Se la cessazione del rapporto di lavoro avviene a causa di inabilità permanente al lavoro, il prestatore non perde il diritto alle ferie né alla corrispondente indennità. Sul datore di lavoro grava l’onere della prova di avere invitato il lavoratore a godere del periodo feriale.

Nota a Cass. ord. 21 maggio 2024, n. 14083

Valerio Di Bello

“In tema di pubblico impiego privatizzato, il dipendente non perde il diritto alle ferie ed alla corrispondente indennità sostitutiva alla cessazione del rapporto di lavoro, ove tale cessazione sia avvenuta per malattia che abbia impedito l’effettivo godimento del periodo di congedo ancora spettante”.

“In tema di pubblico impiego privatizzato, il datore di lavoro ha l’onere di dimostrare di avere esercitato la sua capacità organizzativa in modo che il lavoratore godesse effettivamente del periodo di congedo e, quindi, di averlo inutilmente invitato a usufruirne, con espresso avviso della perdita, in caso diverso, del diritto alle dette ferie e alla indennità sostitutiva; pertanto, non è idonea a fare ritenere assolto tale onere la comunicazione con la quale la P.A. chieda al dipendente di consumare siffatte ferie genericamente prima della cessazione del rapporto di impiego e non entro una data specificamente indicata, senza riportare l’avviso menzionato e subordinando, comunque, l’utilizzo del congedo in questione alle sue esigenze organizzative”.

Questi, i due importanti principi ribaditi dalla Corte di Cassazione ord. 21 maggio 2024, n. 14083 ( v. anche le sentenze 20 gennaio 2009, resa nei ricorsi riuniti C-350/2006 e C-520/2006 e 20 luglio 2016, resa nella causa C-341/15, della Corte di Giustizia UE) la quale rileva che:

– nella fattispecie il rapporto di lavoro era cessato per una malattia che ha reso il prestatore del tutto inabile al lavoro, vale a dire per causa non imputabile al ricorrente e diversa dal raggiungimento dell’età massima di impiego;

– lo stesso Consiglio di Stato ha stabilito che ”va riconosciuto al dipendente il diritto alla retribuzione del congedo ordinario non usufruito e di cui avrebbe potuto legittimamente fruire se non fosse intervenuta la malattia protrattasi senza soluzione di continuità fino alla cessazione del rapporto di lavoro, vale a dire un evento di fatto a lui non imputabile che ha reso impossibile la fruizione delle ferie già maturate e di quelle che via via andavano maturando man mano che perdurava lo stato di malattia” (Sez. III, 2 novembre 2023, n. 9417; v. anche Cons. Stato, Sez. I, parere 29 aprile 2021, n. 797; Sez. VII, 20 giugno 2023, n. 6362; Sez. VII, 25 gennaio 2023, n. 819 e i precedenti ivi cit.);

– nella stessa direzione si era orientata la Corte Costituzionale (n. 95/2016) che, in applicazione dell’art. 36 Cost., ha statuito che la repressione del ricorso incontrollato alla monetizzazione delle ferie non godute non si applica alle ipotesi di malattia, nelle quali non può giocare in alcun modo la (mancanza di) volontà del lavoratore;

– la perdita del diritto alle ferie ed alla corrispondente indennità sostitutiva alla cessazione del rapporto di lavoro può verificarsi solo nell’ipotesi in cui il datore di lavoro” offra la prova di avere invitato il lavoratore a godere delle ferie – se necessario formalmente – e di averlo nel contempo avvisato – in modo accurato ed in tempo utile a garantire che le ferie siano ancora idonee ad apportare all’interessato il riposo ed il relax cui esse sono volte a contribuire – che, in caso di mancata fruizione, tali ferie andranno perse al termine del periodo di riferimento o di un periodo di riporto autorizzato” (così, Cass., n. 21780/2022).

– è a carico del datore di lavoro l’onere di provare “di avere esercitato la sua capacità organizzativa in modo da consentire che le ferie fossero effettivamente godute formalmente, anche con un invito al lavoratore a fruirne e assicurando che l’organizzazione del lavoro e le esigenze del servizio non fossero tali da impedirne il godimento” (v. Cass., nn. 29844/2022; e 18140/2022, in q. sito con nota di F. GIROLAMI). Sicché non è idonea ad escludere il diritto del lavoratore, una lettera che subordini il godimento delle dette ferie ‹‹compatibilmente con le esigenze di servizio e con le proprie esigenze››, in quanto “tale dichiarazione antepone l’interesse aziendale a quello del lavoratore, senza avvisarlo che, in caso di mancato godimento, le ferie saranno perdute e senza fissare un termine univoco e definito, diverso da quello, ovvio, della cessazione del rapporto di lavoro”.

