La condotta del dipendente che, durante il congedo per malattia, presti attività lavorativa presso l’impresa della moglie costituisce giustificato motivo di licenziamento allorché questa evidenzi una simulazione dell’infermità o pregiudichi la guarigione e il rientro in servizio.
Nota a Cass. 26 gennaio 2024, n. 2516
Sonia Gioia
Lo svolgimento di attività lavorativa presso l’azienda del coniuge, durante l’assenza dal lavoro per malattia, configura una violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà tale da giustificare il licenziamento disciplinare qualora sia provato, anche mediante il ricorso ad accertamento medico – legale, che siffatta condotta sia, di per sé, idonea a far ritenere che lo stato di infermità sia stato fraudolentemente simulato o quando, tenuto conto della patologia lamentata e delle mansioni svolte, sia tale da pregiudicare la possibilità di un pronto recupero dell’integrità psico-fisica.
Lo ha precisato la Corte di Cassazione (26 gennaio 2024, n. 2516, conforme ad App. Roma n. 4823/2019), in relazione ad una fattispecie concernente il licenziamento disciplinare intimato ad un dipendente per aver prestato attività lavorativa, per due giorni, presso l’azienda della moglie durante il periodo di assenza per malattia di una settimana.
Come noto, nel nostro ordinamento non esiste un divieto assoluto per il lavoratore di prestare altra attività, anche a favore di terzi, durante l’assenza dal lavoro per malattia, con la conseguenza che lo svolgimento di tale altra attività non costituisce, di per sé, inadempimento degli obblighi contrattuali posti in capo al dipendente.
Tale assunto trova fondamento nella nozione di malattia rilevante ai fini della sospensione della prestazione lavorativa, che comprende le situazioni in cui l’infermità abbia determinato, per intrinseca gravità e/o per incidenza sulle mansioni normalmente svolte dal prestatore, una concreta ed attuale – seppur transitoria – incapacità al lavoro dello stesso (art. 2110 c.c.), per cui, anche laddove la malattia comprometta la possibilità di svolgere quella determinata attività oggetto del rapporto di impiego, può comunque accadere che le residue capacità psico-fisiche possano consentire al lavoratore altre e diverse attività.
Tuttavia, lo svolgimento di altra attività, lavorativa o extralavorativa, durante il congedo per malattia, può giustificare l’irrogazione della massima sanzione disciplinare in relazione alla violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.) e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà (artt. 2104 e 2105 c.c.).
Ciò, sia nell’ipotesi in cui tale attività esterna sia, di per sé, sufficiente a far presumere l’inesistenza dell’infermità adottata a giustificazione dell’assenza, dimostrando, quindi, una sua fraudolenta simulazione, sia quando l’attività stessa – valutata, con giudizio ex ante, in relazione alla natura ed alle caratteristiche della malattia denunciata ed alle funzioni svolte nell’ambito del rapporto di lavoro – sia tale da pregiudicare o ritardare, anche potenzialmente, la guarigione e il rientro in servizio del dipendente (Cass. n. 26496/2018; Cass. n. 10416/2017).
L’accertamento (riservato al giudice di merito) in ordine all’incidenza della diversa attività sulla guarigione concerne la condotta del dipendente nel momento in cui egli, pur essendo malato e per tale ragione assente dal lavoro cui è contrattualmente obbligato, svolge una prestazione che può recare pregiudizio al futuro, tempestivo espletamento delle proprie mansioni.
Si tratta, in particolare, di una valutazione prognostica che può essere effettuata anche mediante accertamento medico – legale, che ha ad oggetto la potenzialità del pregiudizio, dal momento che l’espletamento di altra attività lavorativa durante la malattia costituisce un illecito disciplinare non solo se da tale comportamento derivi un’effettiva impossibilità temporanea della ripresa del lavoro ma anche quando la ripresa sia solo messa in pericolo dalla condotta imprudente del lavoratore.
