Deve essere riconosciuto come orario di lavoro retribuibile il tempo di percorrenza impiegato dai dipendenti dal momento dell’ingresso nella sede aziendale a quello dell’attestazione dell’inizio della prestazione, mediante login sul proprio personal computer e viceversa.

Nota a Cass. ord. 28 maggio 2024, n. 14848

Pamela Coti

È da considerarsi orario di lavoro l’arco temporale che il lavoratore trascorre all’interno dell’azienda nell’espletamento di attività prodromiche ed accessorie allo svolgimento delle mansioni affidategli, ove il datore di lavoro non provi che egli sia ivi libero di autodeterminarsi ovvero non assoggettato al potere gerarchico.

È quanto stabilito dalla Corte di Cassazione ord. 28 maggio 2024 n. 14848 con riferimento al ricorso promosso da un gruppo di lavoratori per sentirsi accertare il diritto alla retribuzione di 5 minuti giornalieri, quale tempo effettivo di lavoro, dalla timbratura del cartellino al tornello posto all’ingresso al completamento della procedura di log on e di 5 minuti giornalieri, quale tempo effettivo di lavoro dal completamento della procedura di log off fino alla timbratura del cartellino al tornello all’uscita.

Al riguardo, i Supremi Giudici hanno sancito che:

  • il tempo retribuito richiede che le operazioni anteriori o posteriori alla conclusione della prestazione di lavoro siano necessarie e obbligatorie;
  • il tempo necessario per raggiungere il luogo di lavoro rientra nell’attività lavorativa vera e propria e deve essere pertanto sommato al normale orario di lavoro allorché lo spostamento sia funzionale rispetto alla prestazione lavorativa (Cass. n. 27008/2023) e, in tal senso, devono esser ritenute tali anche tutte le attività preparatorie e preliminari alla prestazione lavorativa (ord n. 27799/2017, in q. sito con nota di F. GIROLAMI, ord. n. 12935/2018);
  • “ai fini della misurazione dell’orario di lavoro, l’art. 1, comma 2, lett. a), del D.Lgs. n. 66 del 2003, attribuisce un espresso ed alternativo rilievo non solo al tempo della prestazione effettiva ma anche a quello della disponibilità del lavoratore e della sua presenza sui luoghi di lavoro; ne consegue che è da considerarsi orario di lavoro l’arco temporale comunque trascorso dal lavoratore medesimo all’interno dell’azienda nell’espletamento di attività prodromiche ed accessorie allo svolgimento, in senso stretto, delle mansioni affidategli, ove il datore di lavoro non provi che egli sia ivi libero di autodeterminarsi ovvero non assoggettato al potere gerarchico”.

Sentenza

CORTE DI CASSAZIONE (ORD.) 28 maggio 2024, n. 14848

Svolgimento del processo

1.- La Corte d’appello di Roma, con la sentenza in atti, in accoglimento dell’appello principale proposto dai lavoratori e in riforma dell’impugnata sentenza, confermata per il resto, ha dichiarato il diritto degli appellanti a far data dall’1/4/2017 della retribuzione di 5 minuti giornalieri quale tempo effettivo di lavoro, dalla timbratura del cartellino al tornello posto all’ingresso al completamento della procedura di log on e di 5 minuti giornalieri quale tempo effettivo di lavoro dal completamento della procedura di log off fino alla timbratura del cartellino al tornello all’uscita; ed ha condannato Telecom a pagare la complessiva somma di euro 547,00 in favore di A.A., di euro 477,00 in favore di C.C. e di euro 513,00 in favore di B.B. .

Ha pure respinto l’appello incidentale di Tim sulla diversa domanda relativa al riconoscimento del lavoro serale dalle 20,00 alle 22,00 ed ha condannando la società al pagamento delle spese di lite.

2. – Contro la sentenza ha proposto ricorso per cassazione Telecom con tre motivi di censura ai quali hanno resistito con controricorso i lavoratori sopra individuati.

3. Le parti hanno depositato memorie. Il collegio ha riservato la motivazione, ai sensi dell’art. 380-bis 1, secondo comma, ult. parte C.P.C. .

