L’applicazione irregolare del contratto collettivo può essere oggetto di una misura correttiva da parte dell’Ispettorato del lavoro.
Nota a Cons. Stato 21 marzo 2024, n. 2778
Francesca Fedele
Possono formare oggetto del “Provvedimento di disposizione” dell’Ispettorato del lavoro anche le violazioni dei contratti e accordi collettivi di lavoro.
L’art. 14, D.Lgs. 23 aprile 2004, n. 124 (nel testo modificato dal D.L. 16 luglio 2020, n. 76, conv. con mod., dalla L. 11 settembre 2020, n. 120) prevede infatti che il personale ispettivo possa adottare nei confronti del datore di lavoro un “provvedimento di disposizione, immediatamente esecutivo” in tutti i casi in cui “le irregolarità rilevate in materia di lavoro e legislazione sociale non siano già soggette a sanzioni penali e amministrative”. Tale provvedimento amministrativo ha i connotati della definitività e della immediata lesività per la parte alla quale lo stesso è indirizzato e, in quanto tale, è impugnabile dinanzi al giudice amministrativo. In particolare, l’ambito di operatività del potere attribuito agli Ispettori del lavoro dall’art. 14, D.Lgs. n. 124/2004, si estende all’ipotesi di un inquadramento di lavoratori in una categoria contrattuale diversa da quella asseritamente spettante in considerazione delle mansioni esercitate in violazione del CCNL applicabile.
È quanto afferma il Consiglio di Stato 21 marzo 2024, n. 2778 in una vicenda giudiziaria in cui era stato impugnato davanti al TAR un provvedimento dell’Ispettorato nei confronti di un patronato, relativo all’errato inquadramento del personale in una categoria diversa da quella dovuta in base al contratto collettivo applicabile. Il collegio, in sede di appello, interpreta la disposizione di legge come comprensiva anche delle irregolarità consistenti nell’inadempimento agli obblighi derivanti dal CCNL. Ciò, quale espressione della “valutazione dell’Ordinamento di rilevanza pubblicistica dell’esigenza di una piena ed effettiva applicazione” dei contratti collettivi.
La decisione contrasta con quella del Tribunale che aveva annullato l’atto sul presupposto che le irregolarità che sollecitano l’intervento dell’Ispettorato sono unicamente quelle relative all’applicazione della legge.
Sentenza
Consiglio di Stato, sentenza 21 marzo 2024 n. 2778
Svolgimento del processo
1.Con “Provvedimento di disposizione” -OMISSIS- del 24 febbraio 2021 l’Ispettorato Territoriale del Lavoro di Udine-Pordenone ha disposto l’inquadramento di alcuni dipendenti ad altro livello rispetto a quello disposto dal datore di lavoro.
Il “Provvedimento di disposizione” è stato impugnato dal P.I.C. (d’ora in poi, P.) in via gerarchica; sul ricorso si è formato il silenzio gravato, unitamente al Verbale, dinanzi al Tribunale Amministrativo Regionale Friuli Venezia Giulia.
2. Il P. dinanzi al giudice amministrativo ha dedotto l’illegittimità del “Provvedimento di disposizione” per essere stata l’ispezione conclusa oltre il termine massimo di durata del procedimento amministrativo e di ragionevole durata dell’accertamento ispettivo, con asserito nocumento del diritto di difesa. Il ricorrente ha inoltre lamentato l’assenza di adeguata motivazione, che non consente l’individuazione dell’iter logico-giuridico seguito nel procedimento ispettivo, nonché l’omessa indicazione puntuale delle fonti di prova, con lesione, ancora una volta, del diritto costituzionale di difesa. Ha infine affermato l’erroneità dell’inquadramento disposto dall’Ispettorato Territoriale del Lavoro di Udine e di Pordenone.
