L’illegittima collocazione del lavoratore in cassa integrazione e la conseguente inattività dello stesso configurano, nei confronti del lavoratore stesso, un danno alla professionalità che va ristorato anche in via equitativa.
Nota a Cass. (ord.) 16 aprile 2024, n. 10267
Valerio Di Bello
L’impossibilità di esercitare la propria prestazione, oltre alle l’immagine professionale, può ledere la professionalità stessa del lavoratore dal momento che una inattività a lungo protratta nel tempo ne cagiona il depauperamento del patrimonio professionale e, conseguentemente, la sua ricollocabilità sul mercato del lavoro.
Di qui, in presenza di adeguate allegazioni, l’esistenza del danno alla professionalità da inattività forzata.
Questo, in sintesi, il principio ribadito dalla Corte di Cassazione (ord.) 16 aprile 2024, n. 10267 la quale, in linea con la sentenza di merito, richiama una precedente decisione (Cass. n. 10/2002), secondo cui, qualora un lavoratore venga lasciato in condizioni di inattività per lunghissimo tempo, il comportamento datoriale viola, oltre all’art. 2103 c.c., il “fondamentale diritto al lavoro, inteso soprattutto come mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, nonché dell’immagine e della professionalità del dipendente ineluttabilmente mortificate dal mancato esercizio delle prestazioni tipiche della qualifica di appartenenza” (v. anche Cass. nn. 2763/2003 e 7963/2012).
In altre parole, come sostenuto dalla Corte d’appello di Bologna, in presenza di una inattività forzata si configura una “lesione di un bene immateriale per eccellenza quale è la dignità professionale del lavoratore, intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità e le proprie capacità nel contesto lavorativo”, e tale lesione produce “automaticamente un danno non economico ma comunque rilevante sul piano patrimoniale per la sua attinenza agli interessi personali del lavoratore, anche se determinabile necessariamente solo in via equitativa”.
Nel caso specifico, la lavoratrice, in violazione di norme relative alla sospensione per cassa integrazione, era stata lasciata forzatamente inattiva per oltre 10 anni e non era stata mai chiamata a frequentare corsi formativi propedeutici per farla rientrare al lavoro e ciò aveva cagionato necessariamente il depauperamento della sua professionalità.
La Cassazione specifica altresì che il danno alla professionalità:
– è per sua natura plurioffensivo;
– è diverso dalla mancata percezione della retribuzione per illegittima collocazione in cig, in quanto il primo è legato alla perdita della professionalità, dell’immagine professionale e della dignità lavorativa, mentre il secondo è di natura esclusivamente patrimoniale e deriva dalla mancata corresponsione e percezione della retribuzione derivante dal contratto;
– ai fini della prova, anche presuntiva, della sua esistenza (anche con riguardo al demansionamento ed alla dequalificazione professionale), “costituiscono elementi indiziari gravi, precisi e concordanti la qualità e quantità dell’attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione” (Cass. n. 25743/2018; n. 19778/2014 e n. 4652/2009).
Sentenza
CORTE DI CASSAZIONE, ordinanza 16 aprile 2024, n. 10267
Fatto
La Corte d’appello di Bologna, con la sentenza in atti, rigettando l’appello principale di (OMISSIS) Srl ha accolto parzialmente l’appello incidentale di M.M. ed ha quindi condannato (OMISSIS) Srl a corrispondere a M.M. in via equitativa la somma pari al 30% della retribuzione mensile netta percepita dalla lavoratrice a titolo di danno alla professionalità per tutto il periodo di illegittima sospensione in CIG, oggetto della presente causa, oltre alle spese del giudizio.
Contro la sentenza ha proposto ricorso per cassazione (OMISSIS) Srl con tre motivi ai quali ha resistito M.M. con controricorso, illustrato da memoria. Il collegio ha riservato la motivazione, ai sensi dell’art. 380bis1, secondo comma, ult. parte c.p.c.
Diritto
1.- Con il primo motivo di ricorso è stata dedotta la violazione e/o falsa applicazione dell’allora vigente art. 1, comma 8 legge 223/1991, atteso che secondo la Corte d’appello poteva esserci rotazione nella Cassa integrazione in un ufficio amministrativo anche tra lavoratori che svolgono mansioni fungibili laddove invece la legge parla di “meccanismi di rotazione tra lavoratori che espletano le medesime mansioni.
