Licenziabile il funzionario di banca che favorisce aperture di credito di un cliente a favore di altri clienti.
Nota a Cass. 3 gennaio 2024, n. 109
Flavia Durval
Nello specifico, la responsabile di filiale di un istituto di credito favoriva operazioni di concessione di credito da parte di un cliente, agevolandolo durante l’orario di lavoro e nei locali della banca, nell’erogazione di crediti ad altri clienti della banca e gestendo attivamente i rapporti tra le parti coinvolte. Tale condotta, secondo i giudici, ha leso irrimediabilmente il vincolo fiduciario, a prescindere dalla rilevanza penale o no dei comportamenti tenuti.
È quanto afferma la Corte di Cassazione (3 gennaio 2024, n. 109, in linea con App. Bologna) che, nel ritenere legittimo il licenziamento per giusta causa del responsabile di filiale di una banca, ha ribadito due principi:
a) l’immediatezza della contestazione nel procedimento disciplinare va intesa in senso “relativo”, ossia “tenendo conto delle ragioni oggettive che possono ritardare la percezione o il definitivo accertamento e valutazione dei fatti contestati, soprattutto quando il comportamento del lavoratore consista in una serie di fatti che, convergendo a comporre un’unica condotta, esigono una valutazione unitaria: in tal caso l’intimazione del licenziamento può seguire l’ultimo di questi fatti, anche ad una certa distanza temporale dai fatti precedenti” (fra tante v. Cass. n. 16841/2018);
b) sono pienamente utilizzabili nel procedimento disciplinare di cui all’art. 7 Stat. lav., le intercettazioni telefoniche o ambientali effettuate in un procedimento penale,” purché siano state legittimamente disposte nel rispetto delle norme costituzionali e procedimentali, non ostandovi i limiti previsti dall’art. 270 c.p.p., riferibili al solo procedimento penale, in cui si giustificano limitazioni più stringenti in ordine all’acquisizione della prova, in deroga al principio fondamentale della ricerca della verità materiale”.
Sentenza
CORTE di CASSAZIONE 3 GENNAIO 2024, N. 109
Fatti di causa
1.La Corte di Appello di Bologna, con la sentenza impugnata, in riforma della pronuncia di primo grado, nell’ambito di un procedimento ex lege n. 92 del 2012, ha respinto la domanda formulata da E.M. e volta all’accertamento della illegittimità del licenziamento intimatole da B.I. Spa in data 8 maggio 2017, in riferimento ad una contestazione disciplinare dell’8 aprile 2017.
2. La Corte – in sintesi – ha preliminarmente dichiarato “la piena utilizzabilità ai fini della decisione della documentazione inerente le intercettazioni” estratte “dal fascicolo penale della indagine a carico della M. ed altri”.
3. Avuto riguardo alla mancanza di tempestività della contestazione disciplinare, eccepita dalla M., la Corte territoriale, dichiarando di voler dare continuità ad un precedente di questa Corte (Cass. n. 3904 del 2020), ha escluso la tardività della contestazione, argomentando: “nel caso di specie la Banca emerge essersi attivata effettuando una pluralità di accessi presso la Procura della Repubblica per verificare lo stato del procedimento, ma di aver avuto difficoltà ad apprendere le informazioni per trasferimento del magistrato assegnatario del fascicolo per come emergente dalle mail, per la sua posizione di soggetto estraneo al procedimento e per il fatto che il procedimento aveva conosciuto uno stralcio con separato destino dei procedimenti. La Banca poi risulta essersi attivata non appena gli atti gli sono stati consegnati in copia. Né emerge o risulta neppure allegato che la lavoratrice abbia subito per questo alcun pregiudizio”.