3. Con sentenza 18 maggio 2021, -OMISSIS-, il Tar Friuli Venezia Giulia, previa declaratoria di carenza di legittimazione passiva del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, ha accolto il terzo motivo di ricorso e, per l’effetto, ha annullato i provvedimenti impugnati, escludendo che il tipo di violazione contestata – id est, l’inquadramento dei lavoratori in una categoria contrattuale diversa da quella asseritamente spettante in forza delle mansioni esercitate, secondo il C.C.N.L. applicabile – “rientri tra le ‘irregolarità (…) in materia di lavoro e legislazione sociale’ che possono essere contestate dall’Ispettorato nell’esercizio del potere di disposizione”.
4. Con appello notificato il 21 luglio 2021 e depositato il successivo 23 luglio l’Ispettorato Territoriale del Lavoro di Udine e di Pordenone ha impugnato la citata sentenza 18 maggio 2021, -OMISSIS-, del Tar Friuli Venezia Giulia eccependo preliminarmente il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo e, nel merito, l’erroneità della decisione del giudice di primo grado.
5. Si è costituito in giudizio il P.I.C., che con controricorso notificato e depositato dal P.I.C. in data 27 settembre 2021, ha riproposto i motivi dedotti in primo grado ed assorbiti dal Tar Friuli Venezia Giulia. Con successiva memoria ha sostenuto l’infondatezza, nel merito, del ricorso.
6. I signori -OMISSIS- non si sono costituiti in giudizio.
7. Alla pubblica udienza del 14 marzo 2024 la causa è stata trattenuta in decisione.
Motivi della decisione
1.Deve preliminarmente essere dichiarato il tardivo deposito delle cd. “note di udienza” effettuato, in data 13 marzo 2024, dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro e dall’Ispettorato Territoriale del Lavoro di -OMISSIS-. Di tale scritto difensivo il Collegio non terrà conto ai fini del decidere, come comunicato in udienza ai sensi dell’art. 73, comma 3, c.p.a.
Come esposto in narrativa, è impugnata la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale Friuli Venezia Giulia 18 maggio 2021, -OMISSIS-, che ha accolto il ricorso proposto dal P.I.C. (d’ora in poi, P.) per l’annullamento del silenzio formatosi sul ricorso gerarchico, con il quale era stato chiesto l’annullamento del “Provvedimento di disposizione” -OMISSIS- del 24 febbraio 2021 dell’Ispettorato Territoriale del Lavoro di -OMISSIS-, Provvedimento anch’esso impugnato dinanzi al giudice amministrativo.
Il Tar, previa declaratoria del difetto di legittimazione passiva del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, ha accolto il ricorso ritenendo che l’Ispettorato avesse agito oltre i limiti del potere di disposizione ex art. 14, D.Lgs. 23 aprile 2004, n. 124, non rientrando le irregolarità derivanti dalla violazione dei Contratti collettivi nazionali di lavoro nelle previsioni della citata norma.
2. Con il primo motivo di appello il P. eccepisce il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo a decidere la controversia de qua, sul rilievo che il cd. “Provvedimento di disposizione” integra un verbale di accertamento ispettivo in materia di lavoro e legislazione sociale attratto, in quanto tale, nella sfera di attribuzione del giudice ordinario in funzione di giudice del lavoro.
Più specificamente, l’appellante assume che il “Provvedimento di disposizione” è atto endoprocedimentale e non conclusivo del procedimento, che prosegue con la comminazione della sanzione nell’ipotesi in cui il datore di lavoro non si conformi alle prescrizioni dell’Ispettorato o con l’archiviazione nell’ipotesi in cui, invece, aderisca ai rilievi mossi. La cognizione del giudice amministrativo sul “Provvedimento di disposizione” si insinuerebbe su un procedimento sanzionatorio complesso di cui tale provvedimento costituisce solo il primo segmento, circostanza dalla quale l’appellante fa conseguire, in ogni caso, l’inammissibilità del ricorso di primo grado per carenza di interesse attuale, essendo la tutela giurisdizionale azionabile (dinanzi al giudice ordinario) solo avverso l’eventuale successiva ordinanza-ingiunzione, il cui eventuale annullamento travolgerebbe il “Provvedimento di disposizione”.
