Le recidive e le negligenze che provochino danni economici e di immagine alla società rendono l’espulsione del lavoratore per giusta causa una sanzione adeguata e proporzionata anche se il fatto addebitato è di modesta entità.
Nota a Cass. (ord.) 4 giugno 2024, n. 15601
Massimo Citerni di Siena
“In tema di licenziamento per giusta causa, la modesta entità del fatto addebitato non va riferita alla tenuità del danno patrimoniale subito dal datore di lavoro, dovendosi … valutare la condotta del prestatore di lavoro sotto il profilo del valore sintomatico che può assumere rispetto ai suoi futuri comportamenti, nonché all’idoneità a porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e ad incidere sull’elemento essenziale della fiducia, sotteso al rapporto di lavoro”.
Lo ha affermato la Corte di Cassazione (ord. 4 giugno 2024, n. 15061; v. anche Cass. 11806/1997; e Cass. n. 19684/2014), la quale:
a) ha premesso che il fatto che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto, “è una nozione che la legge – allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo – configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle cosiddette clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama”;
b) e, in linea con la Corte territoriale, ha qualificato come un inadempimento importante, tale da legittimare il licenziamento in tronco, la presenza di una recidiva specifica e una serie di condotte contestate, quali: “non avere dato riscontri alle richieste di un agente di commercio in merito alla gestione del rapporto con una società cliente; reiterati errori di spedizione alla O.M.; avere riferito un dato completamente errato in merito al numero di stampanti presenti in magazzino; svariate altre criticità che avevano provocato la disdetta di contratti intercorsi con diversi clienti”. Ciò, in quanto le suddette condotte avevano effettivamente inciso sulla gestione del rapporto con una società cliente e, in modo significativo, sulla fiducia che l’azienda riponeva nel dipendente stesso ai fini di un corretto adempimento dei propri obblighi.
Sentenza
CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 04 giugno 2024, n. 15601
Lavoro – Contestazione disciplinare – Licenziamento disciplinare – Sussistenza della giusta causa – Rigetto
Rilevato che
1.Nella gravata sentenza si legge che F.V. aveva lavorato per la E. spa dal 1° settembre 2015 con contratto di lavoro a tempo indeterminato e inquadramento nel 1° livello Quadro del CCNL per le imprese commerciali, inizialmente assegnato alle mansioni di Responsabile della B.U.E. e, successivamente, dal 14 ottobre 2016, alla funzione di Responsabile di un’altra unità; che precedentemente, dal 2013, aveva lavorato per la medesima azienda quale agente di commercio; che, nell’ultimo periodo del rapporto, dopo avere chiesto una revisione della parte variabile del proprio contratto di lavoro di natura subordinata, gli era stato proposto di rassegnare le dimissioni quale lavoratore con contratto a tempo indeterminato e di stipulare un nuovo contratto di agenzia con incarico di “assistente alla vendita” e con un trattamento provvigionale di base inferiore; che dopo il diniego, il 18 maggio 2017, il V. aveva ricevuto una contestazione disciplinare relativa a mancanze riscontrate cui era seguito un licenziamento disciplinare.
2. Impugnato il recesso, in quanto ritenuto ritorsivo, basato su fatti materiali inesistenti o non imputabili ad esso lavoratore nonché per non rivestire questi la funzione di Responsabile della B.U. e, infine, per carenza di giusta causa e di giustificato motivo soggettivo, il Tribunale di Velletri, ritenendo la sussistenza dei fatti ma non tali da fondare una giusta causa, aveva dichiarato estinto il rapporto di lavoro e condannato la società al pagamento della indennità di cui all’art. 3 co. 1 D.lgs. n. 23/2015 nonché al rimborso delle spese di lite nella misura del 50%.
3. La Corte di appello di Roma, invece, pronunciandosi sui gravami hic et inde proposti, ha rigettato le originarie domande proposte dal V. condannandolo alla restituzione di quanto percepito in attuazione della sentenza di primo grado, oltre accessori.
4. I giudici di seconde cure hanno rilevato che i fatti addebitati e di cui il lavoratore aveva avuto contezza, escludevano la configurabilità di un licenziamento ritorsivo e costituivano negligenze che avevano provocato danni economici e di immagine alla società e che rendevano l’espulsione sanzione adeguata e proporzionata, anche in considerazione della recidiva specifica contestata.
5. Avverso la decisione di secondo grado F.V. ha proposto ricorso per cassazione affidato a cinque motivi cui ha resistito con controricorso la società.
6. Il ricorrente ha depositato memoria.
7. Il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nei termini di legge ex art. 380 bis 1 cpc.
Considerato che
1.I motivi possono essere così sintetizzati.
