Il lavoratore che provi, con documenti di data certa, l’effettiva esistenza e durata del rapporto di lavoro, per il quale si è verificata l’omissione contributiva, ha diritto alla costituzione della rendita vitalizia, non essendo necessario dimostrare anche il concreto svolgimento dell’attività lavorativa, salvo sia accertata la fittizietà dei documenti esibiti.

Nota a Cass. 10 maggio 2024, n. 12833

Sonia Gioia

“In tema di azione volta alla costituzione della rendita vitalizia, la previsione dell’art. 13, commi quarto e quinto, L. n. 1338/1962, secondo cui il datore di lavoro o il lavoratore che gli si sostituisca debbono fornire all’INPS documenti di data certa dai quali possano evincersi la effettiva esistenza e la durata del rapporto di lavoro nonché la misura della retribuzione, va interpretata nel senso che, salvo il caso che si accerti la fittizietà dei documenti, la prova scritta dell’esistenza e durata del rapporto esime da ogni prova circa il concreto svolgimento dell’attività lavorativa”.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione 10 maggio 2024, n. 12833 (difforme da App. Bologna n. 765/2018), in relazione ad una fattispecie concernente un lavoratore subordinato che chiedeva all’INPS la costituzione della rendita vitalizia intesa a rimediare all’omissione contributiva di sedici settimane verificatasi in suo danno nel periodo compreso tra il 1970 e il 1974.

Nel giudizio di merito, la Corte distrettuale, in conformità con il giudice di prime cure, aveva respinto la domanda del prestatore sul presupposto che dalle prove documentali acquisite si evinceva solamente la data di inizio e di conclusione del rapporto di impiego, ma non anche la prova dell’effettivo svolgimento dell’attività lavorativa, essendo a tal proposito “generica” la prova orale assunta in primo grado.

Com’è noto, la costituzione della rendita vitalizia (o riscatto) ha la finalità di sanare un’omissione contributiva nell’assicurazione obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti (c.d. I.V.S.) in relazione alla quale si sia verificata la prescrizione e, quindi, ha come presupposto l’inadempimento di un obbligo contributivo da parte del soggetto tenuto al pagamento dei contributi (art. 13, L. 12 agosto 1962, n. 1338, concernente “Disposizioni per il miglioramento dei trattamenti di pensione dell’assicurazione obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti”).

Tale istituto consente, previa esibizione di prove rigorose, di versare un onere a copertura di tutti o parte di quei periodi di lavoro la cui contribuzione sia stata omessa, totalmente o parzialmente, e che non sia recuperabile per il decorso dei termini di prescrizione, ad eccezione dei casi in cui le disposizioni vigenti all’epoca dello svolgimento del rapporto di impiego prevedevano l’esclusione a qualsiasi titolo dell’obbligo assicurativo.

I contributi sono accreditati dopo il pagamento dell’onere di riscatto, che è determinato secondo le norme che disciplinano la liquidazione del trattamento di quiescenza, con il sistema retributivo o contributivo, tenuto conto della collocazione temporale dei periodi riscattati (art. 2, D. LGS. 20 aprile 1997, n. 184, come mod. dalla L. 24 dicembre 2007, n. 247), e sono utili sia per il diritto che per la misura di tutte le pensioni.

La facoltà di riscatto può essere esercitata:

  • Dal datore di lavoro che ha omesso il versamento dei contributi e intende, in tal modo, procedere al pagamento degli stessi rimediando al danno cagionato al dipendente;
  • Dal lavoratore stesso, in sostituzione dell’imprenditore (salvo il diritto al risarcimento del danno), sia nel caso in cui presti ancora attività lavorativa sia nel caso in cui abbia già ottenuto la pensione;
  • Dai superstiti del lavoratore.

Ai fini della costituzione della rendita vitalizia è necessario che i soggetti soprarichiamati forniscano prova dell’effettiva esistenza e durata del rapporto di impiego, della qualifica rivestita dal lavoratore e delle retribuzioni percepite.