2.1. Il Tar Friuli Venezia Giulia, seppure non investito da specifica eccezione, ha di fatto riconosciuto la giurisdizione del giudice amministrativo affermando che “Il datore di lavoro destinatario di un ordine ex art. 14 del D.Lgs. n. 124 del 2004, per evitarne il consolidamento e l’irrogazione della sanzione per inottemperanza, non può che contestarlo innanzi al Tar”.
2.2. Al fine del decidere il primo motivo il Collegio ritiene necessaria una breve premessa sulla natura del “Provvedimento di disposizione” perché dalla stessa consegue non solo l’individuazione del giudice competente a decidere la controversia instaurata per l’accertamento della sua illegittimità ma anche la sua immediata impugnabilità; con la precisazione che è, infatti, al “Provvedimento di disposizione” che occorre far riferimento per decidere e non al silenzio formatosi sul ricorso gerarchico proposto dal P., atteso che l’oggetto del ricorso giurisdizionale non è il silenzio ma il provvedimento originario già impugnato in sede gerarchica (Cons. Stato, sez. II, 17 dicembre 2020, n. 8122).
L’art. 14, D.Lgs. 23 aprile 2004, n. 124 – nel testo modificato dal D.L. 16 luglio 2020, n. 76, convertito con modificazioni, dalla L. 11 settembre 2020, n. 120 – prevede che il personale ispettivo dell’Ispettorato del lavoro può adottare nei confronti del datore di lavoro un “provvedimento di disposizione, immediatamente esecutivo” in tutti i casi in cui “le irregolarità rilevate in materia di lavoro e legislazione sociale non siano già soggette a sanzioni penali e amministrative”. La norma qualifica dunque l’atto in questione come “provvedimento” e precisa che lo stesso è “immediatamente esecutivo”. La definizione di “verbale” di tale atto è dunque generata dalla prassi, trattandosi in realtà di un provvedimento amministrativo a contenuto ordinatorio, espressione di un potere pubblicistico, che la norma definisce “immediatamente esecutivo”, ovvero efficace e vincolante per il destinatario, il quale deve necessariamente conformarsi alle statuizioni contenute nello stesso, pena l’applicazione di una sanzione pecuniaria per il caso di eventuale inottemperanza.
Che tale sia la natura dell’atto in questione lo si evince ancora con maggiore evidenza ove lo si ponga a raffronto con il potere esercitato ai sensi del precedente art. 13, comma 1, dello stesso D.Lgs. n. 124 del 2004, che culmina – questo sì – con il rilascio del “Verbale di primo accesso”, il quale richiede un previo atto di diffida (comma 2) al datore di lavoro trasgressore.
2.3. Corollario obbligato di tale premessa è che il potere esercitato dagli Ispettori del lavoro ai sensi dell’art. 14, D.Lgs. n. 124 del 2004 si manifesta con un provvedimento amministrativo che ha i connotati della definitività e della immediata lesività per la parte alla quale lo stesso è indirizzato e che, in quanto tale, è impugnabile dinanzi al giudice amministrativo. Il provvedimento, infatti, fa scattare immediatamente l’obbligo del datore di lavoro di mettersi in regola e chiude il procedimento e – differentemente da quanto assume parte appellante – incide sulla sfera giuridica del destinatario imponendogli un facere, pena la comminatoria di una sanzione. La lesione, dunque, è insita nel comando di mettersi in regola con le norme violate.