Il motivo è infondato perché ripropone una critica superficiale a cui la Corte di merito aveva risposto nel merito. La Corte di appello aveva infatti accertato l’illegittimità della sospensione dal lavoro della lavoratrice per Cassa integrazione disposta (OMISSIS) Srl sulla scorta di più articolati e complessi accertamenti di fatto e di diritto che non vengono minimamente scalfiti dalla censura elevata con il predetto motivo di ricorso, che si rivela pertanto priva di rilevanza e di decisività ai fini dell’esito della causa e pertanto inammissibile.
Come già aveva spiegato la stessa Corte d’appello a proposito dell’analogo motivo di gravame proposto in secondo grado, in realtà le considerazioni dei giudici di merito relative alla fungibilità delle mansioni svolte dalla M.M. o alla professionalità trasversale della stessa erano funzionali al ragionamento presupposto necessario delle stesse e cioè al fatto che i giudici di merito abbiano considerato del tutto carenti di motivazioni e comunque di specificità gli atti richiamati a sostegno della cassa integrazione (dove vengono indicati i criteri di rotazione) per mancanza di chiarezza e di motivazione. Ne consegue che a fronte del dato sostanziale circa la carenza negli accordi di Cigs di specifiche modalità che chiarissero i criteri di rotazione, in quali reparti si dovesse svolgere, quali funzioni e mansioni dovesse comprendere, non era corretto censurare il ragionamento a valle svolto in sentenza che evidenziava come – pur in assenza di specifici criteri a monte – la lavoratrice fosse comunque in possesso di caratteristiche professionali che le consentivano la rotazione con le altre funzioni del suo settore di appartenenza e cioè l’ufficio personale.
Appare quindi in effetti fuorviante ed erroneo estrapolare dal contesto complessivo della sentenza, nella quale il ragionamento legato all’omessa rotazione parte dal fatto ritenuto preminente della mancanza di criteri e di disciplina della stessa, la circostanza in fatto che le mansioni della ricorrente siano state valutate fungibili o meno, poiché non si comprende a quale criterio – in mancanza di espressa previsione – vada rapportata detta fungibilità.
Pertanto, a monte di ogni ragionamento stava la valutazione dell’assenza di criteri (se non di pura “facciata”) per selezionare il personale in CIG, ed all’interno del personale così selezionato, l’ulteriore assenza di criteri per attuarne la rotazione, che non consentiva di valutare se la rotazione effettivamente svolta (ovvero in questo caso non svolta) si potesse considerare legittima e coerente tenuto conto anche della professionalità rivestita dai lavoratori.
2.- Con il secondo motivo viene dedotta a violazione e/o falsa applicazione dell’art. 4, comma 2 legge 223/91 e artt. 28,14,15 della legge n. 300/70 per avere la sentenza impugnata sostenuto che l’azienda, anche per le procedure di mobilità, pretermise sempre da qualsiasi sua comunicazione l’organizzazione sindacale di adesione della lavoratrice appellata e cioè il FAILTS-CISAL, così venendo meno ai suoi obblighi informativi ledendo oltre agli interessi del sindacato pure i diritti della lavoratrice appellata; tuttavia i documenti risultavano essere stati indirizzati alle RSU come impone la legge e ciò di per sé solo esclude la violazione pur accertata dalla corte d’appello; la Corte inoltre aveva omesso qualsiasi verifica in ordine alla natura di organizzazione sindacale aderente alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale; così come non aveva valutato la comunicazione alle organizzazioni sindacali aderenti alla Cgil, Cisl e Uil.
Il motivo è inammissibile sia per la promiscuità delle censure, di fatto e diritto, sia per la sua irrilevanza; posto che, anche a questo proposito, la Corte d’appello aveva accertato a monte plurime ed ampie violazioni minimamente censurate in ricorso (parlando di opaca confusione tra le due diverse procedure di mobilità e di CIGS, mancato adempimento della specifica procedura che la legge predisponeva per l’ammissione alla Cigs, pattuizione di criteri talmente generici da risultare nulli ed inesistenti, mancanza della dovuta trasparenza e certezza, carenza di una tutela sia pure minima dei lavoratori che fu nei fatti sostanzialmente annichilita); violazioni che prescindono completamente anche da questo profilo comunicativo alla particolare Organizzazione sindacale, di cui perciò non mette conto occuparsi.
