Il recesso per superamento del periodo di conservazione del posto di lavoro intimato computando anche le assenze per malattia dovute alla patologia invalidante è discriminatorio e, in quanto tale, nullo.
Nota a Cass. 2 maggio 2024, n. 11731
Sonia Gioia
In materia di discriminazioni sul luogo di lavoro, la normativa pattizia che, ai fini del computo del periodo di comporto, ometta di distinguere tra le assenze dovute a malattia e quelle connesse alla patologia correlata alla disabilità, integra una violazione indiretta del principio di parità di trattamento basata sull’handicap, “perché la mancata considerazione dei rischi di maggiore morbilità dei lavoratori disabili, propri in conseguenza della disabilità, converte il criterio, in apparenza neutro, del computo del periodo di comporto breve in una prassi discriminatoria nei confronti del particolare gruppo sociale protetto, siccome in posizione di particolare svantaggio”.
Sicché il recesso intimato dall’imprenditore per superamento del termine massimo di conservazione del posto di lavoro, calcolato sommando anche i giorni di malattia legati alla condizione di invalidità, è nullo ai sensi dell’art. 15, L. 20 maggio 1970, n. 300 (c.d. Statuto dei Lavoratori), con conseguente applicazione della tutela reale di cui all’art. 18, co. 1-3, Stat. Lav.
Lo ha ribadito la Corte di Cassazione (2 maggio 2024, n. 11731, conforme ad App. Firenze n. 760/2021), in relazione una fattispecie concernente la legittimità del licenziamento irrogato ad un dipendente, portatore di handicap, per superamento del periodo di comporto, nel cui computo la società datrice aveva incluso anche i periodi di assenza riconducibili alla condizione di disabilità (nello specifico, doppia neoplasia linfoproliferativa cronica sulla cute del padiglione auricolare destro).
Nel giudizio di merito, la Corte d’Appello, in conformità con il giudice di prime cure, aveva dichiarato la nullità del recesso sul presupposto che l’applicazione nei confronti del dipendente con handicap della normativa pattizia che prevede per tutti i prestatori, non in prova, il diritto “alla conservazione del posto per un periodo di 15 mesi” nell’arco di 30 (art. 21, CCNL dei Lavoratori dei Porti), senza l’adozione di alcun accorgimento a tutela dei prestatori invalidi, comportava un’illegittima disparità di trattamento in danno di questi ultimi.
Come noto, allo scopo di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento sul luogo di impiego, il datore di lavoro, sia pubblico che privato, è tenuto ad adottare “soluzioni ragionevoli”, vale a dire “provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete” per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro o di svolgerlo, salvo che tali provvedimenti richiedano da parte dell’imprenditore “un onere finanziario sproporzionato” (art. 5, Direttiva. 2000/78/CE recante disposizioni “Per la parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro” e art. 3, co. 3 bis, D. LGS. 9 luglio 2003, n. 216, attuativo della citata Direttiva).
Il datore di lavoro, in particolare, è tenuto all’adozione di ogni ragionevole accomodamento organizzativo che, senza comportare oneri finanziari sproporzionati, sia idoneo a contemperare, “in nome dei principi di solidarietà sociale, buona fede e correttezza” (art. 2 Cost. e artt. 1175 e 1375 c.c.), gli interessi giuridicamente rilevanti delle parti coinvolte, vale a dire quello:
- del lavoratore disabile al mantenimento di un impiego confacente con il suo stato psicofisico, in una situazione di oggettiva ed incolpevole difficoltà;
- dell’imprenditore a garantirsi comunque una prestazione utile all’impresa e a “non doversi fare carico a tempo indefinito del contraccolpo” che le assenze del lavoratore cagionano all’organizzazione aziendale;
- degli altri dipendenti coinvolti, la cui posizione va valutata comparativamente, “fermo il limite invalicabile del pregiudizio alle situazioni soggettive di questi ultimi aventi la consistenza di diritti soggettivi” (Cass. n. 27334/2022, con nota in q. sito di F. BELMONTE; Cass. n. 6497/2021).
