L’uso aziendale è una fonte di obbligo unilaterale di carattere collettivo che agisce sul piano dei singoli rapporti individuali allo stesso modo e con la stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale e che richiede il protrarsi nel tempo del comportamento, la sua generalità e spontaneità.
Nota a Cass. ord. 22 maggio 2024, n. 14286
Raffaele Fabozzi
“La reiterazione costante e generalizzata di un comportamento favorevole del datore di lavoro, nei confronti dei propri dipendenti, integra, di per sé, gli estremi dell’uso aziendale. Questo, in ragione della sua appartenenza al novero delle cosiddette fonti sociali (le quali, pur non costituendo espressione di funzione pubblica, neppure realizzano meri interessi individuali, in quanto dirette a conseguire un’uniforme disciplina dei rapporti con riferimento alla collettività impersonale dei lavoratori di un’azienda), agisce sul piano dei singoli rapporti individuali allo stesso modo e con la stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale”.
Questo, il principio ribadito dalla Corte di Cassazione ord. 22 maggio 2024, n. 14286 in relazione all’attribuzione per circa quattro anni dell’indennità mensile di maneggio denaro a tutti i lavoratori non più addetti alle mansioni di esattore, ma destinati al monitoraggio centralizzato di tratta, i quali, sebbene non più addetti alle precedenti mansioni in relazione alle quali percepivano tale indennità, avevano continuato a riceverla una volta destinati al suddetto monitoraggio.
Nello specifico, la Corte, richiamando i precedenti giurisprudenziali, afferma che, perché si configuri un uso aziendale vi deve essere:
– la reiterazione costante di un comportamento favorevole del datore di lavoro nei confronti dei propri dipendenti (v. Cass. SU. n. 27107/2007 e Cass. n. 7395/2013). Il predetto comportamento cioè non deve essere isolato: “se un imprenditore effettuasse per una sola volta a tutti i suoi dipendenti una erogazione patrimoniale non prevista dal contratto individuale e da quello collettivo, ciò non sarebbe sufficiente alla nascita del relativo diritto e i lavoratori non potrebbero pretendere la stessa indennità al verificarsi della medesima situazione. Ma se tale erogazione viene ripetuta per un certo periodo di tempo, essa diviene appunto usuale e quindi entra a far parte della retribuzione, dovuta per il lavoro svolto in quella determinata azienda” (così, Cass. n. 9690/1996);
– la ripetizione generalizzata del suddetto comportamento. Se infatti lo stesso riguardasse solo alcuni lavoratori (e non altri) non sorgerebbe un uso aziendale, ma un trattamento di fatto, che potrebbe configurarsi “come un mutamento unilaterale delle condizioni contrattuali, e tacitamente accettato dal beneficiario. In tale ipotesi la modifica di dette condizioni entra a far parte del contratto individuale di lavoro dei soggetti beneficiari” (v. Cass. n. 9690/1996, cit.);
– la spontaneità del comportamento dell’imprenditore il quale attribuisca a tutti i suoi dipendenti per liberalità un trattamento economico non previsto né dal contratto individuale né dal contratto collettivo.
L’uso aziendale produce effetti anche nei riguardi dei lavoratori che “entrano a far parte della categoria dopo la formazione dell’uso”; nondimeno, con riferimento a questi ultimi, rimane impregiudicata la facoltà del datore di lavoro di escludere l’applicabilità del trattamento più favorevole (v. Cass. n. 18263/2009).
Sentenza
CORTE DI CASSAZIONE ord. 22 maggio 2024, n. 14286
Rilevato che
1.Con la sentenza n. 921/2020 la Corte di appello di Milano ha confermato la pronuncia emessa dal Tribunale della stessa sede che aveva accertato il diritto di Matteo Parmigiani, dipendente della Milano Serravalle -Milano Tangenziali spa con mansioni di esattore dall’1.6.2009 e quale addetto al monitoraggio centralizzato di tratta (MTC) dall’1.7.2012, al mantenimento dell’indennità mensile di maneggio denaro non più corrispostagli dal maggio 2016, con ordine di erogazione mensile come componente della retribuzione.
2. La Corte territoriale, richiamando un proprio precedente giurisprudenziale, ha ritenuto che la pacifica attribuzione, per circa quattro anni, dell’indennità in questione a tutti i lavoratori non più addetti alle mansioni di esattore ma destinati al monitoraggio centralizzato di tratta, aveva integrato un uso aziendale che esulava dal contratto di lavoro e costituiva la fonte di un obbligo di carattere collettivo, non oggetto di regolare disdetta.