Motivi della decisione

1.- Col primo motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’articolo 1, comma 2, lettera a) D.Lgs. n. 66/2003con riferimento al riconoscimento del tempo intercorrente tra l’ingresso nella sede di lavoro al login presso la postazione come tempo di lavoro (art. 360, comma 1, n. 3 C.P.C.). 1.1. La sentenza resa dalla Corte d’appello di Roma sarebbe censurabile nella parte in cui ha riconosciuto che il tempo di percorrenza impiegato dai dipendenti del caring services dal momento dell’ingresso nella sede aziendale a quello dell’attestazione dell’inizio della prestazione, mediante login sul proprio personal computer (e viceversa), sia qualificabile come orario di lavoro retribuibile. Secondo lo stesso motivo di ricorso la sentenza sarebbe censurabile anzitutto per non aver correttamente valutato le circostanze di fatto, ampiamente contestate in memoria difensiva dalla società per aver ritenuto provati i fatti posti alla base della motivazione della sentenza, senza che, peraltro, su tali fatti fosse stata svolta alcuna attività istruttoria nel giudizio di prime cure. In secondo luogo, la Corte territoriale avrebbe ribaltato l’onere probatorio ponendo in capo a Telecom Italia Spa l’onere di provare che il prestatore di lavoro, nell’arco temporale in esame, fosse libero di autodeterminarsi o, comunque, non assoggettato il potere gerarchico. Inoltre, il giudice d’appello non avrebbe considerato che Telecom Italia Spa, a fronte della genericità delle allegazioni avversarie, aveva, in sede di memoria difensiva specificamente dedotto le varie operazioni che il lavoratore deve effettuare dal momento dell’entrata all’uscita e viceversa.

1.2. Di conseguenza sotto un primo profilo il collegio avrebbe errato nella parte della sentenza in cui ha ritenuto pacifici e dunque provati dei fatti ampiamente contestati dalla società, e così facendo il collegio era giunto a ritenere provate le circostanze dedotte dalle lavoratrici ricorrenti in primo grado. Sotto ulteriore profilo la ricorrente ha evidenziato come la motivazione fornita dalla Corte d’appello tradirebbe una erronea e contraddittoria interpretazione dell’art. 1, comma 2 lett. A) del D.Lgs. 66/2003 con specifico riferimento ai presupposti che, ai sensi della disposizione invocata, consentono di definire il tempo che il dipendente mette a disposizione dell’azienda come orario di lavoro; posto che nel caso di specie non sussisteva nessun potere direttivo e/o gerarchico e/o eterodirettivo esercitato dalla società datrice di lavoro sulle dipendenti.

1.3. Il primo motivo di ricorso presenta profili di inammissibilità e profili di infondatezza.

In primo luogo, il motivo viola il principio di specificità del ricorso per cassazione, promuovendo censure eterogenee, di fatto e di diritto, processuali e sostanziali, promiscuamente accorpate (v. Cass. n. 7009/2017)

In secondo luogo, il motivo deduce per buona parte censure che attengono agli accertamenti di fatto ed alla valutazione delle prove come tali non deferibili a questa Corte di legittimità (v. Cass. n. 30577/2019).

1.4. Sul piano logico e giuridico, nella sentenza impugnata non si rinviene, in ogni caso, alcuna violazione di legge, perché la Corte d’appello si è adeguata a quella che è l’interpretazione corrente e consolidata della normativa sull’orario di lavoro ai sensi del D.Lgs. n. 66/2003 e delle direttive comunitarie Nn. 93/104 e 203/88. Avendo la Corte fondato la propria pronuncia sul medesimo principio di diritto richiamato nel ricorso da Telecom ovvero quello secondo cui il tempo retribuito richiede che le operazioni anteriori o posteriori alla conclusione della prestazione di lavoro siano necessarie e obbligatorie.

In tal senso è orientata la giurisprudenza consolidata di questa Corte, con orientamento di recente ribadito proprio in relazione a vertenze promosse da lavoratori Telecom ai fini della computabilità del tempo per raggiungere il luogo di lavoro, il quale rientra nell’attività lavorativa vera e propria (e va quindi sommato al normale orario di lavoro) allorché lo spostamento sia funzionale rispetto alla prestazione lavorativa (Cass. 27008/2023).

La stessa soluzione è da sempre estesa nella giurisprudenza di legittimità a tutte le attività preparatorie e preliminari alla prestazione lavorativa (ordinanza 27799/2017, ordinanza n. 12935/2018).