Ad ulteriore riprova della correttezza di tale conclusione è che il D.Lgs. n. 124 del 2004 non ha inteso derogare ai criteri generali in materia di individuazione del giudice naturale ad offrire tutela contro gli atti degli Ispettori del Lavoro, introducendo solo forme di previ esperimenti di definizione amministrativa della controversia. E così, all’art. 14, comma 2, ha introdotto la possibilità (esercitata nel caso all’esame del Collegio) di impugnare il provvedimento, adottato ai sensi del precedente comma 1, dinanzi al direttore dell’Ispettorato Territoriale, con formazione del silenzio-rigetto ove non sia deciso con provvedimento espresso entro quindici giorni dalla proposizione del gravame; l’art. 16 prevede, invece, la proposizione del ricorso avverso gli atti adottati ex art. 13, comma 7; il successivo art. 17 ha disciplinato il ricorso al Comitato per i rapporti di lavoro avverso gli “atti di accertamento ispettivo” degli Ispettori del Lavoro. Nulla prevedendo il D.Lgs. n. 124 del 2004 sulla tutela giurisdizionale avverso i provvedimenti adottati ai sensi dell’art. 14, ne consegue che la stessa segue le regole generali, e cioè il ricorso al giudice del potere pubblico, id est il giudice amministrativo. Tale conclusione non sembra smentita dalla circostanza che l’attività svolta dall’Ispettorato impinge sul rapporto di lavoro privatistico, atteso che ciò che rileva è che l’irregolarità sia riscontrata dall’Ispettore del Lavoro nell’esercizio del potere pubblico conferitogli dalla norma. Come chiarito dal Consiglio di Stato (sez. VI, 24 marzo 2003, n. 1499) – sebbene con riferimento ad altra fattispecie (ma con argomentazioni ben estensibili al caso sottoposto all’esame del Collegio) – “il provvedimento dell’Ispettorato del lavoro che dispone l’astensione obbligatoria dal lavoro di una dipendente, incide dall’esterno, unilateralmente e autoritativamente sul rapporto di lavoro tra datore e lavoratrice – madre, sicché le situazioni di diritto soggettivo degradano ad interesse legittimo, con conseguente giurisdizione del giudice amministrativo. Non si controverte di un atto posto in essere dal datore di lavoro nei confronti del dipendente, ma di un provvedimento della Pubblica amministrazione, che impone un divieto ad un datore di lavoro, nell’esercizio di un tipico controllo pubblico su attività private”.
3. Le argomentazioni spese sub 1 per individuare il giudice competente a decidere il ricorso portano il Collegio a dichiarare anche l’ammissibilità del gravame, stante il carattere definitivo del “Provvedimento di disposizione” e, dunque, la sua immediata lesività ed impugnabilità (Cons. Stato, sez. III, 22 marzo 2023, n. 2901). L’inflizione della sanzione amministrativa prevista dal comma 3 è solo eventuale, scattando soltanto nell’ipotesi in cui il datore di lavoro non ottemperi al “Provvedimento di disposizione”; il decreto, infatti, non ha voluto sanzionare l’omissione o l’irregolarità rilevate ma soltanto la volontà di non conformarsi all’ordine di fare o di ripristinare la regolarità. In altri termini, l’organo ispettivo intima al datore di lavoro di eliminare l’irregolarità rilevata, concedendo un termine per adempiere e solo in caso di mancata ottemperanza si applica la sanzione. Da tale premessa consegue:
a) che è la mancata osservanza dell’ordine inibitorio o ripristinatorio dell’Ispettore a portare ad infliggere la sanzione e non la condotta stessa, non essendo infatti per la condotta prevista tale sanzione;
b) che, correlativamente, in caso di mancata impugnazione del “Provvedimento di disposizione”, il contenuto di quest’ultimo, e segnatamente le “irregolarità” con esso accertate, non potrebbero essere rimessi in discussione in sede di impugnazione della successiva sanzione.
Per le argomentazioni sub (…) e (…), il primo motivo di appello deve quindi essere respinto.
4. Chiariti il giudice competente a decidere la controversia de qua e l’ammissibilità del ricorso, il Collegio può passare all’esame del merito.