Da ciò discende che l’applicazione del medesimo periodo di comporto a tutti i lavoratori, sia disabili che “normodotati”, senza la previsione di misure adeguate a tutela dei primi, costituisce una violazione del principio di uguaglianza sostanziale (art. 3, co. 2 Cost.) e dà luogo ad una discriminazione indiretta, vietata ai sensi dell’art. 2, lett. b), Dir. cit. e art. 2, co. 1, lett. b), D. Lgs. n. 216 cit.), poiché pone la persona invalida in una posizione di oggettivo svantaggio rispetto agli altri prestatori (Cass. (ord.) n. 9095/2023, annotata in q. sito da C. GIAGHEDDU SAITTA).
I lavoratori con handicap, infatti, sono soggetti ad un maggior rischio di accumulare giorni di assenza per patologie causalmente collegate alla loro disabilità e di ricorrere, in via definitiva o per un protratto periodo di tempo, a cure specifiche o periodiche – oltre ad incontrare maggiori difficoltà a reinserirsi nel mondo del lavoro ed avere esigenze specifiche connesse alla tutela richiesta dalla loro condizione – diversamente dai dipendenti “normodotati” che limitano le proprie assenze ai casi contingentati di patologie che hanno una durata breve o comunque limitata nel tempo.
Con riguardo alle regole concernenti il riparto degli oneri della prova, nei giudizi antidiscriminatori è prevista un’agevolazione del regime probatorio in favore del ricorrente, che non è tenuto a fornire, seppur in via presuntiva, una piena prova del fatto, ai sensi dell’art. 2729 c.c., ma è sufficiente che alleghi elementi fattuali, anche di carattere statistico, da cui possa desumersi per inferenza che la discriminazione abbia avuto luogo, per far scattare l’onere per il datore di lavoro di dimostrare l’insussistenza della violazione del principio di parità di trattamento (art. 10, Dir. cit. e art. 28, co 4, D. LGS. 1 settembre 2011, n. 150).
In particolare, il lavoratore è tenuto a provare elementi fattuali che, anche se privi delle caratteristiche di gravità precisione e concordanza, devono rendere plausibile la discriminazione, “pur lasciando comunque un margine di incertezza in ordine alla sussistenza dei fatti costitutivi della fattispecie discriminatoria”; sicché il rischio della permanenza dell’incertezza grava sull’imprenditore, tenuto a dimostrare l’insussistenza della discriminazione allorché siano dimostrate le circostanze fattuali idonee a lasciare desumere la sussistenza della violazione del principio di parità di trattamento (Cass. n. 9870/2022; Cass. n. 27502/2019, con nota in q. sito di S. GIOIA; Cass. n. 25543/2018).
Tali principi operano anche nell’ipotesi di discriminazione indiretta realizzata mediante il licenziamento per superamento dell’ordinario periodo di comporto nei confronti del lavoratore disabile e valgono anche con riferimento alla consapevolezza del datore di lavoro della situazione di disabilità del proprio dipendente, “nel senso dell’onere del primo, una volta che sia edotto della condizione effettiva di handicap del secondo (…) di attivarsi per approfondire le ragioni delle assenze per malattia eventualmente dipendenti dall’handicap noto, così da superare quell’incertezza su di sé negativamente ridondante, in quanto tenuto a provare l’insussistenza della discriminazione, una volta dimostrate le circostanze di fatto idonee a lasciarla desumere”.
In attuazione di tali principi, la Cassazione ha confermato la pronuncia della Corte distrettuale che – dopo aver verificato che l’effettiva condizione di handicap, nota alla società datrice, aveva comportato la quasi totalità delle assenze per malattia computate ai fini del periodo di comporto nonché il progressivo abbassamento di livello delle mansioni svolte e l’incidenza negativa sulla sua vita professionale a causa delle cure chemioterapiche – aveva dichiarato la nullità del provvedimento espulsivo, in quanto discriminatorio, con conseguente condanna dell’azienda alla reintegrazione del dipendente sul posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria, oltre che al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.
