La presenza di un clima lavorativo che genera stress deve essere considerato un fatto ingiusto che fa sorgere in capo al lavoratore il diritto al risarcimento anche in mancanza di una condotta mobbizzante.
Nota a Cass. 7 giugno 2024, n. 15957
Pamela Coti
Un ambiente stressogeno è configurabile come un fatto ingiusto e meritevole di tutela e una siffatta situazione è suscettibile di condurre al riesame delle condotte datoriali allegate come vessatorie, sebbene apparentemente lecite o solo episodiche.
È quanto stabilito dalla Corte di Cassazione 7 giugno 2024, n. 15957 che ha riformato la sentenza dei Giudici di merito con riguardo alla domanda avanzata da una lavoratrice del Ministero dell’Istruzione volta a ottenere il risarcimento del danno per le vessazioni subite da colleghi e superiori.
Più nello specifico, i Giudici di legittimità, dopo aver preliminarmente ribadito un proprio orientamento consolidato, ovverosia che la nozione di mobbing, come quella di straining, è una nozione di tipo medico/legale, che non ha autonoma rilevanza ai fini giuridici e serve soltanto per identificare comportamenti che si pongono in contrasto con l’art. 2087 c.c. e con la normativa in materia di tutela della salute negli ambienti di lavoro, hanno precisato e stabilito che:
- “è configurabile il mobbing lavorativo ove ricorra l’elemento obiettivo, integrato da una pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli per la persona interni al rapporto di lavoro e quello soggettivo dell’intendimento persecutorio nei confronti della vittima” (Cass. 12437/2018; Cass. 26684/2017), a prescindere dalla illegittimità intrinseca di ciascun comportamento, mentre, è configurabile lo straining, “quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie” (Cass. 18164/2018, in q. sito con nota di M. BONI);
- “un ambiente lavorativo stressogeno è configurabile come fatto ingiusto, suscettibile di condurre anche al riesame di tutte le altre condotte datoriali allegate come vessatorie, ancorché apparentemente lecite o solo episodiche, in quanto la tutela del diritto fondamentale della persona del lavoratore trova fonte direttamente nella lettura, costituzionalmente orientata, dell’art. 2087 cod. civ.” (Cass. 3692/2023, in q. sito con nota di M.N. BETTINI; Cass. 33639/2022, annotata in q. sito da A. TAGLIAMONTE; Cass. 33428/2022, in q. sito con nota di P. COTI; Cass.31514/2022);
- per l’applicazione dell’art. 2087 c.c. si deve fare riferimento non solo alla normativa internazionale ma anche a quella UE e, quindi, alle pronunce delle due Corti europee centrali (CGUE e Corte EDU) e “che tale applicazione è caratterizzata dalla necessità di operare un bilanciamento tra il diritto al lavoro e alla salute del dipendente e la libertà di iniziativa economica del datore di lavoro”; pertanto, ne consegue che l’elemento di base per l’applicazione del principio è rappresentato dalla adozione, come definizione di salute, dello “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale” e non di “semplice assenza dello stato di malattia o di infermità”.
Sentenza
CORTE DI CASSAZIONE 7 giugno 2024, n. 15957
Svolgimento del processo
1.La Corte d’Appello di Bologna ha rigettato il gravame proposto da A.A. avverso la sentenza del Tribunale di Forlì, che aveva respinto il suo ricorso, volto ad ottenere il risarcimento del danno per le vessazioni datoriali subite.
2. Richiamata la giurisprudenza di legittimità sul mobbing e sullo straining, la Corte territoriale ha considerato generiche le allegazioni contenute nel ricorso introduttivo in ordine alla persecutorietà della condotta di colleghi e superiori, ed insussistente la relativa prova.
3. Il giudice di appello ha rilevato che dalla sentenza n. 132/2008 del Tribunale di Forlì (solo così richiamata) era emerso il mancato assolvimento, da parte del Ministero, dell’onere probatorio relativo alla sussistenza di ragioni che legittimassero il trasferimento per incompatibilità ambientale della lavoratrice, poi annullato.
4. A fronte delle risultanze della prova testimoniale espletata in quel giudizio ha affermato che le difficoltà relazionali erano imputabili anche alla A.A..
5. A riprova dell’esistenza di un difficile clima lavorativo e di un degrado dei rapporti professionali imputabile anche alla A.A., ha inoltre evidenziato che una prima sanzione disciplinare nei confronti della medesima era stata annullata per vizi meramente procedurali, mentre altre due sanzioni disciplinari erano state confermate.
6. Avverso tale sentenza A.A. ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi.
7. Il Ministero dell’Istruzione ha resistito con controricorso, illustrato da memoria.
Motivi della decisione
1. Il primo motivo di ricorso denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2, 3, 4, 32 e 35 Cost., nonché degli artt. 2087 e 2049 cod. civ. e 115 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3 cod. proc. civ..