2. Con il primo motivo si denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 5 legge n. 604/1966 e dell’art. 2697 cc, con riguardo all’onere della prova sulla sussistenza degli addebiti contestati (art. 360 co. 1 n. 3 cpc), per avere la Corte distrettuale, pur in presenza di contestazioni sui fatti da parte del lavoratore e senza dare corso ad alcuna istruttoria orale, ritenuto incombente su quest’ultimo l’onere della prova sulla insussistenza dei fatti contestati che non erano, invece, stati dimostrati.
3. Con il secondo motivo si censura la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 cpc e 244 cpc, con riguardo alla asserita inammissibilità e superfluità della prova testimoniale articolata da esso lavoratore sui fatti che avevano formato oggetto delle contestazioni disciplinari (art. 360 co. 1 n. 4 cpc), per avere la Corte distrettuale omesso di valutare l’ammissibilità e la rilevanza dei capitoli di prova per testi e delle circostanze su cui era stato chiesto l’interrogatorio formale di controparte.
4. Con il terzo motivo si obietta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2119 cc, in ordine alla sussistenza della giusta causa di licenziamento quale lesione irrimediabile del rapporto fiduciario, per non avere la Corte di appello correttamente valutato che la società aveva proposto al lavoratore di firmare un contratto di agenzia per la prosecuzione del rapporto nelle forme del contratto di lavoro autonomo e che il licenziamento era intervenuto nel momento in cui vi era stato il rifiuto di accettare il nuovo ruolo previsto nonché per avere erroneamente ritenuto una recidiva specifica che non sussisteva né era utilizzabile in quanto il relativo procedimento disciplinare si era concluso con una ammonizione scritta.
5. Con il quarto motivo il V. si duole della violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2119 cc, anche in relazione all’omesso esame delle registrazioni sub doc. 9 e 20 degli incontri del 16.5.2017 e del 18.5.2017, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 e n. 5 cpc, per avere i giudici del merito omesso l’esame delle registrazioni degli incontri del 16 maggio 2017 e del 18 maggio 2017 intercorsi tra esso ricorrente e i superiori gerarchici aziendali dai quali era possibile dimostrare la strumentalità dei procedimenti disciplinari avviati dalla società al fine di forzare l’accettazione del nuovo ruolo di agente del settore vendite.
6. Con il quinto motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 3 del D.lgs. n. 23 del 2015, in ordine alla riconducibilità dei comportamenti contestati a condotte punibili con una sanzione conservativa, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 cpc, per non avere la Corte distrettuale considerato che l’esecuzione del lavoro con negligenza grave, ex art. 217 CCNL di categoria, veniva punita con la sanzione conservativa della multa.
7. I primi due motivi, da esaminare congiuntamente, sono infondati.
8. E’ opportuno ribadire che la violazione del precetto di cui all’art. 2697 cc si configura soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne è gravata secondo le regole dettate da quella norma, non anche quando, a seguito di una incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie, il giudice abbia errato nel ritenere che la parte onerata non avesse assolto tale onere, poiché in questo caso vi è soltanto un erroneo apprezzamento sull’esito della prova, sindacabile in sede di legittimità solo per il vizio di cui all’art. 360 n. 5 cpc (Cass. n. 19064/2006; Cass. n. 2935/2006), con i relativi limiti di operatività ratione temporis applicabili.
9. In tema, inoltre, di ricorso per cassazione, la questione della violazione o falsa applicazione degli art. 115 e 116 cpc non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma rispettivamente, solo allorché si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti ovvero disposte di ufficio al di fuori dei limiti legali o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti, invece, a valutazione (Cass. n. 20867/2020; Cass. n. 27000 del 2016; Cass. n. 13960 del 2014): ipotesi, queste, non ravvisabili nel caso in esame.
10. La valutazione delle risultanze delle prove ed il giudizio sull’attendibilità dei testi (art. 244 cpc), poi, come la scelta, tra le varie emergenze probatorie di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, senza essere tenuto ad una esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti (Cass. n. 16467 del 2017).
11. Il rilievo sulla mancata ammissione dei testimoni, infine, può essere denunciato per cassazione solo nel caso in cui essa abbia determinato l’omissione di motivazione su un punto decisivo della controversia e, quindi, ove la prova non ammessa ovvero non esaminata in concreto sia idonea a dimostrare circostanze tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la “ratio decidendi” venga a trovarsi priva di fondamento (Cass. n. 27415 del 2018; n. 5654 del 2017).