4. Nel merito la Corte bolognese ha ritenuto che “gli addebiti devono poi dirsi provati con piena concorrenza della giusta causa di recesso”. Ha, infatti, considerato: “Plurime e reiterate sono le condotte poste in essere dalla M. in violazione degli obblighi propri della funzione (ndr. direttrice di filiale) con evidenti apporti all’attività e agli affari privati del M. che poneva in esser finanziamenti onerosi ad altri clienti della Banca intrattenendo con essi plurimi rapporti […] il ruolo centrale che M. teneva nelle trattative è chiaramente scolpito nel contenuto delle intercettazioni come sopra trascritte e commentate in cui emerge chiaro che la M., anche nel corso dell’attività di lavoro e negli stessi locali della Banca, si spendesse al fine di consentire il buon fine delle operazioni di concessione di credito tenendo rapporti con entrambe le parti, indicando il da farsi, gestendo le emergenze e le reciproche conflittualità ed essendo individuata da entrambi come soggetto di riferimento della trattativa dalla quale ricevano consigli e indicazioni”. La Corte ha aggiunto: “Le allegazioni difensive spese in ordine alla mera esecuzione di attività finalizzate proprie dell’incarico e finalizzate a mantenere i rapporti nell’interesse della Banca con un facoltoso cliente appaiono chiaramente smentite dal contenuto delle telefonate che fa emergere un chiaro coinvolgimento nell’attività di prestito di somme gestite dal Monaco con ruolo del tutto centrale”.
5. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la soccombente con quattro motivi; ha resistito con controricorso B.I. Spa.
Entrambe le parti hanno depositato memorie.
Ragioni della decisione
1.Con il primo motivo di ricorso si denuncia “Art. 360 c.p.c. numero 3): violazione e falsa applicazione dell’art. 7 l. n. 300/1970, degli artt. 1175 e 1375 c.c., e dell’art. 41 CCNL, nonché dell’art. 2697 cod. civ. Sulla tardività della contestazione disciplinare e sulla rinuncia all’esercizio del potere disciplinare”).
Si deduce che, nel caso di specie, la Banca era perfettamente a conoscenza dell’esistenza di un procedimento penale a carico della sig.ra M., e almeno a partire dal mese di ottobre 2016 era anche nelle condizioni di richiedere formalmente l’accesso al fascicolo del procedimento penale, mentre, invece di procedere in tal senso a fronte della prima documentata iniziativa del 20 ottobre 2016, ha atteso fino al 9 gennaio 2017 per la formale richiesta di accesso. Si rimprovera alla sentenza di appello di non aver attribuito, ai fini del giudizio sulla tempestività, alcuna rilevanza al ritardo della Banca nell’intraprendere, pur potendolo fare, un’attività idonea ad acquisire senza indugio gli atti del procedimento penale.
La censura non può trovare accoglimento.
1.1. Posto che il canone del rispetto dell’immediatezza della contestazione nel procedimento disciplinare assume carattere “relativo”, che impone una valutazione caso per caso, secondo un risalente insegnamento giurisprudenziale la valutazione della tempestività della contestazione costituisce una indagine di fatto demandata al giudice del merito (Cass. n. 14113 del 2006; Cass. n. 29480 del 2008; Cass. n. 5546 del 2010; Cass. n. 20719 del 2013; Cass. n. 1247 del 2015; Cass. n. 14324 del 2015; Cass. n. 16841 del 2018). Pertanto, come ogni accertamento di fatto può essere sottoposto al sindacato di questa Corte di legittimità nei ristretti limiti in cui può esserlo ogni quaestio facti, nella vigenza del novellato n. 5 dell’art. 360 c.p.c. così come rigorosamente interpretato dalle Sezioni unite di questa Corte con le sentenze nn. 8053 e 8054 del 2014.
Inoltre, rileva l’avvenuta conoscenza da parte del datore di lavoro della situazione contestata e non l’astratta percettibilità o conoscibilità dei fatti stessi (Cass. n. 23739 del 2008; Cass. n. 21546 del 2007), né, tanto meno, è di per sé sanzionabile – come, invece, sembra sostenere parte ricorrente – un eventuale ritardo nell’acquisizione di elementi che conducano ad accertare la responsabilità disciplinare. Il datore di lavoro, infatti, ha il potere, ma non l’obbligo, di controllare in modo continuo i propri dipendenti, atteso che un simile obbligo, non previsto dalla legge né desumibile dai principi di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., negherebbe in radice il carattere fiduciario del lavoro subordinato, sicché la tempestività della contestazione disciplinare va valutata non in relazione al momento in cui il datore avrebbe potuto accorgersi dell’infrazione (da ultimo Cass. n. 7467 del 2023), bensì l’onere di attivarsi sorge solo allorquando l’illecito viene percepito in termini circostanziati, sì da consentire l’avvio del procedimento (Cass. n. 28974 del 2017; Cass. n. 10069 del 2016; Cass. n. 21546 del 2007).