3.- Col terzo motivo si deduce violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1223,2103,2697 c.c., nonché omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti ex art. 360 n. 3 e n. 5 c.p.c. , per avere la Corte d’appello riconosciuto il danno alla professionalità alla lavoratrice da inattività forzata richiamando una giurisprudenza estranea alla fattispecie perché riferita alla diversa violazione dell’art. 2103 c.c. ; mentre nel caso di specie non saremmo in presenza di una inattività forzata, bensì dinanzi ad una sospensione in Cigs; non di inadempimento contrattuale si tratta ma semmai di una violazione di legge, il cui danno non può che essere rappresentato in via esclusiva dall’elemento pecuniario costituito dalla differenza tra la retribuzione piena e l’integrazione salariale ricevuta; in ogni caso mancherebbe la prova del danno ed inoltre la Corte aveva ritenuto di procedere in assenza di un danno accertato o in presenza di un danno in re ipsa ad una liquidazione equitativa del danno sostenendo che la lavoratrice fosse stata lasciata forzatamente inattiva per oltre 10 anni dal 2007 al 2016, mentre l’oggetto dell’accertamento della sentenza riguardava esclusivamente il ben più limitato periodo dal 15/01/2013 al 09/06/2016 ovvero tre anni e mezzo e non oltre 10 anni.
4.- Il motivo è infondato.
4.1.- Sul punto della liquidazione del danno la sentenza impugnata ha affermato, riformando la pronuncia di primo grado, che fosse da riconoscere alla lavoratrice il danno alla professionalità, da valutarsi e quantificarsi in via equitativa, in misura pari ad un 30% della retribuzione netta mensile spettante alla stessa in costanza di rapporto (come da ultima busta paga percepita prima dell’ammissione a CIGS).
Tanto la Corte di merito ha effettuato motivatamente e sulla base degli arresti di questa Suprema Corte che da tempo hanno evidenziato, in presenza di adeguate allegazioni, l’esistenza del danno alla professionalità da inattività forzata, poiché il fatto di non aver potuto esercitare la propria prestazione professionale, oltre alle l’immagine professionale, può ledere professionalmente il lavoratore dal momento che una inattività a lungo protratta nel tempo cagiona il depauperamento del patrimonio professionale e conseguentemente la sua ricollocabilità sul mercato del lavoro.
La Corte d’appello ha in particolare richiamato per esteso la sentenza di questa Corte di Cassazione n. 10/2002 riferita ad un lavoratore che era stato lasciato in condizioni di inattività per lunghissimo tempo ed in cui la Corte ha affermato che il comportamento datoriale non solo violava la norma di cui all’articolo 2103 c.c. ma era al tempo stesso lesivo del fondamentale diritto al lavoro, inteso soprattutto come mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, nonché dell’immagine e della professionalità del dipendente ineluttabilmente mortificate dal mancato esercizio delle prestazioni tipiche della qualifica di appartenenza; con tale affermazione il giudice d’appello ha enunciato un concetto di lesione di un bene immateriale per eccellenza quale è la dignità professionale del lavoratore, intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità e le proprie capacità nel contesto lavorativo, ed ha ritenuto che tale lesione produca automaticamente un danno non economico ma comunque rilevante sul piano patrimoniale per la sua attinenza agli interessi personali del lavoratore, anche se determinabile necessariamente solo in via equitativa.
Ha poi richiamato le successive sentenze nn. 2763/2003 e 7963/2012 sempre tutte pronunciate in relazione a domande proposte ex art. 2103 c.c. ma pur sempre relative a comportamenti datoriali illegittimi che hanno lasciato in condizione di inattività i dipendenti, sentenze che hanno ribadito le medesime affermazioni precedentemente richiamate.
Infine la Corte d’appello ha affermato che nel caso specifico la lavoratrice fosse stata lasciata forzatamente inattiva per almeno oltre 10 anni (dal 2007 al 2016 per quanto oggetto del presente accertamento), né era stata mai chiamata a frequentare corsi formativi propedeutici per farla rientrare al lavoro e ciò ne aveva cagionato necessariamente il depauperamento della sua professionalità.
Ha invece disatteso la domanda relativa agli altri danni lamentati, biologico morale ed esistenziale.