3. Avverso la sentenza di secondo grado ha proposto ricorso per cassazione Milano Serravalle – Milano Tangenziali spa, affidato a tre motivi, cui ha resistito con controricorso il lavoratore.
4. Le parti hanno depositato memorie.
5. Il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nei termini di legge ex art. 380 bis 1 cpc.
Considerato che
1.I motivi possono così essere sintetizzati.
2. Con il primo motivo la ricorrente denuncia a violazione e/o falsa applicazione, in relazione all’art. 360 co. 1 n. 3 cpc, degli artt. 1362 e 1366 cc, per avere la Corte territoriale affermato l’esistenza, nella fattispecie, di un uso aziendale senza alcuna indagine sui due elementi necessari che devono concorrere perché possa parlarsi di “uso”: a) l’elemento materiale (comportamento osservato reiteratamente e in concreto; b) l’elemento psicologico (convinzione che tale comportamento sia obbligatorio).
3. Con il secondo motivo si censura la violazione e/o falsa applicazione, in relazione all’art. 360 co. 1 n. 3 cpc, degli artt. 115 e 116 cpc, nonché dell’art. 2967 cc, per la mancata amissione della prova su un punto decisivo della controversia, rappresentato dal fatto che, nella fattispecie, vi era stato solo un errore materiale scusabile e non un uso aziendale, in relazione al quale non era stata data la possibilità di provarlo.
4. Con il terzo motivo si eccepisce l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, rappresentato dal documento n. 10, con il quale si definiva il trattamento economico applicabile al personale addetto al monitoraggio centrale di tratta, ove non era previsto il riconoscimento anche dell’indennità mensile di maneggio denaro.
5. Il primo motivo è infondato.
6. E’ stato affermato pacificamente in giurisprudenza che la reiterazione costante e generalizzata di un comportamento favorevole del datore di lavoro nei confronti dei propri dipendenti integra, di per sé, gli estremi dell’uso aziendale. Ed esso, in ragione della sua appartenenza al novero delle cosiddette fonti sociali (le quali, pur non costituendo espressione di funzione pubblica, neppure realizzano meri interessi individuali, in quanto dirette a conseguire un’uniforme disciplina dei rapporti con riferimento alla collettività impersonale dei lavoratori di un’azienda), agisce sul piano dei singoli rapporti individuali allo stesso modo e con la stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale (Cass. s.u. 13 dicembre 2007, n. 26107; Cass. 28 luglio 2009, n. 17481; Cass. 25 marzo 2013, n. 7395).
7. L’uso aziendale, inoltre, trova la sua origine solo in un comportamento spontaneo dell’imprenditore, che attribuisca a tutti i suoi dipendenti per liberalità un trattamento economico, non previsto né dal contratto individuale né dal contratto collettivo. Non solo occorre l’attribuzione spontanea di tale trattamento ma è necessario altresì che essa sia generalizzata: se riguardasse solo alcuni lavoratori (e non altri) non sorgerebbe un uso aziendale, ma semmai un trattamento di fatto, che potrebbe essere configurato come un mutamento unilaterale delle condizioni contrattuali, e tacitamente accettato dal beneficiario. In tale ipotesi la modifica di dette condizioni entra a far parte del contratto individuale di lavoro dei soggetti beneficiari. Occorre, infine, che il predetto comportamento spontaneo non sia isolato: se un imprenditore effettuasse per una sola volta a tutti i suoi dipendenti una erogazione patrimoniale non prevista dal contratto individuale e da quello collettivo, ciò non sarebbe sufficiente alla nascita del relativo diritto e i lavoratori non potrebbero pretendere la stessa indennità al verificarsi della medesima situazione. Ma se tale erogazione viene ripetuta per un certo periodo di tempo, essa diviene appunto usuale e quindi entra a far parte della retribuzione, dovuta per il lavoro svolto in quella determinata azienda (Cass. n. 9690/1996).
8. L’uso aziendale, quindi, quale fonte di un obbligo unilaterale di carattere collettivo, richiede il protrarsi nel tempo di comportamenti che abbiano carattere generale, in quanto applicati nei confronti di tutti i dipendenti dell’azienda con lo stesso contenuto, e produce effetti anche nei confronti dei lavoratori che entrano a far parte della categoria dopo la formazione dell’uso, restando tuttavia impregiudicata con riferimento a questi ultimi, la facoltà dell’imprenditore di escludere l’applicabilità del trattamento di miglior favore (Cass. n. 18263/2009).