Come poi evidenziato dalla stessa sentenza di questa Corte richiamata dai giudici d’appello a sostegno del decisum (Cass. n. 3904 del 2020), il ritardo nella contestazione può costituire un vizio del procedimento disciplinare solo ove sia tale da determinare un ostacolo alla difesa effettiva del lavoratore, tenendo anche conto che il prudente indugio del datore di lavoro, ossia la ponderata e responsabile valutazione dei fatti, può e deve precedere la contestazione anche nell’interesse del prestatore di lavoro, che sarebbe palesemente colpito da incolpazioni avventate o comunque non sorrette da una sufficiente certezza da parte del datore di lavoro (cfr. Cass. n. 10688 del 2017; Cass. n. 1101 del 2007; Cass. n. 241 del 2006; Cass. n. 5308 del 2000).
1.2. Ciò posto, la sentenza impugnata sul punto è coerente con i princìpi richiamati e le doglianze di parte ricorrente, lungi dall’evidenziare l’error in iudicando in cui sarebbe incorsa la sentenza impugnata, come l’evocazione formale del vizio di cui al n. 3 dell’art. 360 c.p.c. imporrebbe, in sostanza propongono una diversa valutazione dei fatti, inibita a questo giudice di legittimità, peraltro senza neanche adeguatamente contrastare l’assunto espresso dalla Corte territoriale secondo cui non è emerso, né è stato allegato dalla lavoratrice, che dall’eccepito ritardo costei “abbia subito per questo alcun pregiudizio”.
2. Con il secondo mezzo si denuncia: “Art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. Violazione e falsa applicazione dell’art. 268 c.p.p., e dell’art. 2697 c.c. I verbali di intercettazione nella forma del c.d. “brogliaccio” non possono essere utilizzati come unica prova del licenziamento”. Si censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha utilizzato come prova della sussistenza del fatto i verbali di intercettazione del procedimento penale non trascritti nella forma della perizia, in quanto dagli stessi non ha tratto argomenti utili a conferma degli altri elementi probatori, ma ha fondato sugli stessi, costituenti unica base del licenziamento, la decisione.
Il motivo è infondato.
Nell’accertamento della sussistenza di determinati fatti e della loro idoneità a costituire giusta causa di licenziamento, il giudice del lavoro può fondare il suo convincimento sugli atti assunti nel corso delle indagini preliminari, anche se sia mancato il vaglio critico del dibattimento, giacché la parte può sempre contestare, nell’ambito del giudizio civile, i fatti così acquisiti in sede penale (Cass. n. 2168 del 2013; Cass. n. 15714 del 2010; Cass. n. 132 del 2008).
È parimenti consolidato il principio alla stregua del quale le “intercettazioni telefoniche o ambientali, effettuate in un procedimento penale, sono pienamente utilizzabili nel procedimento disciplinare di cui all’art. 7 della L. n. 300 del 1970, purché siano state legittimamente disposte nel rispetto delle norme costituzionali e procedimentali, non ostandovi i limiti previsti dall’art. 270 c.p.p., riferibili al solo procedimento penale, in cui si giustificano limitazioni più stringenti in ordine all’acquisizione della prova, in deroga al principio fondamentale della ricerca della verità materiale” (Cass. n. 10017 del 2016 e, in tema di procedimento disciplinare a carico di magistrati, Cass. SS.UU. n. 3271 del 2013; Cass. SS.UU. n. 3020 del 2015).