Sentenza

CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 21 maggio 2024, n. 14083

Lavoro – Ferie non godute – Indennità sostitutiva – Collocamento a riposo per inabilità permanente al lavoro – Prova a carico del datore di avere invitato il lavoratore a godere delle ferie – Diritto di ogni lavoratore alle ferie annuali retribuite – Monetizzazione delle ferie non godute in caso di malattia – Accoglimento

Svolgimento del processo

O.G., medico pediatra in servizio presso l’ASP Agrigento sino al 31 gennaio 2017, ha adito il Tribunale di Agrigento perché condannasse la detta ASP a pagare in suo favore la somma di € 41.081,97 a titolo di indennità sostitutiva per 178 giornate di ferie non godute relative agli anni dal 1998 al 2007.

Egli ha esposto di essere stato collocato a riposo per inabilità permanente al lavoro a far data dal 1° febbraio 2017.

Il Tribunale di Agrigento, nel contraddittorio delle parti, con sentenza n. 916/2020, ha rigettato il ricorso.

O.G. ha proposto ricorso per cassazione che la Corte d’appello di Palermo, nel contraddittorio delle parti, ha rigettato.

O.G. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di due motivi.

L’ASP Agrigento ha resistito con controricorso e ha depositato memorie.

Motivi della decisione

1) Preliminarmente vanno rigettate le eccezioni di inammissibilità di parte controricorrente.

Infatti, il ricorrente domanda la corretta applicazione dei principi vigenti in materia, come enucleati dalla giurisprudenza di legittimità.

Inoltre, per costante orientamento di questa S.C., la semplice presenza, nell’intestazione di un motivo, del riferimento ad una pluralità di doglianze non ne comporta l’inammissibilità, purché lo stesso evidenzi specificamente la trattazione delle doglianze relative all’interpretazione o all’applicazione delle norme di diritto appropriate alla fattispecie ed i profili attinenti alla ricostruzione del fatto (Cass., Sez. 5, n. 24493 del 5 ottobre 2018). In particolare, si è affermato che, in materia di ricorso per cassazione, l’articolazione in un singolo motivo di più profili di doglianza costituisce ragione d’inammissibilità quando non è possibile ricondurre tali diversi profili a specifici motivi di impugnazione, dovendo le doglianze, anche se cumulate, essere formulate in modo tale da consentire un loro esame separato, come se fossero articolate in motivi diversi, senza rimettere al giudice il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, al fine di ricondurle a uno dei mezzi d’impugnazione consentiti, prima di decidere su di esse (Cass., Sez. 2, n. 26790 del 23 ottobre 2018).

Ciò è stato confermato anche dalle Sezioni Unite, per le quali, in materia di ricorso per cassazione, il fatto che un singolo motivo sia articolato in più profili di doglianza, ciascuno dei quali avrebbe potuto essere prospettato come un autonomo motivo, non costituisce, di per sé, ragione d’inammissibilità dell’impugnazione, dovendosi ritenere sufficiente, ai fini dell’ammissibilità del ricorso, che la sua formulazione permetta di cogliere con chiarezza le doglianze prospettate onde consentirne, se necessario, l’esame separato esattamente negli stessi termini in cui lo si sarebbe potuto fare se esse fossero state articolate in motivi diversi, singolarmente numerati (Cass., SU, n. 9100 del 6 maggio 2015).

Peraltro, nella specie, dalla semplice lettura del ricorso si evince che il riferimento al vizio di motivazione è presente solo nell’intestazione del motivo, senza che lo stesso venga minimamente sviluppato, potendosi agevolmente affermare che l’atto di impugnazione si fonda, nella sostanza, solo sulla prospettazione di vizi riconducibili allo schema della violazione di legge.

Neppure può ritenersi che il ricorrente abbia avanzato, con le doglianze concernenti il vizio di violazione di legge, delle richieste di rivalutazione delle prove, delle quali, in realtà, non vi è traccia agli atti.