In tema, v. anche, in q. sito, M. N. BETTINI, I.O., Lavoratore disabile nel recente intervento della Cassazione: nozione, accomodamenti ragionevoli, licenziamento e onere della prova.
Sentenza
CORTE DI CASSAZIONE 2 maggio 2024, n. 11731
Svolgimento del processo
1.Con sentenza 4 novembre 2021, la Corte d’appello di Firenze ha rigettato il reclamo di Terminal Darsena Toscana Srl avverso la sentenza di primo grado, di nullità del licenziamento, siccome discriminatorio, intimato l’11 luglio 2019 al lavoratore indicato in epigrafe (suo dipendente dal 2009, con mansioni di operaio, affetto dal luglio 2010 da una doppia neoplasia linfoproliferativa cronica sulla cute del padiglione auricolare destro), per superamento del periodo di comporto (previsto dall’art. 21 CCNL Porti in un periodo di 15 mesi nell’arco di trenta) in quanto assente per malattia dal 20 marzo 2017 al 7 luglio 2019 per 458 giorni. Accertata detta nullità, il primo giudice ha condannato la società datrice alla reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro e al pagamento, in suo favore, di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal licenziamento alla reintegrazione, oltre che al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali per lo stesso periodo.
2. Come il Tribunale, la Corte territoriale ha ritenuto la discriminazione indiretta subita dal lavoratore in condizione di handicap dipendente dalla documentata patologia oncologica cronica dal 2010, in ragione dell’insufficienza, a norma dell’art. 2, secondo comma, lett. b) della Direttiva 2000/78/CE, nell’individuazione – in funzione del conseguimento della finalità legittima del contemperamento degli interessi contrapposti del lavoratore e del datore di lavoro alla base dell’istituto del comporto – nell’art. 21 CCNL cit. dello strumento appropriato e necessario di tutela della condizione di rischio del lavoratore svantaggiato, per la previsione di un arco temporale unico e indifferenziato anche per i periodi di malattia imputabili alla sua disabilità; né potendo tale situazione essere bilanciata da un ulteriore periodo di aspettativa (non retribuita), indistintamente applicabile a lavoratori normodotati e disabili.
3. Essa ne ha inoltre condiviso l’accertamento di gravità e cronicità della patologia oncologica del lavoratore, tale da comprometterne la capacità lavorativa (in misura del 70% e dal 2015 del 75%) e comportante – per le notevoli assenza dovute alla malattia, agli interventi e alle cure chemioterapiche – il progressivo abbassamento di livello (dal IV al VI) delle mansioni svolte: da “addetto al pool operativo” ad “addetto ufficio formazione e training”, quindi ad “addetto al gate out” e infine ad “addetto gestione parco auto aziendale”.
4. Infine, la Corte d’appello ha escluso la carenza dell’elemento soggettivo della società datrice, per la rilevanza oggettiva della discriminazione, attesa la sua piena consapevolezza del fattore di handicap del lavoratore e del rischio di trattamenti discriminatori nel computo indifferenziato di tutte le assenze per malattia ai fini del comporto, non avendo essa verificato la loro riconducibilità o meno alla patologia oncologica, pur essendone onerata, in considerazione del regime probatorio attenuato, in favore del soggetto portatore del rischio, vigente in materia.
5. Con atto notificato il 3 gennaio 2022, la società ha proposto ricorso per cassazione con quattro motivi, illustrati da memoria finale, mentre il lavoratore intimato non ha svolto difese.