Infine, non si può sostenere che l’assenza di trascrizione delle intercettazioni priverebbe queste ultime di ogni efficacia probatoria, giacché la prova è costituita dalle bobine e dai verbali mentre la trascrizione “si esaurisce in una serie di operazioni di carattere meramente materiale, non implicando l’acquisizione di alcun contributo tecnico-scientifico” (in termini, Cass. n. 5317 del 2017, che richiama la giurisprudenza penale in materia).
3. Il terzo motivo denuncia: “Art. 360 n. 3: violazione e falsa applicazione degli artt. 2104 e 2119 c.c. e dell’art. 18, comma 4, l. n. 300/1970. I fatti contestati e ritenuti sussistenti dal Giudice del reclamo, anche nell’interpretazione da esso operata, non costituiscono inadempimento agli obblighi del lavoratore, non hanno carattere illecito e comunque non vi è al riguardo alcuna evidenza in sentenza”.
Col quarto mezzo si deduce: “Art. 360 n. 4 c.p.c.: la sentenza non assolve la funzione specifica di esplicitare le ragioni per le quali i fatti, di cui si afferma la sussistenza, costituiscono gravissimo inadempimento degli obblighi lavorativi e sono ricondotti alla nozione di giusta causa di licenziamento”.
I due motivi, che possono essere trattati congiuntamente per connessione, non meritano accoglimento.
3.1. Attraverso le prospettazioni difensive sviluppate in essi si propone una generica rivisitazione del giudizio di gravità e di proporzionalità delle condotte addebitate in relazione alla sanzione espulsiva comminata, non consentita in sede di legittimità (Cass. n. 21260 del 2018; Cass. n. 5707 del 2017; Cass. n. 23862 del 2016; Cass. n. 7568 del 2016; Cass. n. 2692 del 2015; Cass. n. 25608 del 2014; Cass. n. 6498 del 2012; Cass. n. 5095 del 2011; Cass. n. 35 del 2011; Cass. n. 19270 del 2006; Cass. n. 9299 del 2004).
Invero, si sollecita un sindacato che esorbita dai poteri del giudice di legittimità perché spettano inevitabilmente al giudice di merito le connotazioni valutative dei fatti accertati nella loro materialità, nella misura necessaria ai fini della loro riconducibilità – in termini positivi o negativi – all’ipotesi normativa (sui limiti del sindacato di legittimità nelle ipotesi di giusta causa e di giustificato motivo soggettivo di licenziamento si rinvia, ai sensi dell’art. 118, comma 1, disp. att. c.p.c., a Cass. n. 13064 del 2022 ed alla giurisprudenza ivi citata; conf. v. Cass. n. 20780 del 2022).
3.2. In particolare, non coglie nel segno la censura che invoca la nullità della sentenza, ai sensi del n. 4 dell’art. 360 c.p.c., per pretese, radicali, carenze motivazionali, atteso che – come ricordato nello storico della lite – la Corte territoriale, con argomentazione chiaramente percepibile oltre che plausibile, ha spiegato le ragioni per cui la condotta di una responsabile di filiale che, durante l’orario di lavoro e nei locali della banca, si “spende” al fine “di consentire il buon fine delle operazioni di concessione di credito” erogati non dalla banca stessa bensì da un cliente ad altri clienti, costituisca condotta idonea a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario, a prescindere dalla rilevanza penale o meno di tali comportamenti, di talché risulta pure irrilevante la deduzione contenuta nella memoria ex art. 378 c.p.c. della M. in cui si sostiene che la medesima sarebbe stata assolta dal giudice penale.
Per altro verso è noto come sia inammissibile il ricorso per cassazione con cui si deduca, apparentemente, una violazione o falsa applicazione di norme di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio o di omessa pronuncia miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito, così da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito (vedi, per tutte: Cass. SS.UU. n. 34476 del 2019 e n. 8758 del 2017).
4. In ragione di quanto precede, il ricorso deve essere respinto nel suo complesso, con spese regolate secondo il principio della soccombenza come da dispositivo.
Occorre, altresì, dare atto della sussistenza per la ricorrente dei presupposti processuali di cui all’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall’art. 1, co. 17, l. n. 228 del 2012, per il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ove dovuto (Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 6.000,00, oltre euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e rimborso spese forfettarie al 15%.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.