Al fine di circoscrivere l’ambito di operatività del potere attribuito agli Ispettori del lavoro dall’art. 14, D.Lgs. n. 124 del 2004, vale rilevare che la norma lo estende a “tutti i casi di irregolarità rilevate in materia di lavoro e legislazione sociale” (fermo restando quanto previsto in materia di infortuni dagli artt. 10 e 11, D.P.R. n. 520 del 1955, che non sono stati abrogati e la cui violazione dà luogo non solo a sanzioni amministrative, come previsto dall’art. 14, D.Lgs. n. 124 del 2004, ma anche penali) purché tali irregolarità non siano già soggette a sanzioni penali e amministrative. La tecnica legislativa sembra cambiare, dunque, rispetto al precedente art. 13 (che attribuisce all’Ispettore e agli organi ispettivi previdenziali il potere di adottare un “Verbale di primo accesso ispettivo”), nel quale si fa espresso riferimento alla “inosservanza di norme di legge o del contratto collettivo in materia di lavoro e legislativo”, sempre che da tali inadempimenti derivino sanzioni amministrative. Il riferimento, nell’art. 14 è alla materia oggetto della irregolarità; nell’art. 13 alle norme violate per effetto di tale inosservanza; nel primo caso l’irregolarità non deve essere già oggetto di sanzioni amministrative o penali (evidentemente perché per tali ipotesi è la mancanza riscontrata ad essere sanzionata, senza che sia offerta prima la possibilità di mettersi in regola), nel secondo caso, al contrario, l’inosservanza deve essere già oggetto di sanzione amministrativa.
Nel caso sottoposto all’esame del Collegio l’irregolarità rilevata dagli Ispettori del lavoro attiene all’inquadramento di lavoratori del P.I.C. ad una categoria contrattuale diversa da quella asseritamente spettante in considerazione delle mansioni esercitate.
Il Collegio ritiene di non poter condividere le conclusioni alle quali è pervenuto il giudice di primo grado in ordine all’ambito di estensione del potere conferito agli Ispettori del lavoro dall’art. 14, D.Lgs. n. 124 del 2004.
Militano in tal senso una serie di fattori.
4.1. In primo luogo il tenore letterale della norma che individua espressamente – come il precedente art. 13 – i limiti dei “poteri di disposizione” ai casi in cui le irregolarità siano già oggetto di previsioni sanzionatorie. Come si è detto, il precedente art. 13 individua (al comma 2) anche in positivo le norme (di legge o del Contratto collettivo) la cui violazione porta ad infliggere la sanzione ai sensi del comma 3, mentre l’art. 14 fa riferimento alla materia (di lavoro e legislazione sociale) alla quale la disposizione si applica; nonostante tale diversa tecnica redazionale si deve ritenere, ad avviso del Collegio, che anche l’art. 14 si riferisca alle norme della legge o del Contratto collettivo atteso che il decreto n. 124, laddove abbia inteso delimitare il proprio ambito di applicazione, lo ha chiarito espressamente, con la conseguenza che nel silenzio della disposizione pare poter estendere ai “poteri di disposizione” nelle “materie di lavoro e legislazione sociale” lo stesso ambito di applicazione dei “poteri di diffida” dell’art. 13. Non sembra ostare a tale conclusione la circostanza – sulla quale il Tar fonda una delle ragioni della reiezione del ricorso – che l’art. 14 faccia riferimento alle “irregolarità”, termine con il quale, sempre secondo il giudice di primo grado, si è soliti definire una difformità rispetto alla fattispecie legale, priva di espressa sanzione giuridica, mentre il non corretto inquadramento di un lavoratore dà luogo ad un “inadempimento” ad un obbligo sancito dall’art. 2103 c.c., a fronte del quale la stessa norma introduce una forma di tutela (“…trattamento corrispondente all’attività svolta e l’assegnazione diviene definitiva”).
Rileva il Collegio che l’art. 14 non ha inteso introdurre una ulteriore limitazione alla propria applicazione, da aggiungere “ai casi in cui la fattispecie sia già oggetto di sanzione amministrativa e penale”, id est le ipotesi in cui per il lavoratore sia prevista una forma di tutela. Al contrario, la scelta di includere tra le “irregolarità” che possono formare oggetto del “Provvedimento di disposizione” anche le violazioni dei contratti e accordi collettivi di lavoro esprime una valutazione dell’ordinamento di rilevanza pubblicistica dell’esigenza di una piena ed effettiva applicazione degli stessi, tale da meritare attenzione a livello amministrativo anche indipendentemente dalle reazioni e iniziative civilistiche dei singoli lavoratori interessati.