La prova dell’incidenza della diversa attività nel ritardare o pregiudicare la guarigione, ai fini dell’intimazione del licenziamento disciplinare, è a carico del datore di lavoro, che deve dimostrare la sussistenza di una grave negazione degli elementi essenziali del contratto di lavoro ed, in particolare, di quello fiduciario, con riguardo agli aspetti concreti di esso, concernenti la natura e la qualità del singolo rapporto, la posizione delle parti, il grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente nell’organizzazione dell’impresa, nonché la portata soggettiva del fatto stesso, vale a dire le circostanze e i motivi del suo verificarsi.
Nel caso di specie, la Cassazione ha confermato la pronuncia di merito che aveva ritenuto giustificato il licenziamento intimato, ai sensi dell’art. 2119 c.c., al dipendente per aver lavorato presso l’azienda della moglie durante il congedo per malattia (condotta accertata mediante agenzia investigativa), dal momento che, come emerso da CTU, l’attività svolta risultava potenzialmente idonea a ritardare il rientro in servizio e, pertanto, incompatibile con il dovere del lavoratore di collaborare al recupero della salute per riprendere al più presto la propria attività lavorativa.
Sentenza
CORTE DI CASSAZIONE 26 gennaio 2024, n. 2516
Svolgimento del processo
1.La Corte d’Appello di Roma ha confermato la sentenza del Tribunale di Latina del 18-12-2018 di rigetto dell’impugnativa di A.A. del licenziamento intimatogli dalla società R.O.I. Automotive Technology il 5-11-2010 per motivi disciplinari (aver prestato attività lavorativa per due giorni presso attività commerciale della coniuge, durante periodo di assenza per malattia di una settimana, attività accertata tramite agenzia investigativa).
2. Avverso la predetta sentenza A.A. propone ricorso per cassazione con 5 motivi, illustrati da memoria, cui resiste la società con controricorso.
3. Il P.G. ha concluso per il rigetto del ricorso.
Motivi della decisione
1.Con il primo motivo, parte ricorrente deduce (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.) violazione e falsa applicazione dell’art. 7, comma 2, legge n. 300 del 1970: sostiene che la Corte di merito ha erroneamente affermato che la lettera di contestazione non si riferiva solo all’incompatibilità tra attività svolta e malattia certificata, ma anche al ritardo della guarigione, ponendo così a base della decisione un fatto non contestato né allegato come motivo di licenziamento.
2.Con il secondo motivo deduce (art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.) violazione degli artt. 99, 112e 115 c.p.c.: sostiene che la Corte di merito ha erroneamente posto a base della decisione il fatto, non appartenente al processo, del potenziale ritardo nella guarigione, superando i limiti contrassegnati dal tenore della lettera di licenziamento, così realizzando un error in procedendo per vizio di extra-petizione o ultra-petizione determinante nullità della sentenza.
3. Con il terzo motivo deduce (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.) violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 ss. c.c. sull’interpretazione degli atti negoziali unilaterali: sostiene che la Corte di merito ha erroneamente proceduto ad interpretazione extra-testuale della lettera di licenziamento, in violazione della regola della priorità dell’interpretazione letterale, che non consente di attribuire alle espressioni della parte significati diversi dal senso proprio delle parole utilizzate secondo il fine da questa perseguito.
4. Con il quarto motivo, parte ricorrente censura la sentenza impugnata (art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.) per violazione e falsa applicazione degli artt. 112e 115c.p.c., che vietano al giudice di ricorrere a scienza privata o ad opinioni personali, così realizzandosi un error in procedendo determinante nullità della sentenza.
5. Con il quinto motivo deduce (art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.) vizio di motivazione per omesso esame di fatto decisivo e controverso, per avere il giudice omesso di considerare che l’esito della CTU, cui ha dichiarato di aderire, ha correlato l’ipotesi del ritardo nella guarigione a due requisiti di necessaria compresenza; “molteplici episodi” e “periodi ripetuti”, affermando, invece, solo l’esistenza del primo fatto storico, trascurando il rilievo dell’inesistenza del secondo.
6. Il primo e il terzo motivo, da trattare insieme perché entrambi riguardanti la (denunciata non) corrispondenza tra contestazione dell’addebito e prova della giusta causa di recesso, non sono ammissibili.