6. Il P.G. ha comunicato requisitoria nel senso del rigetto del ricorso.
Motivi della decisione
1.Con il primo motivo, la ricorrente ha dedotto violazione e falsa applicazione degli artt. 1e 2Direttiva 2000/78/CE, 1, 2 e 3, comma 3bis D.Lgs. 216/2003, 7 D.Lgs. 119/2011, 1218 c.c., per avere la Corte territoriale ritenuto il licenziamento intimato antidiscriminatorio sull’erroneo presupposto dell’indifferenziato regime di comporto per tutti i lavoratori, normodotati e non, senza considerare la disciplina complessiva al riguardo, di previsione di un’aspettativa non retribuita, esaurito il periodo di comporto, a richiesta del lavoratore, di quattro mesi elevabile a sei, prorogabile di ulteriori sei mesi e il diritto di godimento, sempre a richiesta, di un congedo annuale di trenta giorni per cure non computabile nel periodo di comporto, per i lavoratori con invalidità superiore al 50%, come appunto il lavoratore de quo, che tuttavia non aveva proposto domande in tale senso.
2. Con il secondo, essa ha dedotto violazione e falsa applicazione degli artt. 2, secondo comma, lett. b) Direttiva 2000/78/CE, 3, comma 4Lireer D.Lgs. 216/2003, per avere la Corte territoriale ritenuto – in funzione del contemperamento degli interessi del datore di lavoro di sostenere i costi retributivi e contributivi corrispettivi all’effettiva prestazione lavorativa e del lavoratore di potersi curare senza perdere i mezzi alla sua realizzazione – mezzo “appropriato” e “necessario”, rimesso alla discrezionalità degli Stati membri dell’Unione europea, soltanto il trattamento differenziato del periodo di comporto per lavoratori normodotati e lavoratori con handicap, e non la suindicata disciplina complessiva.
3. Con il terzo motivo, la ricorrente ha dedotto violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116c.p.c., 2697 c.c., per avere la Corte territoriale ritenuto sussistenti elementi costitutivi della condizione di handicap del lavoratore, quali l’incidenza negativa della patologia sofferta sulla sua vita professionale (per l’assiomatica affermazione di incidenza negativa del passaggio da mansioni operative a mansioni d’ufficio e di “compromissione delle possibilità di progressioni future in carriera”) e l'”interazione con barriere di diversa natura” (condizioni di costrittività ambientale incompatibili con lo stato della malattia, in luogo di possibilità agevolate di lavoro da casa in smart working), in difetto di allegazione della parte, né risultanti dagli atti.
4. Con il quarto, essa ha dedotto violazione e falsa applicazione degli artt. 1e 2Direttiva 2000/78/CE, 1, 2 e 3, comma 3bis D.Lgs. 216/2003, 1175 e 1375 c.c., per non avere la Corte territoriale ritenuto incolpevole il proprio comportamento di discriminazione indiretta nei confronti del dipendente, avendo avuto conoscenza della ragione delle sue assenze per malattia soltanto in giudizio, avendo egli prodotto le certificazioni mediche indicanti tali ragioni, ma prima giustificato le assenze con certificazioni neutre, prive di ogni riferimento alla sua patologia oncologica cronica, neppure segnalando con barratura le caselle relative a “patologie gravi che richiedano terapie salvavita” ovvero a “stato patologico connesso all’invalidità riconosciuta”.
5. Essi, congiuntamente esaminabili per ragioni di stretta connessione, sono infondati.
6. Giova ribadire, in premessa, la riconducibilità dell’istituto del comporto a quel “punto di equilibrio fra l’interesse del lavoratore a disporre d’un congruo periodo di assenze per ristabilirsi a seguito di malattia o infortunio e quello del datore di lavoro di non doversi fare carico a tempo indefinito del contraccolpo che tali assenze cagionano all’organizzazione aziendale” astrattamente predeterminato nell’art. 2110, secondo comma c.c. (Cass. 16 settembre 2022, n. 27334, in motivazione, sub p.to 20). E come es Data p rientri nella più ampia categoria dei c.d. “accomodamenti ragionevoli”, gravanti il datore di lavoro dell’obbligo di previa verifica della possibilità di adattamenti organizzativi, appunto ragionevoli, nei luoghi di lavoro ai fini della legittimità del recesso, secondo una interpretazione conforme agli obiettivi della direttiva 2000/78/CE(Cass. 9 marzo 2021, n. 6497, in motivazione, sub p.to 4).