4.2. Non sono neanche condivisibili le argomentazioni che si basano sulle ragioni di opportunità che, ad avviso del giudice di primo grado, dovrebbero indurre ad escludere dal campo di applicazione dell’art. 14 le irregolarità nell’applicazione dei Contratti collettivi. La possibilità che sullo stessa questione intervenga il giudice amministrativo (sull’impugnazione proposta dal datore di lavoro per l’annullamento del “Provvedimento di disposizione”) decidendo sulla questione lavoristica che ne è alla base, nonché il giudice del lavoro (sull’impugnazione proposta dal lavoratore che, nonostante la reiezione del ricorso sul “Provvedimento di disposizione”, non ha avuto tutela) porterebbe, al più, a dubitare della giurisdizione del giudice amministrativo sul “Provvedimento di disposizione”, giurisdizione, invece, ammessa dallo stesso Tar Friuli Venezia Giulia. Aggiungasi che ove anche tali valutazioni di opportunità fossero condivisibili, le stesse non potrebbero fondare una interpretazione della norma diversa da quella alla quale si perviene dall’esame della sua formulazione letterale.
Inoltre, è evidente che il meccanismo di cui all’art. 14, D.Lgs. n. 124 del 2004, incentrato sulla sollecitazione di una attività “collaborativa” da parte del datore di lavoro, che può concludersi con l’eliminazione spontanea delle irregolarità riscontrate, può svolgere anche un’importante funzione preventiva e deflattiva del contenzioso giuslavoristico.
5. Accertato dunque che erroneamente la sentenza del Tar Friuli Venezia Giulia 18 maggio 2021, -OMISSIS-, ha ritenuto di escludere dal campo di applicazione dell’art. 14, D.Lgs. n. 124 del 2004la violazione, da parte del datore di lavoro, dei Contratti collettivi, il Collegio deve esaminare il controricorso (sul quale l’Ispettorato non ha inteso, in appello, difendersi tempestivamente), notificato e depositato dal P.I.C. in data 27 settembre 2021, con il quale sono riproposti i motivi dedotti in primo grado ed assorbiti dal Tar. In particolare, l’appellata deduce la violazione, da parte degli Ispettori del lavoro, del termine per chiudere il procedimento, il difetto di motivazione del “Provvedimento di disposizione”, la carente istruttoria nonché l’erronea ed arbitraria applicazione degli artt. 62, 63 e 64 del Contratto collettivo nazionale di lavoro I. – C. del 16 giugno 2017.
Il motivo con il quale si deduce che il “Provvedimento di disposizione” è stato adottato oltre i termini previsti dall’art. 2, comma 2, L. 7 agosto 1990, n. 241, è privo di pregio.
Come si è detto sub 2, l’art. 14, comma 1, D.Lgs. n. 124 del 2004 disciplina un procedimento amministrativo che si chiude con il “Provvedimento di disposizione” degli Ispettori del lavoro.
La L. n. 241 del 1990 ha portata generale, anche in relazione ai termini del procedimento. Si applicano i termini dell’art. 2, salvo che non sia espressamente previsto da altra legge. Il termine generale entro il quale il procedimento deve essere concluso, qualora non siano previsti dall’ordinamento giuridico specifici e diversi termini, è quello di trenta giorni indicato dall’art. 2, comma 2, L. n. 241 del 1990, il quale ha disposto che, “nei casi in cui disposizioni di legge ovvero i provvedimenti di cui ai commi 3, 4 e 5 non prevedono un termine diverso, i procedimenti amministrativi di competenza delle amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali devono concludersi entro il termine di trenta giorni”.
Il termine di conclusione del procedimento ha però natura ordinatoria e non decadenziale perché assolve ad una funzione acceleratoria e la sua inosservanza non fa perdere il potere all’Amministrazione di agire.
