La riorganizzazione della redazione adottata in occasione della gravidanza costituisce discriminazione per maternità della giornalista alla quale al rientro dal congedo non siano riassegnate le sue mansioni.
Trib. Milano 16 gennaio 2024, R.G. N. 7908/23
Maria Paola Gentili
È vietato al datore di lavoro “approfittare” dell’assenza per maternità della lavoratrice per attuare una modifica dell’assetto organizzativo che ponga la lavoratrice stessa in una posizione deteriore rispetto ai propri colleghi.
È quanto afferma il Tribunale di Milano 16 gennaio 2024, n. 7908/23, relativamente ad una vicenda in cui, in ragione dello stato di maternità della lavoratrice, nel periodo di assenza dal servizio, le sue mansioni erano state assorbite dal caporedattore, per cui la stessa, al suo rientro, era stata lasciata sostanzialmente inoperosa ovvero le erano state assegnate mansioni del tutto marginali. Il Tribunale ha ribadito la condanna della società a cessare la condotta discriminatoria e a rimuoverne gli effetti, riassegnando la lavoratrice alle mansioni svolte antecedentemente al congedo di maternità e condannando la società al risarcimento del danno patrimoniale alla professionalità e del danno non patrimoniale all’immagine nonché alla contestuale pubblicazione della sentenza sul quotidiano della società stessa.
I giudici precisano che la normativa a tutela della lavoratrice madre (L. n. 198/2006, novellata dalla L. n. 162/2021 e dalla L. n. 56/2001) ha lo scopo di “tutelare la donna/madre in un periodo di particolare fragilità rappresentato dalla gravidanza/maternità della donna che sposta il suo centro di interessi e di occupazione verso la nascita e le cure da assicurare al neonato e quindi in una posizione materiale e psicologica delicatissima”.
La lavoratrice, inoltre, è “posta nell’impossibilità di difendere la posizione professionale acquisita, non essendo spesso nemmeno a conoscenza di quanto si stia verificando all’interno del posto di lavoro, in suo pregiudizio”.
Per tale motivo il legislatore ha inteso proteggerla contro qualsiasi interferenza che ne possa compromettere la posizione quale che siano le ragioni che ne sono a fondamento. Ciò, cristallizzando la situazione materiale esistente nel luogo di lavoro in attesa del ritorno della lavoratrice/madre, senza che sopravvenga alcuna modificazione che la possa riguardare.
In particolare, la discriminazione si può realizzare non solo in quanto la maternità ne sia la causa (vale a dire che il datore di lavoro voglia colpirla proprio in quanto la maternità si pone in contrasto con gli interessi dell’impresa) ma anche solo in quanto sia l’occasione per farlo, quindi dal punto di vista temporale, approfittando cioè della sua assenza. La terminologia usata dal legislatore “in ragione dello stato di gravidanza” ha proprio un’accezione ampia che può essere intesa tanto “a causa” quanto “in occasione” della stessa.
“E non assume alcun rilievo lo stato psicologico del datore di lavoro, vale a dire che lo faccia volutamente o, semplicemente, per non essere attento al problema in cui la lavoratrice versa: rileva la situazione nella sua oggettività, e cioè se la discriminazione sia stata consumata o meno”.