2) Con il primo motivo il ricorrente lamenta il vizio di motivazione e la violazione dell’art. 2697 c.c. e del  d.lgs. n. 165 del 2001 nella parte in cui la sentenza afferma che sarebbe stato suo onere dare la prova dell’esistenza di ragioni aziendali o personali tali da impedire il godimento delle ferie.

Egli critica la corte territoriale per avere ritenuto che il datore di lavoro avesse dimostrato di averlo messo nelle condizioni di fruire delle ferie producendo una comunicazione dalla quale sarebbe risultato che il 7 giugno 2013 il direttore dell’UOC di Pediatria del P.O. di Canicattì avrebbe disposto che egli godesse di sei giorni di ferie ogni mese in modo da usufruirne prima del collocamento a riposo ‹‹compatibilmente con le esigenze di servizio e con le proprie esigenze››.

In particolare, il giudice di appello avrebbe errato a porre a suo carico la prova dell’insussistenza di esigenze personali o di servizio.

Con il secondo motivo il ricorrente contesta il vizio di motivazione e la violazione dell’art. 5, comma 8, del d.l. n. 95 del 2012 nella parte in cui la sentenza di appello aveva affermato che era destinata a recedere la circostanza che la cessazione del rapporto di lavoro era intervenuta per sua inabilità al lavoro e, quindi, per causa non preventivabile.

Ciò non sarebbe stato corretto in quanto, avendo egli di fronte ancora anni di lavoro, ben avrebbe potuto ancora godere delle ferie pregresse.

Pertanto, la corte territoriale avrebbe errato nell’escludere la monetizzazione delle ferie in un caso, come quello in esame, nel quale queste non erano state godute per via dell’interruzione del rapporto di lavoro a causa di malattia.

Le doglianze, che possono essere trattate congiuntamente, stante la stretta connessione, meritano accoglimento.

Innanzitutto, si rileva che la perdita del diritto alle ferie ed alla corrispondente indennità sostitutiva alla cessazione del rapporto di lavoro può verificarsi soltanto nel caso in cui il datore di lavoro offra la prova di avere invitato il lavoratore a godere delle ferie – se necessario formalmente – e di averlo nel contempo avvisato – in modo accurato ed in tempo utile a garantire che le ferie siano ancora idonee ad apportare all’interessato il riposo ed il relax cui esse sono volte a contribuire – che, in caso di mancata fruizione, tali ferie andranno perse al termine del periodo di riferimento o di un periodo di riporto autorizzato (Cass., Sez. L, n. 21780 dell’8 luglio 2022).

In particolare, sul datore di lavoro grava l’onere di provare di avere esercitato la sua capacità organizzativa in modo da consentire che le ferie fossero effettivamente godute formalmente, anche con un invito al lavoratore a fruirne e assicurando che l’organizzazione del lavoro e le esigenze del servizio non fossero tali da impedirne il godimento (Cass., Sez. 6-L, n. 29844 del 12 ottobre 2022; Cass., Sez. L, n. 18140 del 6 giugno 2022).

Nella specie, la comunicazione del 7 giugno 2013, per come riportata nella sentenza impugnata, non è idonea ad escludere il diritto del ricorrente, in quanto essa subordina il godimento delle dette ferie ‹‹compatibilmente con le esigenze di servizio e con le proprie esigenze››.

Ciò significa che non si tratta di un’intimazione perentoria, ma che tale dichiarazione antepone l’interesse aziendale a quello del lavoratore, senza avvisarlo che, in caso di mancato godimento, le ferie saranno perdute e senza fissare un termine univoco e definito, diverso da quello, ovvio, della cessazione del rapporto di lavoro.

Soprattutto, ha errato la corte territoriale affermando che l’onere di provare l’assenza di esigenze di servizio idonee a giustificare la non fruizione del congedo gravava ormai sul dipendente, dovendo comunque essere sempre il datore di lavoro a dimostrare di avere fatto tutto il possibile affinché il lavoratore usufruisse del riposo al quale aveva diritto.

Inoltre, si rileva che il rapporto di lavoro è cessato per causa non imputabile al ricorrente e diversa dal raggiungimento dell’età massima di impiego, vale a dire per una malattia che lo ha reso del tutto inabile al lavoro.

Il divieto di monetizzazione, però, opera solo nel caso in cui il dipendente rinunci di sua volontà al godimento delle ferie, ricorrendo, in caso contrario, la violazione degli artt. 32 e 36 Cost.