7. È noto che, in tema di licenziamento, costituisca discriminazione indiretta l’applicazione dell’ordinario periodo di comporto al lavoratore disabile, perché la mancata considerazione dei rischi di maggiore morbilità dei lavoratori disabili, proprio in conseguenza della disabilità, converte il criterio, in apparenza neutro, del computo del periodo di comporto breve in una prassi discriminatoria nei confronti del particolare gruppo sociale protetto, siccome in posizione di particolare svantaggio (Cass. 31 marzo 2023, n. 9095, in motivazione).
Al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, appare allora necessaria, a norma dell’art. 3, comma 3bis D.Lgs. 216/2003, l’adozione, da parte dei datori di lavoro pubblici e privati, di ogni ragionevole accomodamento organizzativo che, senza comportare oneri finanziari sproporzionati, sia idoneo a contemperare, in nome dei principi di solidarietà sociale, buona fede e correttezza, l’interesse del disabile al mantenimento di un lavoro confacente alla sua condizione psico-fisica con quello del datore a garantirsi una prestazione lavorativa utile all’impresa, anche attraverso una valutazione comparativa con le posizioni degli altri lavoratori; fermo il limite invalicabile del pregiudizio alle situazioni soggettive di questi ultimi aventi la consistenza di diritti soggettivi (Cass. 9 marzo 2021, n. 6497, in tema di licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore).
7.1. D’altro canto, l’adozione di “accomodamenti ragionevoli” presuppone l’onere del lavoratore di allegare e provare la limitazione risultante dalle proprie menomazioni fisiche, mentali e psichiche durature e la traduzione di tale limitazione, in interazione con barriere di diversa natura, in un ostacolo alla propria partecipazione, piena ed effettiva, alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori, posto che non ogni situazione di infermità fisica che renda il lavoratore inidoneo alle mansioni di assegnazione risulta ex se riconducibile alla nozione di disabilità di cui alla disposizione suddetta (Cass. 28 ottobre 2019, n. 27502, in motivazione, sub p.to 8.4, pure in tema di licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore derivante da una condizione di handicap). È bene in proposito chiarire che l’art. 40 D.Lgs. 198/2006, nel fissare un principio applicabile sia nei casi di procedimento speciale antidiscriminatorio che di azione ordinaria promossi dal lavoratore ovvero dal consigliere di parità, non stabilisce un’inversione dell’onere probatorio, ma solo un’attenuazione del regime probatorio ordinario in favore del ricorrente, prevedendo a carico del datore di lavoro, in linea con quanto disposto dall’art. 19 della Direttiva CE n. 2006/54 (come interpretato da Corte di Giustizia Ue 21 luglio 2011, C-104/10), l’onere di fornire la prova dell’inesistenza della discriminazione, ma a condizione che il ricorrente abbia previamente fornito al giudice elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, anche se non gravi, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso (Cass. 12 ottobre 2018, n. 25543). Esso introduce così un’agevolazione probatoria mediante lo strumento di una parziale inversione dell’onere dovendo l’attore fornire elementi fattuali che, anche se privi delle caratteristiche di gravità, precisione e concordanza devono rendere plausibile l’esistenza della discriminazione, pur lasciando comunque un margine di incertezza in ordine alla sussistenza dei fatti costitutivi della fattispecie discriminatoria; sicché, il rischio della permanenza dell’incertezza grava sul convenuto, tenuto a provare l’insussistenza della discriminazione una volta che siano state dimostrate le circostanze di fatto idonee a lasciarla desumere (Cass. 28 marzo 2022, n. 9870, in riferimento all’art. 28, quarto comma D.Lgs. 150/2011, quale disposizione speciale rispetto all’art. 2729 c.c., in tema di discriminazione indiretta nei confronti di persone con disabilità ai sensi della legge n. 67 del 2006).
7.2. I suenunciati principi di attenuazione dell’onere probatorio operano anche nell’ipotesi di discriminazione indiretta, realizzata mediante licenziamento per superamento dell’ordinario periodo di comporto nei confronti del lavoratore disabile (Cass. 31 marzo 2023, n. 9095, in motivazione sub p.to 28) e valgono anche in riferimento alla consapevolezza del datore di lavoro dell'”handicap di salute” del proprio dipendente, nel senso dell’onere del primo, una volta che sia edotto della condizione effettiva di handicap del secondo (nel caso di specie: documentata affezione dal luglio 2010 da una doppia neoplasia linfoproliferativa cronica sulla cute del padiglione auricolare destro), di attivarsi per approfondire le ragioni delle assenze per malattia eventualmente dipendenti dall’handicap noto, così da superare quell’incertezza su di sé negativamente ridondante, in quanto tenuto a provare l’insussistenza della discriminazione, una volta dimostrate le circostanze di fatto idonee a lasciarla desumere (così dovendosi intendere le affermazioni, in merito all’irrilevanza dell’atteggiamento soggettivo dell’autore della discriminazione, in: Cass. 31 marzo 2023, n. 9095, in motivazione sub p.to 29). 8. Nel caso di specie, la Corte territoriale ha compiuto un accertamento in fatto, in ordine all’effettiva condizione di handicap del lavoratore per la documentata sua affezione dal luglio 2010 da una doppia neoplasia linfoproliferativa cronica sulla cute del padiglione auricolare destro (ultimo capoverso di pg. 5 della sentenza), nota alla società datrice (così al secondo capoverso di pg. 9 della sentenza) e comportante la quasi totalità delle assenze per malattia computate ai fini del periodo di comporto (primo periodo di pg. 6 della sentenza), nonché il progressivo abbassamento di livello (dal IV al VI) delle mansioni svolte dal lavoratore e l’incidenza negativa sulla sua vita professionale (ultimo capoverso di pg. 7 e primo di pg. 8 della sentenza), senza alcuna carenza di allegazione, né di prova a carico del lavoratore (secondo capoverso di pg. 8 della sentenza), in corrispondenza dei principi di diritto suenunciati in tema di attenuazione dell’onere probatorio in materia. Tale accertamento in fatto non è più censurabile, né è stato in effetti censurato, come rilevato anche dal P.G. (al p.to 4.1 della requisitoria).
Rispetto ad esso, la deduzione di violazione, con il terzo motivo, degli artt. 115, 116 c.p.c. e 2697 c.c., si declina allora come sostanziale contestazione della valutazione probatoria giudiziale, in difetto di un’appropriata deduzione di errores in iudicando (quanto alle prime due norme inammissibilmente denunciate: Cass. s.u. 30 settembre 2020, n. 20867; Cass. 9 giugno 2021, n. 16016; quanto alla terza: Cass. 17 giugno 2013, n. 15107; Cass. 29 maggio 2018, n. 13395; Cass. 31 agosto 2020, n. 18092), con la sottesa sollecitazione ad una rivisitazione del merito con una diversa ricostruzione del fatto: Cass. 7 dicembre 2017, n. 29404; Cass. s.u. 27 dicembre 2019, n. 34476; Cass. 4 marzo 2021, n. 5987)
8. Per le superiori ragioni, il ricorso deve essere rigettato pub senza l’assunzione di provvedimenti sulle spese del giudizio, non avendo il lavoratore vittorioso svolto attività difensiva, con raddoppio del contributo unificato, ove spettante nella ricorrenza dei presupposti processuali (conformemente alle indicazioni di Cass. s.u. 20 settembre 2019, n. 23535) e con oscuramento come disposto in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; nulla sulle spese.
Ai sensi dell’art. 13 comma I quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13, se dovuto.