7. L’interpretazione degli atti negoziali (ai quali è da assimilare ai fini ermeneutici la lettera di licenziamento quale atto unilaterale recettizio) implica un accertamento di fatto riservato al giudice di merito, che, come tale, può essere denunciato in sede di legittimità solo per violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, ovvero per vizio motivazionale, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti; si è, in particolare, precisato come la parte che, con il ricorso per cassazione, intenda denunciare un errore di diritto o un vizio di ragionamento nell’interpretazione di una clausola contrattuale, non si può limitare a richiamare le regole di cui agli artt. 1362 ss. c.c., avendo invece l’onere di specificare i canoni che in concreto assume violati, ed in particolare il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sia dagli stessi discostato, non potendo le censure risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, poiché quest’ultima non deve essere l’unica astrattamente possibile ma solo una delle plausibili interpretazioni, sicché, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, denunciare in sede di legittimità il fatto che sia stata privilegiata l’altra (Cass. n. 21858-2023, n. 19089-2018, n. 28319-2017, n. 15471-2017, n. 25270-2011, n. 15890-2007, n. 9245-2007).
8. Inoltre, l’interpretazione degli atti negoziali – che è riservata al giudice del merito ed è incensurabile in sede di legittimità ove rispettosa dei criteri legali di ermeneutica contrattuale e sorretta da motivazione immune da vizi – va condotta sulla scorta di due fondamentali elementi che si integrano a vicenda, e cioè il senso letterale delle espressioni usate e la ratio del precetto, nell’ambito non già di una priorità di uno dei due criteri, ma in quello di un razionale gradualismo dei mezzi d’interpretazione, i quali debbono fondersi ed armonizzarsi nell’apprezzamento dell’atto negoziale (cfr. Cass. n. 8088-2023, n. 701-2021, n. 11666-2022, n. 33425-2022).
9. Tali principi generali operano precipuamente anche in tema di licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo, in cui la valutazione della gravità e proporzionalità della condotta rientra nell’attività sussuntiva e valutativa del giudice di merito, avuto riguardo agli elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie, con la quale viene riempita di contenuto la clausola generale dell’art. 2119 c.c.; questa Corte non può sostituirsi al giudice del merito nell’attività di riempimento di concetti giuridici indeterminati, se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza, e tale sindacato sulla ragionevolezza non è quindi relativo alla motivazione del fatto storico, ma alla sussunzione dell’ipotesi specifica nella norma generale, quale sua concretizzazione; l’attività di integrazione del precetto normativo di cui all’art. 2119 c.c. (norma cd. elastica), compiuta dal giudice di merito non può essere censurata in sede di legittimità se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza del giudizio di sussunzione del fatto concreto, siccome accertato, nella norma generale, ed in virtù di una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli standard, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale (cfr. Cass. n.13534-2019, e giurisprudenza ivi richiamata; cfr. anche Cass. n. 985-2017, n. 88-2023; v. anche, Cass. n. 14063-2019, n. 16784-2020, n. 17321-2020, n. 26043-2023).
10. Da tali principi non si è discostata la sentenza impugnata che, da un lato, ha osservato che il comportamento del dipendente che presti attività lavorativa durante il periodo di assenza per malattia può costituire giustificato motivo di recesso ove integrante una violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, tanto nel caso in cui tale attività esterna sia di per sé sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, quanto nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio ex ante (e non ex post come pretende parte ricorrente), in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio. Appunto sulla base della potenziale idoneità dell’attività lavorativa svolta a favore di terzi dal dipendente durante il periodo di malattia oggetto di contestazione, la Corte di merito ha fondato il proprio giudizio di sussunzione del comportamento concreto, quale risultante anche dagli accertamenti peritali svolti nel procedimento dinanzi al Tribunale, nella clausola generale di cui all’art. 2119 c.c.
11. Il secondo motivo, che per certi versi prospetta le medesime questioni sotto il profilo della nullità procedimentale, non è fondato.
