Il c.c.n.l. vigilanza privata va disapplicato in quanto non garantisce una retribuzione “proporzionata” e “sufficiente”.

Nota a App. Napoli 21 marzo 2024, n. 1056

Fabrizio Girolami

Come noto, la Corte di Cassazione, con le sentenze n. 27769 e 27711 del 2 ottobre 2023, ha affermato che il lavoratore può invocare un contratto collettivo diverso da quello di provenienza, non tanto per ottenerne l’applicazione, bensì come termine di riferimento per la determinazione della “giusta retribuzione” ai sensi dell’art. 36 della Costituzione, deducendo la non conformità al precetto costituzionale del trattamento economico previsto nel contratto collettivo applicato al proprio rapporto di lavoro.

A tale importante principio si è attenuta la Corte d’Appello di Napoli, sezione controversie di lavoro e di previdenza ed assistenza, con la sentenza 21.03.2024, n. 1056 (R.G. n. 3058/2022), con riferimento a una controversia instaurata da lavoratori impiegati nell’ambito di un contratto di appalto (e, inizialmente, inquadrati nel 6° livello della declaratoria contrattuale del c.c.n.l. “Guardie sussidiarie non armate”, con orario full time pari a 40 ore settimanali), i quali, a seguito di un fenomeno di successione di appalto, erano stati inquadrati con la qualifica di operatori servizi di portierato, con applicazione del diverso c.c.n.l. per i dipendenti da istituti e imprese di vigilanza privata e servizi fiduciari, con inquadramento al livello D della classificazione del personale, e riconoscimento di un trattamento salariale base di 930 euro lordi.

I lavoratori avevano agito in giudizio chiedendo la nullità dell’art. 23 del c.c.n.l. vigilanza privata (in quanto non ritenuto sufficiente a garantire agli stessi un’esistenza libera e dignitosa ex art. 36 Cost.) e, per l’effetto, l’accertamento del diritto a una retribuzione mensile lorda pari a quella riconosciuta, per dipendenti svolgenti le loro medesime mansioni, dal c.c.n.l. per i dipendenti delle imprese di pulizia e integrati/multiservizi per i lavoratori di 2° livello (ovvero il diverso trattamento retributivo, eventualmente parametrato ad un diverso livello, previsto da altro c.c.n.l. o, ancora, diversamente determinato in via equitativa), nonché la condanna del datore di lavoro al pagamento delle conseguenti differenze retributive.

La Corte napoletana ha accolto l’appello dei lavoratori, rilevando, tra l’altro, quanto segue:

  • fondamentale punto di riferimento (per il legislatore e anche per la contrattazione collettiva) è il principio sancito dall’art. 36 Cost., secondo cui “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Tale disposizione prevede il c.d. “salario minimo costituzionale” che rappresenta “anche un indubbio limite alla facoltà di determinazione del trattamento retributivo da parte proprio delle parti sindacali”;
  • non è da escludere “a priori” che il trattamento retributivo determinato dalla contrattazione collettiva (pur dotata di ogni crisma di rappresentatività) possa risultare in concreto “lesivo del principio di proporzionalità alla quantità e qualità del lavoro di cui deve costituire il corrispettivo e/o di sufficienza ad assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”;
  • il giudice deve garantire il rispetto del salario delineato a livello costituzionale e deve fare riferimento, quali parametri di commisurazione, alla retribuzione stabilita dalla contrattazione collettiva nazionale di categoria, dalla quale può motivatamente discostarsi, disapplicandola anche d’ufficio, quando la stessa “entri in contrasto con i criteri normativi di proporzionalità e sufficienza della retribuzione dettati dall’art. 36 Cost.”;
  • pertanto, in caso di violazione, il giudice deve ripristinare la regola violata, dichiarando la nullità della clausola contrattuale e procedendo alla quantificazione della giusta retribuzione costituzionale (in applicazione delle regole civilistiche di cui all’art. 2099, co. 2, c.c. e art. 1419, co. 1, c.c.);
  • il giudice può, altresì, servirsi, a fini parametrici, del trattamento retributivo stabilito in altri contratti collettivi di settori affini o per mansioni analoghe e, nell’ambito dei propri poteri ex art. 2099, co. 2 c.c., può fare riferimento a indicatori “economici” e “statistici” secondo quanto suggerito dalla Direttiva 2022/2041/UE;
  • a tal fine, il giudice può adottare, quali parametri di riferimento, il “tasso soglia di povertà assoluta” (definito dall’ISTAT come “il valore monetario, a prezzi correnti, del paniere di beni e servizi considerati essenziali per ciascuna famiglia, definita in base all’età dei componenti, alla ripartizione geografica e alla tipologia del comune di residenza”, con la puntualizzazione che “una famiglia è assolutamente povera se sostiene una spesa mensile per consumi pari o inferiore a tale valore monetario”) e l’ammontare dell’importo previsto dal legislatore per la concessione del beneficio assistenziale del “reddito di cittadinanza”;
  • nel caso di specie, la retribuzione prevista dal c.c.n.l. per i dipendenti delle imprese di pulizia e integrati/multiservizi appare, anche alla luce degli importi previsti dal legislatore per il beneficio assistenziale del reddito di cittadinanza, un parametro, oltre che coerente, congruo e ragionevole ai fini di determinare una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato dal ricorrente e sufficiente a garantire un’esistenza libera e dignitosa.

Sentenza 

Retribuzione minima ex art. 36 Cost. e disapplicazione del c.c.n.l. vigilanza privata
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