltanto ove la condotta criminosa e la condanna abbiano avuto luogo durante il rapporto medesimo;
tuttavia, il precedente richiamato chiarisce come ciò non significhi che condotte costituenti reato non possano integrare giusta causa di licenziamento pur essendo state realizzate a rapporto lavorativo non ancora in corso e non in connessione con esso; è noto, infatti, che per giusta causa ai sensi degli artt. 2119 c.c. e 1 legge n. 604 del ‘66 non si intende unicamente la condotta ontologicamente disciplinare, ma anche quella che, pur non essendo stata posta in essere in connessione con lo svolgimento del rapporto di lavoro e magari si sia verificata anteriormente ad esso, nondimeno si riveli ugualmente incompatibile con il permanere di quel vincolo fiduciario che lo caratterizza e sempre che sia stata giudicata con sentenza di condanna irrevocabile intervenuta a rapporto ormai in atto;
avuto specifico riguardo all’ipotesi che la condotta criminosa sia stata realizzata prima dell’instaurazione del rapporto di lavoro, secondo Cass. n. 24259/2016 cit., il giudice dovrà direttamente valutare se la condotta extralavorativa sia di per sé incompatibile con l’essenziale elemento fiduciario proprio del rapporto di lavoro, osservando il seguente principio di diritto: “Condotte costituenti reato possono – anche a prescindere da apposita previsione contrattuale in tal senso- integrare giusta causa di licenziamento sebbene realizzate prima dell’instaurarsi del rapporto di lavoro, purché siano state giudicate con sentenza di condanna irrevocabile intervenuta a rapporto ormai in atto e si rivelino – attraverso una verifica giurisdizionale da effettuarsi sia in astratto sia in concreto – incompatibili con il permanere di quel vincolo fiduciario che lo caratterizza”;
2.3. nella specie i fatti addebitati non solo sono assai risalenti nel tempo (in quanto commessi tra il 1988 e il 1991), ma la stessa irrevocabilità della sentenza di condanna è precedente (19.4.1995) alla instaurazione del rapporto di lavoro e la sentenza impugnata non manca di evidenziare come la società non abbia specificamente indicato “l’incidenza negativa” di fatti così risalenti “sull’espletamento delle mansioni lavorative”, e quindi il riflesso attuale sulla concretezza del rapporto, né tanto meno abbia provato la perdurante contiguità con ambienti criminali, limitandosi a prospettare un mero rischio ancorato a “fatti accertati o commessi […] anteriormente alla instaurazione del rapporto di lavoro”;
2.4. rispetto a questa valutazione compiuta dai giudici del merito, che non hanno ritenuto condotte così risalenti incompatibili con il permanere del vincolo fiduciario connotante il rapporto di lavoro dedotto in giudizio, è sufficiente richiamare i noti i limiti del sindacato di legittimità nelle ipotesi di giusta causa e di giustificato motivo soggettivo di licenziamento (per i quali si rinvia, ai sensi dell’art. 118, comma 1, disp. att. c.p.c., a Cass. n. 13064 del 2022 ed alla giurisprudenza ivi citata; conf. v. Cass. n. 20780 del 2022 e, da ultimo, Cass. n. 107 del 2024);
in particolare, è stato evidenziato che l’attività di integrazione del precetto normativo di cui all’art. 2119 c.c. compiuta dal giudice di merito è sindacabile in cassazione a condizione, però, che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli standards, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale (cfr. Cass. n. 985 del 2017; Cass. n. 5095 del 2011; Cass. n. 9266 del 2005);
ciò posto, al cospetto della motivazione con cui la Corte territoriale ha escluso che i fatti addebitati, estranei al rapporto lavorativo, sebbene sicuramente gravi, potessero assumere rilevanza disciplinare attuale, in quanto molto risalenti nel tempo e precedenti all’instaurazione del rapporto, parte ricorrente non identifica quali siano i parametri integrativi del precetto normativo elastico che sarebbero stati violati dai giudici del merito, per cui la denuncia, mancando l’individuazione di una incoerenza del loro giudizio rispetto agli standards, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale, si traduce in una censura generica e meramente contrappositiva rispetto al giudizio valutativo operato in sede di merito;
3. da quanto precede deriva anche l’infondatezza del terzo motivo di gravame, con cui ci si duole della tutela reintegratoria riconosciuta al lavoratore illegittimamente licenziato nel vigore della disciplina di cui all’art. 18 della legge n. 300 del 1970, come modificato dalla legge n. 92 del 2012, in quanto il fatto contestato è da ritenere insussistente, ai fini del quarto comma della disposizione citata, quando non abbia rilevanza disciplinare (ab imo, Cass. n. 20540 del 2015), così come accertato dai giudici del merito nel caso che ci occupa;
4. pertanto, il ricorso deve essere respinto, con condanna alle spese secondo il regime della soccombenza, con attribuzione all’Avv. G. che si è dichiarato anticipatario;
ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020);
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 5.500,00, oltre esborsi pari ad euro 200,00, accessori secondo legge e rimborso spese generali al 15%, da distrarsi.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.