12. La dedotta nullità procedimentale non è invero ravvisabile nello svolgimento di CTU per verificare se lo svolgimento di attività lavorativa durante il periodo di malattia, contestato come in violazione degli obblighi di diligenza e buona fede nonché di rendersi reperibile nella fascia oraria di controllo, fosse effettivamente incompatibile con tali obblighi o se fosse invece irrilevante e non lesivo di tali canoni; ciò nell’ambito del principio, operante in materia di licenziamento disciplinare, di necessaria correlazione dell’addebito con la sanzione (cfr. Cass. n. 3079-2020).
13. Poiché, come detto, secondo la giurisprudenza di questa Corte, lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente, durante lo stato di malattia, configura la violazione degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà nonché dei doveri generali di correttezza e buona fede, oltre che nell’ipotesi in cui tale attività esterna sia, di per sé, sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, anche nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio ex ante in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio (Cass. n. 26496-2018, 10416-2017), è del tutto funzionale all’accertamento dell’effettiva violazione dei predetti obblighi l’approfondimento medico-legale finalizzato alla valutazione dell’attività svolta in favore di terzi in relazione alla patologia giustificante l’assenza dal lavoro presso il datore, per così dire, principale. Detto accertamento è risultato nel senso dell’incompatibilità in concreto dell’attività in favore di terzi svolta con i doveri del dipendente nei termini valutativi ex ante come esposti. La questione oggetto di accertamento medico risulta pertanto del tutto rientrante nell’ambito delle domande ed eccezioni svolte dalle parti e senza sconfinamenti esterni a petitum e causa petendi devoluti nel doppio grado di merito.
14. Parimenti infondato risulta il parallelo quarto motivo.
15. Parte ricorrente denuncia la nullità dei passaggi motivazionali della sentenza che, seguendo gli esiti della consulenza tecnica d’ufficio disposta in primo grado e dei successivi chiarimenti, hanno qualificato l’attività svolta in costanza di malattia come potenzialmente idonea a ritardare la guarigione, in quanto ripetuta nel periodo di malattia; hanno considerato tale potenzialità, con valutazione ex ante, pregiudizievole e in violazione dei doveri generali incombenti sul dipendente; ritenuto, in base a tali accertamenti, fondato l’addebito disciplinare a base del licenziamento. Rispetto a tale ragionamento parte ricorrente finisce con il contrapporre il proprio dissenso motivazionale, non rientrante nel paradigma della denunciata nullità, attesa la congruenza tra gli accertamenti svolti e le conclusioni giuridiche tratte dai giudici di merito.
16. Il quinto motivo è inammissibile.
17. La Corte d’Appello di Roma ha confermato integralmente le statuizioni di primo grado, così realizzandosi ipotesi di cd. doppia conforme rilevante ai sensi dell’art. 348-ter c.p.c. (ora 360, comma 4, c.p.c.) e dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., nel senso che, quando la pronuncia di appello conferma la decisione di primo grado per le stesse ragioni, inerenti ai medesimi fatti posti a base della decisione impugnata, il ricorso per cassazione può essere proposto esclusivamente per i motivi di cui all’art. 360, primo comma, nn. 1), 2), 3), 4), c.p.c.; il ricorrente per cassazione, per evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c. (nel testo riformulato applicabile alle sentenze pubblicate dal giorno 11 settembre 2012), deve indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. n. 26774-2016; conf. Cass. n. 20994-2019, n. 8320-2021, n. 5947-2023), tenendo conto che ricorre l’ipotesi di “doppia conforme”, con conseguente inammissibilità della censura di omesso esame di fatti decisivi ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., non solo quando la decisione di secondo grado è interamente corrispondente a quella di primo grado, ma anche quando le due statuizioni siano fondate sul medesimo iter logico-argomentativo in relazione ai fatti principali oggetto della causa, non ostandovi che il giudice di appello abbia aggiunto argomenti ulteriori per rafforzare o precisare la statuizione già assunta dal primo giudice (v. Cass. n. 29715-2018, n. 7724-2022, n. 5934-2023, n. 26934-2023).
18. Il ricorso deve pertanto essere respinto.
19. In ragione della soccombenza parte ricorrente deve essere condannata alla rifusione in favore di parte controricorrente delle spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo.
20. Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, previsto per l’impugnazione.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 4.000 per compensi, Euro 200 per esborsi, spese generali al 15%, accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.