Al riguardo, la sentenza 20 gennaio 2009, resa nei ricorsi riuniti C-350/2006 e C-520/2006 e la sentenza 20 luglio 2016, resa nella causa C-341/15, della Corte di Giustizia dell’Unione europea hanno stabilito che ‹‹il diritto di ogni lavoratore alle ferie annuali retribuite deve essere considerato un principio particolarmente importante del diritto sociale comunitario, al quale non di può derogare››, sulla base della disposizione di cui all’articolo 7, paragrafo 2, della direttiva 2003/88, ai sensi del quale ‹‹il periodo minimo di ferie annuali retribuite non può essere sostituito da un’indennità finanziaria, salvo in caso di fine del rapporto di lavoro››, da interpretarsi nel senso che ‹‹osta a disposizioni o pressi nazionali le quali prevedano che il diritto alle ferie annuali si estingua allo scadere del periodo di riferimento e/o di un periodo di riporto fissato dal diritto nazionale anche quando il lavoratore è stato in congedo per malattia››.

Nella medesima direzione si è orientata sul piano interno la Corte costituzionale, che, con sentenza n. 95 del 6 maggio 2016, pur dichiarando non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata, ha stabilito che la repressione del ricorso incontrollato alla monetizzazione delle ferie non godute non si applica alle ipotesi di malattia, nelle quali non può giocare in alcun modo la (mancanza di) volontà del lavoratore, in applicazione dell’art. 36 Cost.

Si tratta di considerazioni svolte anche dal giudice amministrativo, in quanto il Consiglio di Stato ha stabilito che ‹‹va riconosciuto al dipendente il diritto alla retribuzione del congedo ordinario non usufruito e di cui avrebbe potuto legittimamente fruire se non fosse intervenuta la malattia protrattasi senza soluzione di continuità fino alla cessazione del rapporto di lavoro, vale a dire un evento di fatto a lui non imputabile che ha reso impossibile la fruizione delle ferie già maturate e di quelle che via via andavano maturando man mano che perdurava lo stato di malattia›› (Consiglio di Stato, Sezione III, 2 novembre 2023, n. 9417; Consiglio di Stato, Sezione I, parere 29 aprile 2021, n. 797; Consiglio di Stato, Sezione VII, 20 giugno 2023, n. 6362; Consiglio di Stato, Sezione VII, 25 gennaio 2023, n. 819 e i precedenti citati; Consiglio di Stato, Sezione III, 30 dicembre 2021, n. 8733).

Nella specie, non è contestato che il ritiro dal lavoro del ricorrente sia avvenuto per causa a lui non imputabile (malattia che lo ha reso invalido al lavoro) e prima della fine del periodo massimo indicato dal datore di lavoro per godere delle ferie, ossia il termine del rapporto di lavoro (chiaramente, per causa dipendente dalla volontà del lavoratore).

3) Il ricorso è accolto.

La sentenza impugnata è cassata con rinvio alla Corte d’appello di Palermo, in diversa composizione, la quale deciderà la causa nel merito, anche in ordine alle spese di lite, applicando i seguenti principi di diritto:

‹‹In tema di pubblico impiego privatizzato, il dipendente non perde il diritto alle ferie ed alla corrispondente indennità sostitutiva alla cessazione del rapporto di lavoro, ove tale cessazione sia avvenuta per malattia che abbia impedito l’effettivo godimento del periodo di congedo ancora spettante››;

‹‹In tema di pubblico impiego privatizzato, il datore di lavoro ha l’onere di dimostrare di avere esercitato la sua capacità organizzativa in modo che il lavoratore godesse effettivamente del periodo di congedo e, quindi, di averlo inutilmente invitato a usufruirne, con espresso avviso della perdita, in caso diverso, del diritto alle dette ferie e alla indennità sostitutiva; pertanto, non è idonea a fare ritenere assolto tale onere la comunicazione con la quale la P.A. chieda al dipendente di consumare siffatte ferie genericamente prima della cessazione del rapporto di impiego e non entro una data specificamente indicata, senza riportare l’avviso menzionato e subordinando, comunque, l’utilizzo del congedo in questione alle sue esigenze organizzative››.

P.Q.M.

– Accoglie il ricorso;

– cassa la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’appello di Palermo, in diversa composizione, la quale deciderà la causa nel merito, anche in ordine alle spese di lite di legittimità.

Ferie non godute per malattia del lavoratore e indennità
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: