L’indennità di mensa non rientra nella base di calcolo del TFR.

Nota a Cass. (ord.) 18 marzo 2024, n. 7181

Francesco Belmonte

“Il valore del servizio mensa e l’importo della prestazione sostitutiva percepita da chi non usufruisce del servizio aziendale non fanno parte della retribuzione a nessun effetto attinente a istituti legali e contrattuali del rapporto di lavoro, salvo che la contrattazione collettiva disponga diversamente”.

Così si è espressa la Corte di Cassazione (18 marzo 2024, n. 7181), in relazione ad una controversia concernente la rideterminazione dell’importo del TFR spettante ad un infermiere professionale.

Nel corso dei primi gradi di giudizio, i giudici di merito (App. Bari n. 1982/2022) avevano ritenuto che “l’indennità di mensa fosse da computare del calcolo del TFR in quanto corrisposta in modo continuativo nel corso del rapporto di lavoro e non equiparabile ad un rimborso spese”, sebbene la contrattazione collettiva di riferimento, nell’elencare le voci della retribuzione utili ai fini del TFR, non menzionasse l’indennità di mensa.

La Cassazione, in linea con la risalente giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 3623/1994 e Cass. n. 15767/2001), si pone in una posizione diametralmente opposta rispetto a quanto statuito dalla Corte territoriale.

In particolare, i giudici di legittimità affermano che:

a) il servizio mensa e la relativa indennità sostitutiva non rientrano nella retribuzione a nessun effetto attinente ad istituti legali e contrattuali del rapporto di lavoro.

b) l’autonomia collettiva può disporre diversamente, “vale a dire includere il valore reale o l’importo della relativa indennità sostitutiva nella base di calcolo di qualsiasi istituto”, come disposto dall’art. 3, co. 3, D.L. 11 luglio 1992, n. 333 (conv. con modif. in L. 8 agosto 1992, n. 359).

c) l’indennità in questione non può avere natura ontologicamente retributiva, e ciò prescindendo dall’effettiva istituzione o meno di un servizio mensa in azienda.

A parere della Corte, quindi, a meno che non sia diversamente previsto dal contratto collettivo di riferimento, l’indennità sostitutiva della mensa sarebbe tout court esclusa dalla nozione della retribuzione base per il calcolo del TFR, ex art. 2120 c.c., avendo la stessa natura assistenziale ovvero di rimborso spese del medesimo emolumento.

Sentenza

CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 18 marzo 2024, n. 7181

Rilevato che

1.La Corte d’Appello di Bari ha respinto l’appello dell’(…) – I.R.C.C.S. (…) da Pietrelcina (d’ora in avanti anche “Ospedale”), confermando la sentenza di primo grado che, in parziale accoglimento della domanda proposta da A.T. (infermiere professionale dipendente dell’Ospedale fino al 31.12.20119), aveva rideterminato in euro 7.422,81 la somma al medesimo spettante a titolo di differenza sul trattamento di fine rapporto.

2. La Corte territoriale ha escluso che il tribunale avesse deciso ultrapetita, riconoscendo al lavoratore emolumenti non richiesti; ha rilevato che nel ricorso introduttivo di primo grado il lavoratore aveva formulato la domanda ai sensi dell’art. 2120 c.c., come novellato dalla legge 297 del 1982, il cui comma 2 individua come base di calcolo del t.f.r. “tutte le somme, compreso l’equivalente delle prestazioni in natura, corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro, a titolo non occasionale e con esclusione di quanto è corrisposto a titolo di rimborso spese”, facendo salve le disposizioni dei contratti collettivi; ha ritenuto incluse, tra le voci corrisposte in modo continuativo, gli emolumenti percepiti a titolo di compartecipazioni/incentivazioni fino al 31.12.2001, espressamente indicati in busta paga e da computare ai fini della determinazione del t.f.r. anche se non specificamente richiesti nel ricorso introduttivo della lite, negando la natura autonoma degli stessi; ha riconosciuto, tra le voci utili al calcolo del t.f.r., anche l’indennità di mensa sino alla stessa data 31.12.2001.

3. Avverso tale sentenza l’Ospedale ha proposto ricorso per cassazione affidato a sei motivi, illustrati da memoria. R.C. e C. P.T., eredi di A.T., hanno resistito con controricorso.

4. Il Collegio si è riservato di depositare l’ordinanza nei successivi sessanta giorni, ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c., come modificato dal d.lgs. n. 149 del 2022.

Considerato che

5. Preliminarmente, deve darsi atto dell’eccezione sollevata dai controricorrenti, di inesistenza dell’impugnazione perché notificata a persona deceduta o, in subordine, di nullità della notifica, per avere l’Ospedale notificato il ricorso per cassazione a A.T. pur essendo a conoscenza del suo decesso in quanto destinatario di atto di precetto notificato il 20.2.2023.

6. L’eccezione è infondata. Come statuito da questa Corte, “è’ nullo, nel suo valore sostanziale, l’atto introduttivo del giudizio per cassazione allorché esso, per errata identificazione del soggetto passivo della vocatio in ius, invece che nei confronti dell’erede, sia proposto e notificato (mediante il rilascio di copia nel domicilio eletto dal procuratore) alla parte deceduta e del cui decesso il ricorrente abbia già avuto conoscenza legale, restando una tale nullità, tuttavia, sanata dalla costituzione in giudizio dell’erede, avvenuta prima del passaggio in giudicato dell’impugnata sentenza” (Cass. n. 11466 del 2020; n. 7981 del 2007). Nel caso in esame, la notifica del ricorso, sebbene nulla in quanto diretta a persona deceduta, ha raggiunto il suo scopo, atteso che gli eredi si sono ritualmente costituiti e difesi, prima del passaggio in giudicato della sentenza (la sentenza d’appello è stata pubblicata il 23.11.2022 e il controricorso depositato il 4.5.2023), dal che discende la sanatoria del vizio di nullità.

7. Con il primo motivo si denuncia la violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 c.p.c., nella parte in cui la Corte di merito, rigettando il primo motivo di appello, ha confermato la decisione di primo grado attribuendo un bene della vita non richiesto, esattamente per avere incluso nel differenziale del trattamento di fine rapporto emolumenti non oggetto della domanda introduttiva. La parte ricorrente allega che, con il ricorso introduttivo di primo grado (trascritto per estratto nel corpo del ricorso per cassazione a p. 8), il lavoratore aveva rivendicato differenze del trattamento di fine rapporto derivanti dalla mancata inclusione nel relativo calcolo delle seguenti indennità: di rischio ospedaliero, di pronta disponibilità, di comparto previste dalla contrattazione collettiva, di mensa, rischio radiologico e le indennità professionali specifiche; che il tribunale ha riconosciuto anche, ai fini del predetto calcolo, gli emolumenti percepiti a titolo di compartecipazioni/incentivazioni risultanti dalla busta paga sebbene non domandati dal lavoratore; che la Corte d’appello ha erroneamente respinto il motivo di impugnazione con cui si denunciava il vizio di ultrapetizione commesso dal primo giudice.

8. Il motivo è infondato.

9. In via di premessa, secondo l’insegnamento di questa Corte, il principio per cui l’interpretazione delle domande, eccezioni e deduzioni delle parti dà luogo ad un giudizio di fatto riservato al giudice di merito, non trova applicazione quando si assume che tale interpretazione abbia determinato un vizio riconducibile alla violazione del principio di corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato (art. 112 c.p.c.) od a quello del “tantum devolutum quantum appellatum” (art. 345 c.p.c.), trattandosi in tal caso della denuncia di un error in procedendo che attribuisce alla Corte di cassazione il potere-dovere di procedere direttamente all’esame e alla interpretazione degli atti processuali (v. Cass. n. 21421 del 2014; n. 17109 del 2009).

10. Infatti, quando con il ricorso per cassazione venga dedotto un error in procedendo, il sindacato del giudice di legittimità investe direttamente l’invalidità denunciata, mediante l’accesso diretto agli atti su cui si basa il ricorso medesimo, indipendentemente dall’eventuale sufficienza e logicità della motivazione adottata in proposito dal giudice di merito, atteso che, in tali casi, la Corte di cassazione è giudice anche del fatto processuale. In proposito va condiviso l’orientamento da ultimo ribadito da Cass. n. 20716 del 2018 (in conformità a Cass. n. 8069 del 2016; n. 16164 del 2015), anche sulla scia di Cass. S.U. n. 8077 del 2012 (v. contra Cass. 20718 del 2018; n. 21874/15; n. 11828 del 2014, che però non affrontano i principi di fondo affermati dalla cit. Cass. S.U. n. 8077 del 2012).

11. Nel caso in esame, deve escludersi l’erronea applicazione dell’art. 112 c.p.c. poiché la Corte d’appello ha fondato la decisione su una interpretazione plausibile del ricorso di primo grado, conforme ai criteri letterale e logico, attuata valorizzando il riferimento all’art. 2120 c.c. come significativo della estensione della domanda a tutte le somme corrisposte a titolo non occasionale, anche in aggiunta a quelle espressamente indicate ai fini del calcolo del t.f.r.

12. Con il secondo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 195 c.p.c., nonché l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4 e 5, c.p.c., per non avere la Corte territoriale rilevato l’erroneità della sentenza di primo grado, che ha recepito acriticamente le risultanze peritali, e per non essersi pronunciata sulle osservazioni mosse dall’appellante all’elaborato del c.t.u., giudicandole tardive in quanto sollevate per la prima volta nelle note di udienza del 15.01.21.

13. Il motivo non può trovare accoglimento.

14. La Corte d’appello (sentenza, p. 6) ha esaminato le osservazioni (datate 22.12.2020) svolte dal consulente tecnico nominato dall’Ospedale alla bozza di relazione del c.t.u., nell’ambito del contraddittorio tecnico previsto dall’art. 195 c.p.c., e anche le note conclusive depositate dalla stessa difesa il 15.1.2021, ma ha ritenuto “ad ogni modo” insussistenti i vizi della c.t.u., per avere il consulente d’ufficio operato nei limiti del quesito formulato dal tribunale, e insussistente la violazione dell’art. 112 c.p.c., per avere il tribunale pronunciato nei limiti della domanda. Col motivo in esame, la parte ricorrente, attraverso la formale denuncia di violazione dell’art. 195 c.p.c., ripropone in sostanza il vizio di ultrapetizione oggetto del primo motivo, imputando alla Corte d’appello di non aver colto tale vizio per non aver valutato le osservazioni mosse al riguardo dalla difesa e dal consulente dell’Ospedale nel corso del giudizio di primo grado. Il rigetto del primo motivo di ricorso, e quindi la ritenuta insussistenza di ogni profilo di ultrapetizione, porta a ritenere infondato anche del secondo motivo. Comunque, non ricorre alcuna violazione dell’art. 195 c.p.c. atteso che non è denunciata la lesione del contraddittorio o del diritto di difesa nello svolgimento delle operazioni peritali e neppure è ipotizzabile l’omesso esame di un fatto storico, determinato e decisivo (vizio, quello di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c. nella specie inammissibile per la cd. doppia conforme), afferendo le critiche unicamente alla lettura degli atti processuali.

15. Con il terzo motivo si denuncia violazione degli artt. 115, 116 c.p.c., 2697 e 2727 e ss. c.c. in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c. per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. Si assume che, se la Corte d’appello avesse esaminato i fatti e i documenti prodotti dalle parti e applicato il principio di non contestazione, avrebbe ritenuto raggiunta la prova della riferibilità del giudicato formatosi con la sentenza resa dal Tribunale di Foggia, n. 1361/97 del 13.09.1997, relativa alla natura non subordinata dei compensi percepiti per le attività rese in plus orario, c.d. compartecipazioni, anche alla posizione del sig. T..

16. Con il quarto motivo si denuncia violazione degli artt. 115, 116 e 2727 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., per avere la Corte di appello escluso che gli elementi di prova in atti fossero idonei a provare la riferibilità del giudicato di cui alla citata sentenza del Tribunale di Foggia n. 1361/97 anche al sig. T..

17. Con il quinto motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c. in relazione all’art. 360, primo comma n. 3 c.p.c., per non avere la Corte di appello correttamente applicato il principio secondo il quale il giudicato copre il dedotto e il deducibile e, in particolare, per non avere tenuto in considerazione gli effetti del giudicato riflesso di cui alla sentenza del Tribunale di Foggia, n. 1361/97.

18. I motivi dal terzo al quinto, che si trattano congiuntamente perché sovrapponibili, sono inammissibili per più profili. Sia nella parte in cui denunciano, sia pure sub specie di violazione di legge, l’erronea valutazione di elementi probatori (verbale di accertamento Inps), non consentita in questa sede, a maggior ragione in una ipotesi di cd. doppia conforme. Sia là dove invocano gli effetti del giudicato esterno, in quanto la deduzione in ordine alla esistenza di un giudicato che si assume inerente alla posizione del controricorrente e di cui sarebbe stata fornita la prova in giudizio non può prescindere dal deposito, in questa sede, della sentenza di cui si tratta (tribunale di Foggia n. 1361/1997), completa di motivazione e munita della attestazione di irrevocabilità ad opera della cancelleria, ai sensi dell’art. 124 disp. att. c.p.c. (v. Cass. n. 28515 del 2017; n. 22883 del 2008; n. 11889 del 2007; n. 23567 del 2006), adempimento del tutto omesso.

19. Con il sesto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 6 comma 3 del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333, convertito nella Legge 8 agosto 1992 n. 359 e del CCNL Comparto Sanità, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., per avere la Corte territoriale considerato elemento utile ai fini del calcolo del t.f.r. l’indennità di mensa, espressamente esclusa dalla contrattazione collettiva applicata al rapporto di lavoro.

20. Il motivo è fondato.

21. La Corte d’appello ha incluso l’indennità di mensa tra le voci utili al computo del t.f.r. fino al 31.12.2001; ha riconosciuto applicabile al rapporto di lavoro il c.c.n.l. Comparto Sanità Pubblica integrativo del c.c.n.l. 7.4.1999, il cui art. 46, nell’elencare le voci della retribuzione utili ai fini del t.fr., non menziona l’indennità di mensa; ha tuttavia rilevato che il contratto collettivo è entrato in vigore il 31.12.2001 e ha ritenuto che, per il periodo anteriore, l’indennità di mensa fosse da computare nel calcolo del t.f.r. in quanto corrisposta in modo continuativo nel corso del rapporto e non equiparabile ad un rimborso spese, operando la disciplina dettata dal contratto collettivo solo a partire dal 31.12.2001; ha giudicato non pertinente la disposizione di cui all’art. 3, terzo comma, del decreto legge n. 333 del 1992, convertito dalla legge n. 359 del 1992 (secondo cui “Salvo che gli accordi e i contratti collettivi, anche aziendali, dispongano diversamente, stabilendo se e in quale misura la mensa è retribuzione in natura, il valore del servizio di mensa, comunque gestito ed erogato, e l’importo della prestazione pecuniaria sostitutiva di esso, percepita da chi non usufruisce del servizio istituito dall’azienda, non fanno parte della retribuzione a nessun effetto attinente a istituti legali e contrattuali del rapporto di lavoro”), in quanto volta a disciplinare i casi in cui il servizio mensa sia stato attivato presso l’azienda, come desumibile dall’utilizzo dei termini “gestito, erogato, istituito” riferiti, appunto, al citato servizio, e quindi non applicabile alla fattispecie oggetto di causa in cui difetta la prova della istituzione della mensa.

22. In realtà questa Corte, pronunciandosi sulla normativa del 1992, ha statuito che “Nella disciplina dettata dall’art. 6, terzo comma, decreto legge 11 luglio 1992 n. 333, convertito con modificazioni in legge 8 agosto 1992 n. 359, il valore del servizio mensa e l’importo della prestazione sostitutiva percepita da chi non usufruisce del servizio aziendale non fanno parte della retribuzione a nessun effetto attinente ad istituti legali e contrattuali del rapporto di lavoro, salva la possibilità di una diversa previsione – nel senso che il servizio mensa debba considerarsi come retribuzione in natura – da parte dei contratti collettivi nazionali e aziendali, anche se stipulati anteriormente all’entrata in vigore del citato decreto” (Cass. n. 15767 del 2001; n. 3623 del 1994).

23. La sentenza n. 3623 del 1994 ha attribuito alla legge 359 del 1992 “un valore sostanziale di norma di interpretazione autentica, di guisa che, allo stato, e con valore retroattivo, soltanto in quanto la volontà collettiva si sia espressamente manifestata nel senso del valore retributivo del pasto o della indennità sostitutiva, questi sono computabili ai fini del trattamento di fine rapporto. Al riguardo è certo significativo, e l’interprete deve tenerne conto, che avendo la giurisprudenza nel passato dichiarato la nullità degli accordi sindacali che privavano la mensa o l’indennità retributiva di valore retributivo, la novella legislativa fosse imperniata proprio nella riaffermazione della validità di quegli accordi, anche se assunti in epoca anteriore alla approvazione della legge”.

24. Nella decisione n. 7824 del 2001 si è ulteriormente precisato: “le Sezioni Unite di questa Corte, con sentenza n. 3888 del 1993, hanno escluso che il servizio mensa o ‘indennità sostitutiva della stessa abbiano natura ontologicamente retributiva, ribadendo che è rimessa alla fonte legale o contrattuale l’individuazione delle voci da includere nella retribuzione base per il calcolo degli istituti di retribuzione indiretta o differita”; si è aggiunto che, a seguito della disciplina dettata dall’art. 6 del decreto legge 11 luglio 1992 n. 333, convertito nella legge 8 agosto 1992 n. 359, “l’indennità sostitutiva della mensa:- non è computabile a nessun effetto attinente a istituti legali e contrattuali; – gli accordi collettivi che stabilivano tale principio, in vigore prima dell’introduzione della nuova legge, sono fatti salvi (anche se in contrasto con disposizioni di legge) nella parte in cui prevedevano limiti e valori convenzionali del servizio mensa … e dell’importo della prestazione sostitutiva di esso … a qualsiasi effetto attinente a istituti legali e contrattuali del rapporto di lavoro subordinato); – è tuttavia possibile all’autonomia collettiva disporre diversamente, vale a dire includere il valore reale o l’importo della relativa indennità sostitutiva nella base di calcolo di qualsiasi istituto”.

25. I precedenti di legittimità finora richiamati, e dai quali questo Collegio non ha ragione di discostarsi, non operano alcuna distinzione in base al rilievo della effettiva istituzione o meno del servizio mensa, ma si concentrano sulla natura in sé della indennità di mensa, escludendone il valore ontologicamente retributivo, salva diversa previsione da parte dei contratti collettivi. Deve quindi ritenersi che la Corte d’appello abbia male interpretato l’art. 6 della legge n. 359 del 1992, in contrasto con il significato letterale come unanimemente inteso dalla giurisprudenza di legittimità.

26. In accoglimento del sesto motivo di ricorso, ritenuti infondati gli altri motivi, la sentenza impugnata deve essere cassata, con rinvio alla medesima Corte d’appello, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Accoglie il sesto motivo di ricorso, rigetta gli altri motivi, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte d’appello di Bari, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

Indennità di mensa e computo del TFR
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