Il licenziamento disciplinare intimato al lavoratore che, in via di autotutela, abbia rifiutato il trasferimento ad oltre 400 km di distanza è nullo, con conseguente diritto alla reintegrazione sul luogo di impiego, laddove non sussistano comprovate ragioni aziendali e la condotta del prestatore non sia contraria a buona fede.
Nota a Trib. Tivoli 27 marzo 2024, n. 519
Sonia Gioia
Il provvedimento avente ad oggetto il trasferimento di un lavoratore ad altra unità produttiva distante oltre 400 km disposto in assenza di comprovate esigenze tecniche, organizzative e produttive è illegittimo ed integra un inadempimento contrattuale imputabile al datore di lavoro, con la conseguenza che il licenziamento intimato al prestatore per aver rifiutato, in via di autotutela, il mutamento di sede è nullo per insussistenza del fatto contestato e comporta, anche per i nuovi assunti nel regime delle tutele crescenti, il rimedio della reintegrazione sul luogo di impiego e il diritto al pagamento di un’indennità risarcitoria in misura pari al periodo temporale non lavorato, fino ad un massimo di 12 mensilità.
Ciò, a condizione che l’inottemperanza del lavoratore alla decisione aziendale, avuto riguardo alle circostanze concrete, non risulti contraria ai canoni generali della correttezza e buona fede (art. 1460, co. 2 c.c.).
Lo ha stabilito il Tribunale di Tivoli 27 marzo 2024, n. 519, in relazione ad una fattispecie concernente due prestatori che lamentavano l’illegittimità della massima sanzione disciplinare irrogata dalla società datrice per assenza ingiustificata dal lavoro in seguito al rifiuto opposto al provvedimento di trasferimento ad altra sede distante oltre 400 km e comunicato con soli 5 giorni di preavviso.
Come noto, il datore di lavoro ha la facoltà di disporre il trasferimento in via definitiva di uno o più dipendenti da una unità produttiva all’altra purché ciò avvenga in presenza di “comprovate ragioni tecniche, produttive ed organizzative” (art. 2103, co. 8 c.c.) e di scegliere “tra le varie possibilità organizzative quella che meglio risponda alle esigenze dell’impresa, non essendo sindacabile il merito della scelta datoriale”, salvo che i contratti collettivi non dispongano diversamente.
Tuttavia, affinché la decisione aziendale sia legittima, lo jus variandi deve essere esercitato in conformità con i doveri generali di buona fede e correttezza (artt. 1175 e 1375 c.c.), con la conseguenza che l’imprenditore, qualora possa far fronte alle ragioni sopra richiamate avvalendosi “di differenti soluzioni organizzative, per lui paritarie, è tenuto a preferire quella meno gravosa per il dipendente, soprattutto nel caso in cui questi deduca e dimostri la sussistenza di serie ragioni ostative al trasferimento”.
Sebbene il provvedimento datoriale non sia soggetto ad alcun onere di forma e non debba necessariamente contenere l’indicazione dei motivi, né l’imprenditore abbia l’obbligo di rispondere al prestatore che li richieda, il datore, ove sia contestata la legittimità del provvedimento, è tenuto ad allegare e provare in giudizio le ragioni che lo hanno determinato, fornendo prova dell’effettività del nesso causale tra il trasferimento e le fondate ragioni che lo hanno determinato.
Il controllo giurisdizionale, trovando un preciso limite nel principio di libertà di iniziativa economica privata (garantita dall’art. 41 Cost.), non può essere esteso al merito della scelta datoriale né questa deve avere i caratteri della inevitabilità ma deve essere diretto all’accertamento dell’effettiva sussistenza dei ragionevoli motivi e del rispetto dei limiti connessi al divieto di atti discriminatori o lesivi della sicurezza, della libertà, della dignità e della professionalità del prestatore.
Tale accertamento, in quanto diretto a verificare che “vi sia corrispondenza tra il provvedimento adottato dal datore di lavoro e le finalità tipiche dell’impresa”, non può essere limitato alla situazione esistente nella sede di provenienza ma deve estendersi anche a quella di destinazione del lavoratore, restando a carico dell’imprenditore l’onere di provare l’esistenza delle ragioni di cui art. 2103 c.c.