9. E l’elemento soggettivo va anche calibrato con riguardo al complessivo comportamento datoriale e dell’atteggiamento dell’altra parte, che se non rileva in astratto, nel senso che nessuna indagine va effettuata in ordine alla conoscibilità dell’altra parte circa il vero intento del soggetto erogante, sul punto può invece avere efficacia dirimente la inequivoca, obiettiva e documentata conoscenza del beneficiario quanto alla inesistente volontà datoriale di gratificare i dipendenti, ed anzi della palese manifestazione di un intento contrario.
10. Ebbene, la Corte territoriale, attenendosi ai principi sopra richiamati, ha accertato in fatto l’esistenza di una prassi aziendale di corresponsione dell’indennità di cui è processo per quattro anni a tutti i lavoratori non più addetti alle mansioni di esattore ma destinati al monitoraggio centralizzato di tratta e che tale erogazione integrava appunto gli estremi di un uso aziendale perché attribuita agli stessi lavoratori che, non più addetti alle precedenti mansioni in relazione alle quali percepivano tale indennità, avevano continuato ad riceverla una volta destinati al monitoraggio centralizzato di tratta, con la convinzione che essa spettasse a prescindere dall’intento di parte datoriale, per le modalità e durata dell’erogazione stessa; inoltre ha precisato che la società si era limitata a comunicare un piano di rientro delle somme corrisposte perché, a suo dire, erroneamente erogate.
11. Sicché, l’accertamento del giudice del merito è stato congruamente argomentato (per le ragioni esposte nella gravata sentenza) e, risultando in diritto conforme alla giurisprudenza di questa Corte sopra richiamata, è pertanto insindacabile in sede di legittimità (Cass. 3 giugno 2004, n. 10591; Cass. 11 luglio 2007, n. 15489).
12. Anche il secondo ed il terzo motivo, da scrutinare congiuntamente per la loro interferenza, non sono meritevoli di accoglimento.
13. E’ un principio ormai consolidato quello secondo cui il ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità, non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (Cass. n. 19547/2017; Cass. n. 29404/2017).
14. In particolare, in tema di ricorso per cassazione, una censura relativa alla violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma solo se si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione: ipotesi, queste, non ravvisabili nel caso in esame (Cass. n. 29867/2020; Cass. n. 27000/2016; Cass. n. 13960/2014).
15. Inoltre, l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé il vizio di omesso esame di un fatto decisivo se i fatti storici, come detto nel caso in esame, sono stati comunque presi in considerazione (Cass. n. 19881/2014; Cass. n. 27415/2018) avendo la Corte territoriale motivato adeguatamente sulla problematica in ordine alla affermata prosecuzione del maneggio di denaro nell’espletamento delle nuove mansioni di addetto “MCT” (monitoraggio centralizzato di tratta) con particolare riferimento alla gestione dele somme cd. “fuori fondo”.
16. Infine, nel caso in esame, non è ravvisabile la violazione della regola del riparto dell’onere della prova: la violazione dell’art 2697 cod. civ. è configurabile, infatti, tecnicamente solo nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era gravata in applicazione di detta norma, non anche quando, a seguito di una incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie, abbia ritenuto erroneamente che la parte onerata avesse assolto tale onere, poiché in questo caso vi è un erroneo apprezzamento sull’esito della prova, sindacabile in sede di legittimità solo per il vizio di cui all’art. 360, n. 5, cpc (Cass. n. 17313/2020).
17. Quanto poi all’omesso esame, denunciato in particolare con il terzo motivo (di mancata considerazione del documento citato), al di là della sua non decisività per inidoneità a determinare un esito diverso della controversia (Cass. 4 ottobre 2017, n. 23238; Cass. 25 giugno 2018, n. 16703), è stato ritenuto in sostanza irrilevante dalla Corte territoriale in quanto superato dall’accertamento circa le modalità e durata della erogazione della indennità in questione che dimostravano l’esistenza di un uso aziendale.
18. Deve, poi, deve osservarsi, da un lato, che si verte in una ipotesi di c.d. doppia conforme ex art. 348 ter, comma 5 cpc ove il ricorrente non ha indicato le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse siano tra loro diverse; dall’altro, è opportuno ribadire che la valutazione delle risultanze delle prove ed il giudizio sull’attendibilità dei testi, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, senza essere tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti (Cass. n. 16467/2017).
19. Alla stregua di quanto esposto, il ricorso deve essere rigettato.
20. Al rigetto segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano come da dispositivo, con distrazione.
21. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti processuali, sempre come da dispositivo.
PQM
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro 2.800,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge, con distrazione in favore dei Difensori del controricorrente. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.