In particolare, la sussistenza del rapporto di impiego deve essere dimostrata attraverso la produzione di documenti di data certa (in originale o copia conforme debitamente autenticata) redatti all’epoca in cui si svolgeva il rapporto di lavoro o anche in epoca successiva, purché risalente rispetto alla data della domanda di riscatto (buste paga, libretti di lavoro, lettere di assunzione o licenziamento, libri paga e matricola o altri documenti attinenti al rapporto di lavoro).

Diversamente, la durata del rapporto di lavoro, la continuità della prestazione lavorativa e l’ammontare dei compensi percepiti possono essere provati con altri mezzi, anche verbali (Circ. INPS n. 78/2019).

Nello specifico, il ricorso alla dichiarazione testimoniale – che deve essere rilasciata con piena assunzione di responsabilità anche penale per quanto affermato (artt. 38 e 47, D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445) – è circoscritta “all’eventualità di conferire data certa al documento oppure per provare una diversa durata del rapporto o la misura della retribuzione”.

Ciò, dal momento che la prova scritta resta, ai fini della facoltà di riscatto ex art. 13 cit., “la prova decisiva” e, salvo il caso che se ne accerti la fittizietà, la produzione di documenti di data certa, dai quali possano evincersi l’effettiva esistenza e durata del rapporto di lavoro, nonché la misura della retribuzione corrisposta, “è sufficiente” a far guadagnare al prestatore – previo versamento dell’onere di riscatto e salvo il ristoro del danno da parte del datore di lavoro – il diritto alla costituzione della rendita vitalizia (Corte. Cost. n. 568/1989).

Sicché, fatta salva l’ipotesi in cui venga accertato il carattere fittizio dei documenti esibiti, la prova scritta dell’esistenza e durata del rapporto di impiego esonera l’interessato da ogni altra prova circa l’effettivo espletamento della prestazione lavorativa, considerato che, in presenza di un rapporto di lavoro giuridicamente in essere,  l’imprenditore è tenuto, ai sensi dell’art. 12, L. 30 aprile 1969, n. 153, al versamento della contribuzione anche laddove l’attività lavorativa non sia effettivamente prestata (si pensi alle assenze per ferie, malattia, etc.) (Cass. S.U. n. 15143/2007).

In attuazione di tali principi, la Corte ha cassato la pronuncia di merito, con rinvio ad altro giudice in diversa composizione, per aver ritenuto insufficiente la prova orale – che non aveva ad oggetto né l’attribuzione di data certa ai documenti né la dimostrazione di una diversa natura del rapporto o della misura della retribuzione – senza considerare che quella documentale aveva già ampiamente conseguito lo scopo di dimostrare l’inizio e la fine del rapporto di lavoro e per aver ritenuto necessaria la prova dell’effettiva della prestazione di lavoro, senza tener conto del fatto che il rapporto di impiego è soggetto per sua natura a periodi in cui l’assenza della prestazione non rileva quale causa interruttiva del rapporto stesso.

Sentenza

CORTE DI CASSAZIONE 10 maggio 2024 n. 12833

Svolgimento del processo

Con sentenza depositata il 24 luglio 2018, la Corte d’appello di Bologna ha rigettato l’appello e comunque la domanda proposta da A.A. volta alla costituzione della rendita vitalizia intesa a rimediare all’omissione contributiva di sedici settimane verificatasi in suo danno in relazione ai periodi 10 luglio-19 settembre 1970 e 1° agosto 1972-11 maggio 1974, durante i quali aveva prestato attività lavorativa alle dipendenze di C.C. senza che il datore di lavoro versasse integralmente i contributi dovuti. La Corte, dato atto che il primo giudice aveva dichiarato inammissibile la domanda di costituzione della rendita vitalizia per non essere stata previamente proposta nei confronti del datore di lavoro, ha ritenuto che, anche a voler ritenere sufficiente a tal fine l’integrazione del contraddittorio disposta già in prime cure nei confronti dell’erede di C.C., il principio della ragione più liquida imponeva di ritenere la domanda infondata, atteso che dalle prove documentali acquisite agli atti si evinceva solamente la data di inizio e di conclusione dei due precorsi rapporti di lavoro, ma non anche la prova del facere lavorativo nelle sedici settimane in questione, essendo all’uopo generica la prova orale assunta in primo grado.