4.2. Tanto premesso, si osserva in primo luogo che è priva di pregio la censura secondo cui il danno da inattività per Cigs sia differente da quello relativo all’inattività che discende dalla violazione dell’art. 2103 c.c. per svuotamento di mansioni o altri illeciti simili; ovvero l’uno sia di natura legale e di natura contrattuale.
Al contrario la responsabilità del datore di lavoro che lasci inattivo il lavoratore in violazioni di disposizioni di legge o contrattuali (relative alla sospensione per cassa integrazione o alla normativa in tema di corretta assegnazione delle mansioni) risulta in ogni caso discendente dalla violazione di obblighi che discendono da norme che integrano il contratto di lavoro e dunque configura sempre una forma di responsabilità di natura contrattuale.
Né si intuisce perché la fattispecie produttiva di responsabilità e di danno debba essere differente se l’illegittima inattività si produca nel corso dell’esecuzione del rapporto o in seguito ad illegittima sospensione ( o anche estinzione) del rapporto; posto che il danno che viene in rilievo è comunque un danno di natura professionale che si correla alla mancata esecuzione della prestazione, anche in base ad una regola presuntiva, che è poi quella che è stata posta dalla Corte d’appello alla base della liquidazione del danno.
Il danno alla professionalità – per sua natura plurioffensivo – richiesto dalla lavoratrice e liquidato dal giudice d’appello è ovviamente un danno diverso dalla mancata percezione della retribuzione per illegittima collocazione in cig; essendo il primo legato appunto alla perdita della professionalità, dell’immagine professionale e della dignità lavorativa, laddove il secondo è di natura esclusivamente patrimoniale e deriva dalla mancata corresponsione e percezione della retribuzione derivante dal contratto.
Il danno patrimoniale alla professionalità per giurisprudenza consolidata può inoltre essere liquidato prendendo a riferimento una quota della retribuzione che nella fattispecie la Corte di merito ha individuato nella misura del 30%; escludendo invece il danno esistenziale, morale e biologico per difetto di adeguata allegazione e prova.
Ciò la Corte territoriale ha fatto attraverso un accertamento del tutto in linea con la giurisprudenza di questa Corte sia sull’an, sia sulla prova, sia sul quantum (v. Cass. 19923/2019).
Occorre infatti considerare che, ai fini della dell’esistenza e della prova anche presuntiva del danno alla professionalità (anche da demansionamento e dequalificazione professionale), costituiscono elementi indiziari gravi, precisi e concordanti la qualità e quantità dell’attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione (Cass. n. 25743 del 2018; n. 19778 del 2014; n. 4652 del 2009; n. 29832 del 2008).
Va rilevato pure, per contro, che l’accertamento in merito alle circostanze da cui il giudice ha argomentato, secondo un criterio di normalità necessaria, la lesione della professionalità (anche in relazione al periodo di tempo apprezzabile) e la esistenza di un danno non può essere sindacato in questa sede attenendo alla quaestio facti.
Essendo, peraltro, conforme all’art. 2697 c.c. sostenere che un periodo di diversi anni (nel caso di specie almeno tre) di forzosa ed illegittimità inattività possa essere apprezzato dal punto di vista della produzione di conseguenze pregiudizievoli per il lavoratore.
4.3. Va rilevato infine che comunque il danno è stato liquidato per il solo periodo di inattività di cui si discuteva nella presente causa, mentre non esiste la prova della decisività dell’errore denunciato e che sarebbe stato commesso dalla Corte per avere tenuto conto di un periodo di inattività di dieci anni invece che di tre anni pari a quello la cui illegittimità si discuteva in questo giudizio. Com’è noto, la decisività richiesta dall’art.360 n. 5 deve essere tale da poter affermare con certezza che l’esito della valutazione sarebbe stato diverso a seguito di una corretta valutazione del fatto, prova che nella fattispecie è del tutto carente avendo comunque il giudice proceduto alla liquidazione per gli anni di reale inattività di cui si discuteva nella causa.
5.- Pertanto, alla stregua delle premesse il ricorso de quo va respinto.
6.- Le spese processuali seguono il regime della soccombenza, nella misura liquidata in dispositivo in favore della parte controricorrente; segue altresì il raddoppio del contributo unificato ove spettante nella ricorrenza dei presupposti processuali (conformemente alle indicazioni di Cass. s.u. 20 settembre 2019, n. 23535).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese di lite, che liquida in complessivi € 4.000,00 per compensi e 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% e accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale, di un importo pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.