Dalla natura ordinatoria del termine consegue che il mancato rispetto del medesimo non vizia l’atto adottato tardivamente, salvo che la legge di settore o la giurisprudenza lo qualifichino come perentorio (Cons. Stato, sez. VI, 20 giugno 2023, n. 6018; id., sez. V, 7 marzo 2023, n. 2354). Circostanza non sussistente nel caso di specie, non essendovi una regola legale o di elaborazione giurisprudenziale che assegni natura perentoria al termine di conclusione del procedimento ex art. 14, D.Lgs. n. 124 del 2004.
6. Con la prima censura del secondo motivo del controricorso il P. ha affermato che il “Provvedimento di disposizione” è illegittimo perché scarsamente motivato in quanto “non è dato comprendere per quale effettiva e concreta ragione gli ispettori siano giunti alla conclusione”.
Con la seconda censura, anch’essa dedotta con il secondo motivo, il P. afferma l’insufficienza dell’istruttoria che ha portato a ritenere non regolari gli inquadramenti dei signori -OMISSIS-.
Prima di esaminare le censure nelle quali si articola il secondo motivo giova chiarire che stante la natura provvedimentale del cd. “Provvedimento di accertamento” esso segue i principi dettati dalla legge sul procedimento amministrativo e, in particolare, le regole relative alla necessità che l’Amministrazione motivi congruamente le proprie determinazioni e che le stesse, specie ove impingano negativamente sulla sfera giuridica del suo destinatario, siano adottate all’esito di una adeguata e puntuale istruttoria.
Ciò premesso, la censura è suscettibile di positiva valutazione.
Il “Provvedimento di disposizione” è motivato ob relationem con il richiamo alla documentazione di lavoro e “dichiarazioni acquisite”. Il Collegio non nega la possibilità di motivare con riferimento ad atti o fatti non riportati nello stesso provvedimento, criterio questo ritenuto sufficiente ad assolvere il precetto introdotto dall’art. 3, L. 7 agosto 1990, n. 241. È noto, infatti, che ove il provvedimento amministrativo sia preceduto da atti istruttori o da pareri, l’obbligo della motivazione può ritenersi adeguatamente assolto anche con il mero richiamo ad essi, giacché sottintende l’intenzione dell’Autorità emanante di farli propri, assumendoli a causa giustificativa della determinazione adottata. Condizione indefettibile di tale operazione, sovente giustificata anche da esigenze di economia e celerità procedimentali, è che essi risultino menzionati nel testo del provvedimento e resi accessibili al privato, in modo da consentirgli di prenderne visione anche in ossequio alla normativa sul diritto di accesso ai documenti amministrativi.
Questa situazione non ricorre però nel caso in esame, atteso che il “Provvedimento di disposizione” si limita a fare generico riferimento a dichiarazioni rese, senza riportare ulteriori specificazioni e senza, dunque, consentire di capire le ragioni che hanno portato a ritenere erroneo l’inquadramento del personale (signori -OMISSIS-) effettuato dal patronato.
Anche la seconda censura, dedotta con il secondo motivo, è fondata atteso che dalla documentazione richiamata non risulta una sufficiente istruttoria in ordine a tutte le attività svolte dai signori -OMISSIS- per poi consentire di verificare, anche in relazione alla anzianità di servizio e al “buon grado di esperienza” ex art. 62 del Contratto collettivo nazionale di lavoro I. – C., l’effettivo corretto inquadramento.
7. Per le ragioni sopra esposte il controricorso proposto dal P.I.C. deve essere accolto e, per l’effetto confermata, sebbene con diversa motivazione, la sentenza del Tar Friuli Venezia Giulia 18 maggio 2021, -OMISSIS-, che aveva accolto il ricorso di primo grado.
La particolarità della vicenda contenziosa giustifica la compensazione delle spese e degli onorari del giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, proposto dall’Ispettorato nazionale del lavoro e dall’Ispettorato territoriale del lavoro di -OMISSIS- e sul controricorso proposto dal P.I.C., accoglie il controricorso e conferma, con diversa motivazione, la sentenza del Tar Friuli Venezia Giulia 18 maggio 2021, -OMISSIS-, che aveva accolto il ricorso di primo grado.
Compensa tra le parti in causa le spese e gli onorari del presente grado di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.