In caso di ritenuta illegittimità dell’esercizio dello jus variandi, il prestatore può comunque accettare il provvedimento datoriale e, successivamente, impugnarlo dinanzi all’autorità giudiziaria affinché eserciti il controllo soprarichiamato, oppure rifiutare il trasferimento, agendo in via di autotutela.
In quest’ultima ipotesi, l’inadempimento datoriale non legittima in via automatica il diniego del dipendente ad eseguire la prestazione lavorativa. Ciò, in quanto, il rapporto di lavoro è un contratto a prestazioni corrispettive per il quale trova applicazione l’art. 1460, co. 2. c.c., in base a cui la parte adempiente può rifiutarsi di eseguire la prestazione a proprio carico solo se tale rifiuto, avuto riguardo alle circostanze concrete, non risulta contrario a buona fede.
In tal caso, la verifica giudiziale circa la liceità o meno del comportamento del prestatore, va condotta, coerentemente con le caratteristiche del rapporto di lavoro, sulla base delle concrete circostanze che caratterizzano la specifica fattispecie, tenendo conto:
- dell’entità dell’inadempimento datoriale in relazione al complessivo assetto di interessi regolato dal contratto;
- della concreta incidenza di tale inadempimento su fondamentali esigenze di vita e familiari del lavoratore;
- della non contrarietà a buona fede del rifiuto ad adempiere, il cui parametro va riscontrato in termini oggettivi, a prescindere dall’animus dell’autore del rifiuto, e costituisce espressione del principio di buona fede e correttezza nell’esecuzione del contratto;
- della necessaria equivalenza tra l’inadempimento altrui e il rifiuto a rendere la propria prestazione, che deve essere successivo e causalmente giustificato dall’inadempimento della controparte;
- della incidenza del comportamento del prestatore sull’organizzazione datoriale e, più in generale, sulla realizzazione degli interessi aziendali, elementi questi che dovranno essere considerati nell’ottica del bilanciamento degli opposti interessi in gioco anche alla luce dei parametri costituzionali di cui agli artt. 35, 36 e 41 Cost.
Pertanto, a fronte di un’eccezione di inadempimento, il giudice di merito deve procedere ad un’analisi comparativa degli opposti inadempimenti, avendo riguardo alla loro proporzionalità rispetto alla funzione economico-sociale del contratto ed alla loro rispettiva incidenza sul riequilibrio sinallagmatico, sulle posizioni delle parti e sugli interessi delle stesse, con la conseguenza che se egli ritiene (in relazione all’interesse dell’altra parte ex art. 1455 c.c.) che l’inadempimento del soggetto nei cui confronti è opposta l’eccezione non è grave o è di scarsa importante, valuta il rifiuto di adempiere la propria obbligazione non in buona fede e, quindi, non giustificato ai sensi dell’art. 1460, co. 2, c.c. (Cass. 11408/2018, in q. sito con nota di M.N. BETTINI; Cass. n. 18866/2016).
Nel caso di specie, il giudice – accertato che la società datrice non aveva provato le valide ragioni economico-organizzative dei trasferimenti operati né l’impossibilità di ricollocare i lavoratori presso una sede più vicina ma si era limitata a dedurre, senza provarla, la sussistenza di un drastico calo del fatturato – ha dichiarato l’illegittimità e l’inefficacia dei provvedimenti aziendali e la nullità dei licenziamenti per insussistenza del fatto contestato, con conseguente diritto dei dipendenti alla reintegrazione sul luogo di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria in misura pari al periodo di tempo non lavorato e non superiore a 12 mensilità ai sensi dell’art. 3, co. 2, D. LGS. 4 marzo 2015, n. 23 (concernente “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti”, attuativo della L. 10 dicembre 2014, n. 183).
Ciò, in quanto la condotta della società datrice, che aveva disposto un trasferimento ad altra sede distante oltre 400 km con un preavviso di soli 5 giorni, non risultava conforme con i doveri generali di correttezza e buona fede, con la conseguenza che il rifiuto dei prestatori – che avevano manifestato sin da subito le problematiche relative al mutamento di sede e si erano resi disponibili a svolgere le proprie mansioni in un sito produttivo più vicino a quello di provenienza – non poteva considerarsi inadempimento ma legittimo esercizio del potere di autotutela contrattuale, dovendo, pertanto, concludersi per l’insussistenza del fatto contestato.