Avverso tale pronuncia A.A. ha proposto ricorso per cassazione, deducendo cinque motivi di censura. L’INPS ha resistito con controricorso. L’avente causa di C.C. non ha svolto in questa sede attività difensiva.

Motivi della decisione

Con il primo e il quarto motivo, il ricorrente denuncia nullità della sentenza per non avere la Corte di merito pronunciato sul primo motivo di appello, concernente l’erronea statuizione di prime cure circa l’inammissibilità della domanda volta alla costituzione della rendita, nonché violazione dell’art. 13, L. n. 1338/1962, per avere la Corte medesima ritenuto che l’integrazione del contraddittorio già disposta in primo grado non fosse sufficiente a radicare i presupposti per la decisione sul merito, e in ogni caso difetto di motivazione in punto di ammissibilità della domanda e contrasto tra motivazione e dispositivo per essere stato respinto l’appello a fronte di una motivazione imperniata sul merito della domanda proposta in giudizio.

Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 13, L. n. 1338/1962, per avere la Corte territoriale ritenuto insufficiente la prova orale senza considerare che quella documentale aveva già pienamente conseguito lo scopo di dimostrare inizio e durata del rapporto di lavoro.

Con il terzo motivo, il ricorrente si duole di violazione e falsa applicazione degli artt. 2110 c.c. e 13, L. n. 1338/1962, per avere la Corte di merito ritenuto necessaria la prova dell’effettività della prestazione lavorativa nei periodi oggetto di omissione contributiva, senza considerare che il rapporto di lavoro è soggetto per sua natura a periodi in cui l’assenza della prestazione (per ferie, malattia, riposi, cassa integrazione) non rileva quale causa di interruzione del rapporto medesimo.

Con il quinto motivo, infine, il ricorrente deduce omesso esame circa un fatto decisivo per non avere la Corte territoriale esaminato la dichiarazione del Centro per l’impiego del 25 giugno 2012 da cui risultava l’esistenza e la durata del rapporto di lavoro presso l’impresa C.C. dal 10 luglio 1970 al 19 settembre 1970 nonché dal 1° agosto 1972 all’11 maggio 1974. Ciò posto, il primo e il quarto motivo sono inammissibili. Come già evidenziato nello storico di lite, i giudici territoriali, richiamando il principio della ragione più liquida, hanno ragionato come se l’integrazione del contraddittorio disposta in primo grado fosse sufficiente a reputare ammissibile la domanda e, esaminatala nel merito, l’hanno reputata infondata; ed è evidente che, in quest’ottica, il ricorrente non ha alcun interesse a dolersi del difetto di pronuncia e di motivazione circa il primo motivo di appello, con cui egli aveva censurato la statuizione d’inammissibilità resa in primo grado: tale censura aveva infatti unicamente lo scopo di ottenere quella pronuncia di merito che, in concreto, la Corte d’appello ha comunque reso, per modo che la stessa locuzione “respinge l’appello”, che pure figura nel dispositivo della sentenza accanto all’altra “o comunque la domanda”, non può che alludere alla conferma, con diversa motivazione, della reiezione della domanda già disposta da parte del giudice di prime cure.

Sono invece fondati il secondo e il terzo motivo, che possono esaminarsi congiuntamente in relazione all’intima connessione delle censure.

Com’è noto, l’art. 13, L. n. 1338/1962, prevede al quinto comma che il lavoratore, che intenda sostituirsi al datore di lavoro ai fini della costituzione in suo favore della rendita vitalizia, deve fornire “all’Istituto nazionale della previdenza sociale le prove del rapporto di lavoro e della retribuzione indicate nel comma precedente”, ossia “documenti di data certa, dai quali possano evincersi la effettiva esistenza e la durata del rapporto di lavoro, nonché la misura della retribuzione”.