In termini specificamente aderenti al tema oggetto della presente causa è stato pure affermato (sentenza n. 13466 del 29/05/2017) il principio secondo cui “ai fini della misurazione dell’orario di lavoro, l’art. 1, comma 2, lett. a), del D.Lgs. n. 66 del 2003 attribuisce un espresso ed alternativo rilievo non solo al tempo della prestazione effettiva ma anche a quello della disponibilità del lavoratore e della sua presenza sui luoghi di lavoro; ne consegue che è da considerarsi orario di lavoro l’arco temporale comunque trascorso dal lavoratore medesimo all’interno dell’azienda nell’espletamento di attività prodromiche ed accessorie allo svolgimento, in senso stretto, delle mansioni affidategli, ove il datore di lavoro non provi che egli sia ivi libero di autodeterminarsi ovvero non assoggettato al potere gerarchico. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha considerato orario di lavoro il tempo impiegato dai dipendenti di una acciaieria per raggiungere il posto di lavoro, dopo aver timbrato il cartellino marcatempo alla portineria dello stabilimento, e quello trascorso all’interno di quest’ultimo immediatamente dopo il turno)”.

1.5. Ciò posto, la Corte territoriale non ha affermato nulla di diverso rispetto a tali principi; e solamente – secondo i propri poteri discrezionali in materia di selezione e valutazione del materiale probatorio – ha effettuato una diversa valutazione delle circostanze di fatto acquisite in giudizio in ordine alle operazioni che i lavoratori devono compiere: avendo considerato necessario e obbligatorio fare il tragitto dall’ingresso fino alla postazione di lavoro e compiere ogni altra attività preliminare cui essi sono tenuti, prima, ai fini del log in e, dopo, ai fini del log out.

Per la Corte di appello si tratta di una attività eterodiretta ed obbligatoria e tale conclusione deve essere ritenuta altresì logica e fondata perché è la datrice di lavoro che ha deciso come strutturare la propria sede; dove collocare la postazione di lavoro dei ricorrenti ed il percorso da effettuare; è la datrice di lavoro che ha assegnato ai ricorrenti mansioni svolgibili solo tramite una postazione telematica ed ha quindi provveduto a scegliere il tipo di computer che ha ritenuto più opportuno e ne ha determinato con puntualità la procedura di accensione necessaria all’uso della stessa determinando così anche i tempi necessari; è la datrice che ha deciso che all’orario esatto di inizio turno i ricorrenti debbano essere già innanzi alla propria postazione già inizializzata e pronta all’uso; è la TIM, infine che, con il regolamento aziendale del febbraio 2017, ha deciso che tutti coloro che accedono agli spazi aziendali sono tenuti durante la loro permanenza all’osservanza di un comportamento corretto e rispettoso delle regole stabilite da Tim.

Conta pure rilevare inoltre che è pacifico che fino al marzo 2013 questo tempo iniziale e finale della prestazione era considerato tempo di lavoro ed è sempre stato retribuito da Telecom.

2. – Con il secondo motivo si sostiene la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. con riferimento alla statuizione di condanna della società al pagamento delle differenze retributive, posto che, a differenza di quanto affermato dal giudice di primo grado e confermato dal giudice d’appello, la società ricorrente avrebbe provato e documentato il tempo di percorrenza dai tornelli alla postazione (circa 2-3 minuti), mentre i lavoratori nulla avrebbero dedotto di specifico sul punto. La società ricorrente aveva invece puntualmente evidenziato come la quantificazione del tempo impiegato dai lavoratori per recarsi dall’ingresso della sede alla propria postazione di lavoro come genericamente dedotta nel ricorso di primo grado fosse all’evidenza comunque eccessiva, generica e priva di riscontro, nonché indicata senza alcun elemento probatorio al supporto. Nel caso di specie come detto le odierne controricorrenti si erano limitate a dedurre la natura di orario di lavoro del predetto lasso temporale, senza offrire alcuna prova in merito alla relativa durata di tale periodo.

2.1. Il secondo motivo è inammissibile essendo incentrato sulla sindacabilità nel merito dell’accertamento dei fatti ed è comunque privo di autosufficienza.