12. Nella fattispecie, la Corte distrettuale, attraverso una valutazione di tutte le risultanze istruttorie, con un accertamento di merito adeguatamente motivato ed esente dai vizi di cui all’art. 360 co. 1 n. 5 cpc, senza incorrere in alcuna violazione delle disposizioni in tema di onere della prova, ha ritenuto dimostrati i fatti storici nella loro oggettività dal contenuto della corrispondenza intercorsa ed allegata alle incolpazioni, non efficacemente contrastata né dalle giustificazioni rese in sede di procedimento disciplinare né, infine, dalle prove documentali e testimoniali articolate che non avrebbero apportato alcun elemento utile alla decisione.
13. Le censure ivi formulate, quindi, al di là delle denunziate violazioni di legge, si limitano, in sostanza, in una richiesta di riesame del merito della causa, attraverso una nuova valutazione delle risultanze processuali, in quanto sono appunto finalizzate ad ottenere una revisione degli accertamenti di fatto compiuti dalla Corte territoriale.
14. Anche il terzo ed il quarto motivo, da scrutinare congiuntamente per connessione logico-giuridica, sono infondati.
15. Va al riguardo sottolineato il fondamentale principio affermato in sede di legittimità (per tutte, Cass. n. 5095/2011; Cass. n. 6498/2012) secondo cui la giusta causa di licenziamento, quale fatto “che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”, è una nozione che la legge – allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo – configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle cosiddette clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama.
Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e sindacabile in cassazione a condizione che la contestazione non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di incoerenza rispetto agli “standards”, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale.
16. Nella caso in esame, pertanto, ritenute inammissibili tutte le doglianze riguardanti la ricostruzione e le modalità della vicenda in fatto, nonché quelle relative alla proporzionalità della condotta (“In tema di licenziamento per giusta causa, l’accertamento dei fatti ed il successivo giudizio in ordine alla gravità e proporzione della sanzione espulsiva adottata sono demandati all’apprezzamento del giudice di merito, che – anche qualora riscontri l’astratta corrispondenza dell’infrazione contestata alla fattispecie tipizzata contrattualmente – è tenuto a valutare la legittimità e congruità della sanzione inflitta, tenendo conto di ogni aspetto concreto della vicenda, con giudizio che, se sorretto da adeguata e logica motivazione, è incensurabile in sede di legittimità – Cass. n. 26010/2018”), con specifico riferimento alla censura concernente la asserita violazione del parametro normativo di cui all’art. 2119 cod. civ. va condiviso l’assunto della Corte territoriale che ha ritenuto inadempimento importante, costituente giusta causa di recesso, la presenza di una recidiva specifica (che risultava per tabulas ed il cui provvedimento disciplinare del 21.3.2016 non era stato impugnato) e le molteplici condotte contestate (non avere dato riscontri alle richieste di una gente di commercio in merito alla gestione del rapporto con una società cliente; reiterati errori di spedizione alla O.M. ; avere riferito un dato completamente errato in merito al numero di stampanti presenti in magazzino; svariate altre criticità che avevano provocato la disdetta di contratti intercorsi con diversi clienti) perché effettivamente esse incidevano in modo significativo sulla fiducia che l’azienda riponeva nel dipendente stesso ai fini di un corretto adempimento delle propri obblighi.
17. Deve, per concludersi, anche dare risalto al fatto che, come correttamente sottolineato dai giudici di seconde cure, in tema di licenziamento per giusta causa, la modesta entità del fatto addebitato non va riferita alla tenuità del danno patrimoniale subito dal datore di lavoro, dovendosi appunto valutare la condotta del prestatore di lavoro sotto il profilo del valore sintomatico che può assumere rispetto ai suoi futuri comportamenti, nonché all’idoneità a porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e ad incidere sull’elemento essenziale della fiducia, sotteso al rapporto di lavoro (Cass. 11806/1997; Cass. n. 19684/2014).
18. Il quinto motivo è inammissibile per difetto di specificità.
19. Invero, non avendo il ricorrente depositato l’intero contratto collettivo (ma solo uno stralcio), a questa Corte è precluso un corretto scrutinio della censura, sotto ogni profilo sia di inammissibilità che di infondatezza, perché non è messa in grado di valutare tutta la scala valoriale e le norme disciplinari della contrattazione collettiva onde potere inquadrare, in relazione ad essa, correttamente i comportamenti contestati e provati e, pertanto, decidere se effettivamente la Corte avrebbe dovuto effettuare tale indagine anche ai sensi del D.lgs. n. 23/2015 applicabile al caso de quo.
20. Alla stregua di quanto esposto, il ricorso deve essere rigettato.
21. Al rigetto segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano come da dispositivo, con distrazione.
22. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti processuali, sempre come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, in favore della controricorrente, che liquida in euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.