È del pari noto che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 568 del 1989, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma in esame “nella parte in cui, salva la necessità della prova scritta sulla esistenza del rapporto di lavoro da fornirsi dal lavoratore, non consente di provare altrimenti la durata del rapporto stesso e l’ammontare della retribuzione”. Ma dalla declaratoria d’illegittimità costituzionale, che i giudici di merito hanno peraltro richiamato, non può certo farsi discendere l’assoluta irrilevanza, ai fini della prova del rapporto, dei “documenti di data certa, dai quali possano evincersi la effettiva esistenza e la durata del rapporto di lavoro”: al contrario, dal tenore della motivazione e dello stesso dispositivo della sentenza appena richiamata si evince piuttosto che la rilevanza delle prove orali, che il giudice delle leggi ha riconosciuto come costituzionalmente necessitata al fine di rimediare ai vulnera che, diversamente, avrebbe patito il lavoratore, rimane circoscritta all’eventualità di conferire data certa al documento oppure per provare una diversa durata del rapporto o la misura della retribuzione. Il che val quanto dire che la prova scritta resta, in subiecta materia, la prova decisiva e che, salvo il caso che se ne accerti la fittizietà, la produzione di “documenti di data certa, dai quali possano evincersi la effettiva esistenza e la durata del rapporto di lavoro, nonché la misura della retribuzione” è sufficiente a guadagnare al lavoratore – previo versamento della riserva matematica e salvo il risarcimento del danno da parte del datore di lavoro – il diritto alla costituzione della rendita vitalizia.

Tanto premesso, balza evidente l’errore in cui sono incorsi i giudici territoriali: una volta constatato che “dalle prove documentali si evince (…) l’inizio e la fine dei due rapporti di lavoro sub iudice” (così la sentenza impugnata, pag. 4) affatto irrilevanti, ai fini del decidere, dovevano ritenersi prove orali, che non avevano ad oggetto né l’attribuzione di data certa ai documenti né la dimostrazione di una diversa durata del rapporto o della misura della retribuzione: e ciò perché l’effettivo svolgimento dell’attività lavorativa costituisce per il lavoratore oggetto di un’obbligazione di facere i cui tempi e le cui modalità debbono essere decisi dal datore di lavoro, il quale, ex art. 12, L. n. 153/1969, resta obbligato a corrispondere la contribuzione dovuta perfino in assenza di alcuna prestazione effettiva, solo importando che il rapporto di lavoro sia giuridicamente in essere (cfr. in tal senso Cass. S.U. n. 15143 del 2007 e succ. conf.). Pertanto, dichiarati inammissibili il primo ed il quarto motivo e assorbito il quinto, la sentenza impugnata va cassata in relazione alle censure accolte e la causa va rinviata alla Corte d’appello di Bologna, in diversa composizione, che si atterrà al seguente principio di diritto:

“In tema di azione volta alla costituzione della rendita vitalizia, la previsione dell’art. 13, commi quarto e quinto, L. n. 1338/1962, secondo cui il datore di lavoro o il lavoratore che gli si sostituisca debbono fornire all’INPS documenti di data certa dai quali possano evincersi la effettiva esistenza e la durata del rapporto di lavoro nonché la misura della retribuzione, va interpretata nel senso che, salvo il caso che si accerti la fittizietà dei documenti, la prova scritta dell’esistenza e durata del rapporto esime da ogni prova circa il concreto svolgimento dell’attività lavorativa”. Il giudice designato provvederà altresì sulle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il secondo e il terzo motivo di ricorso, assorbito il quinto e dichiarati inammissibili il primo e il quarto. Cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia la causa alla Corte d’appello di Bologna, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.

Omissione contributiva e rendita vitalizia INPS: l’onere della prova
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