Le stesse censure proposte nel motivo di ricorso violano l’onere di specificità e di autosufficienza del ricorso, di cui agli artt. 366 n. 6 e 369 n. 4 C.P.C., pur nella versione dell’onere di specificazione modulata in conformità alle indicazioni della sentenza CEDU del 28 ottobre 2021 (causa Succi ed altri c/Italia), secondo i criteri di sinteticità e chiarezza, realizzati dalla trascrizione essenziale degli atti per la parte d’interesse (in particolare del ricorso dei lavoratori che si dice essere carente e generico) in modo da contemperare il fine legittimo di semplificare l’attività del giudice di legittimità e garantire al tempo stesso la certezza del diritto e la corretta amministrazione della giustizia, salvaguardando la funzione nomofilattica della Corte ed il diritto di accesso della parte ad un organo giudiziario in misura tale da non inciderne la stessa sostanza (cfr. Cass. 04/02/2022 n. 3612).

2.2. Inoltre le questioni poste dallo stesso motivo, implicanti accertamenti di fatto, non sono state specificamente affrontate dalla sentenza impugnata; costituiva pertanto onere della ricorrente, onde impedire una valutazione di novità della questione, allegare l’avvenuta deduzione di esse innanzi al giudice di merito ed inoltre, in ossequio al principio di specificità del ricorso per cassazione, indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo avesse fatto, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito (Cass. 20694/2018, 15430/2018, 23675/2013), come, viceversa, non è avvenuto.

2.3. Il motivo non tiene poi conto che la Corte di appello ha operato un accertamento di merito sul quantum del tempo di lavoro, attraverso una valutazione di fatto e senza fare applicazione del principio dell’onere della prova e della regola dell’art. 2697 c.c. che non ha perciò certamente violato; mentre i controricorrenti avevano richiesto il pagamento del periodo di tempo minimo, necessario ed inevitabile, per effettuare gli spostamenti; ed è quindi irrilevante ogni eventuale variabilità in più del tempo impiegato.

3.- Con il terzo motivo si deduce violazione falsa applicazione dell’art. 2103 c.c., art. 36 Cost. con riferimento al pagamento delle somme a titolo di indennizzo per l’orario di lavoro espletato nella fascia oraria 20-22 (art. 360 n. 3 C.P.C.); si censura la sentenza gravata anche nella parte in cui rigettando l’appello incidentale proposto da Telecom Italia ha confermato la condanna della società al pagamento in favore degli odierni controricorrenti delle somme rivendicate a titolo di indennità per l’orario di lavoro espletato dalle 20,00 alle ore 22,00.

3.1. Il terzo motivo deve essere ritenuto inammissibile non essendo correlato sia dal punto di vista giuridico che fattuale con le statuizioni della sentenza impugnata.

Ed invero esso non tiene conto, anzitutto, che la sentenza gravata, in relazione alla prova della prestazione serale svolta dai lavoratori, abbia sostenuto che la contestazione della società sulla carenza di prova dello svolgimento di siffatte ore fosse mal posta, in quanto i lavoratori avevano richiesto il supplemento sulla scorta delle ore che emergevano dallo stesso cartellino marcatempo. Sono pertanto irrilevanti le censure sollevate nel motivo.

3.2. Oltre tutto senza considerare che sul lavoro serale c’è “doppia conforme” essendo perciò preclusa ex art. 348 ter., ultimo comma, C.P.C. qualsiasi contestazione di omessa valutazione di fatti decisivi, senza indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (v. Cass. n. 26774 del 2016; Conf. Cass. n. 20944 del 2019).

3.3. Inoltre, quanto alla doglianza per cui in caso di successione di contratti collettivi si realizzerebbe una sostituzione delle nuove clausole con le precedenti disposizioni che non sono suscettibili di essere conservate, la sentenza impugnata aveva già rilevato come sia incontroverso che alla disdetta dell’accordo del maggio 2008 non abbia fatto seguito un nuovo accordo e che quindi non ci sia stata nessuna successione di norme collettive.

4. – Sulla scorta delle premesse, il ricorso va quindi respinto e le spese di lite seguono il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 C.P.C. Sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 quater, D.P.R. 115 del 2002.

P.Q.M.

La Corte respinge il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio che liquida in euro 4.500,00 per compensi professionali, euro 200,00 per esborsi, 15% per spese forfettarie, oltre accessori dovuti per legge. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato D.P.R., se dovuto.

Il tempo necessario per percorrere il tragitto dall’ingresso del posto di lavoro fino alla postazione deve essere retribuito
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