Critica la sentenza impugnata per avere ritenuto generiche le allegazioni relative alla condotta persecutoria da parte di colleghi o superiori ed insussistente la relativa prova.
Evidenzia che le condotte descritte nel ricorso introduttivo, assolutamente non generiche, riguardano condotte reiterate nel tempo da parte del dirigente scolastico e consistenti in comportamenti ostili di carattere discriminatorio e persecutorio, da cui era conseguita la mortificazione morale e l’emarginazione della A.A. nell’ambiente di lavoro, con effetti lesivi del suo equilibrio psico – fisico e della sua personalità.
2. Il secondo motivo di ricorso denuncia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2, 3, 4, 32 e 35 Cost, nonché degli artt. 2087 e 2049 cod. civ. e 115 cod. proc. civ. in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3 cod. proc. civ..
Evidenzia che la sentenza n. 132/2008 del Tribunale di Forlì aveva dichiarato l’illegittimità del trasferimento per incompatibilità ambientale della ricorrente disposto dal dirigente scolastico nel 2005.
Si duole della mancata considerazione, da parte della Corte territoriale, della totalità delle argomentazioni svolte nella sentenza n. 132/2008 del Tribunale di Forlì.
Lamenta il difetto di logicità e correttezza della decisione impugnata, fondata sull’erroneo presupposto del coinvolgimento della ricorrente nelle azioni conflittuali, in contrasto con quanto affermato dalla sentenza n. 132/2008 del Tribunale di Forlì.
3. Il terzo motivo di ricorso denuncia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2, 3, 4, 32e 35 Cost., nonché degli artt. 2087 e 2049 cod. civ. e 115 cod. proc. civ. in relazione all’art. 360, comma primo, n. 4 cod. proc. civ..
Evidenzia che la Corte territoriale ha ritenuto generiche ed irrilevanti le richieste istruttorie della parte ancorché contenessero precisi riferimenti spaziotemporali e fossero volte a dimostrare il protrarsi delle tensioni, dell’ostilità e della conflittualità nel contesto lavorativo in cui era inserita la A.A..
Lamenta la nullità della sentenza per manifesta illogicità, avendo la Corte territoriale rigettato la domanda senza ancorare la propria valutazione ai principi e alle regole in tema di disponibilità delle prove.
4. Il ricorso è fondato.
5. Per consolidato orientamento di questa Corte la nozione di mobbing (come quella di straining) è una nozione di tipo medico – legale, che non ha autonoma rilevanza ai fini giuridici e serve soltanto per identificare comportamenti che si pongono in contrasto con l’art. 2087 cod. civ. e con la normativa in materia di tutela della salute negli ambienti di lavoro (Cass. 19 febbraio 2016, n. 3291; Cass. n. 32257/2019).
Secondo gli orientamenti maturati presso questa Corte, è configurabile il mobbing lavorativo ove ricorra l’elemento obiettivo, integrato da una pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli per la persona interni al rapporto di lavoro e quello soggettivo dell’intendimento persecutorio nei confronti della vittima (Cass. 21 maggio 2018, n. 12437; Cass. 10 novembre 2017, n. 26684), a prescindere dalla illegittimità intrinseca di ciascun comportamento, in quanto la concreta connotazione intenzionale colora in senso illecito anche condotte altrimenti astrattamente legittime, il tutto secondo un assetto giuridico pianamente inquadrabile nell’ambito civilistico, ove si consideri che la determinazione intenzionale di un danno alla persona del lavoratore da parte del datore di lavoro o di chi per lui è in re ipsa ragione di violazione dell’art. 2087 cod. civ. e quindi di responsabilità contrattuale, anche con i maggiori effetti di cui all’art. 1225 cod. civ. per il caso di dolo; è configurabile lo straining, quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie (Cass. 10 luglio 2018, n. 18164).
In materia di tutela della salute nell’ambiente di lavoro, questa Corte ha inoltre chiarito che un “ambiente lavorativo stressogeno” è configurabile come fatto ingiusto, suscettibile di condurre anche al riesame di tutte le altre condotte datoriali allegate come vessatorie, ancorché apparentemente lecite o solo episodiche, in quanto la tutela del diritto fondamentale della persona del lavoratore trova fonte direttamente nella lettura, costituzionalmente orientata, dell’art. 2087 cod. civ. (vedi, tra le altre: Cass. 7 febbraio 2023 n. 3692 e nello stesso senso: Cass. nn. 33639/2022, 33428/2022, 31514/2022).
Si è inoltre affermato che per l’applicazione dell’art. 2087 cod. civ. si deve fare riferimento alla normativa internazionale (soprattutto Convenzioni ONU, OIL e CEDU) e UE e, quindi, alle pronunce delle due Corti europee centrali (CGUE e Corte EDU) e che tale applicazione è caratterizzata dalla necessità di operare un bilanciamento tra il diritto al lavoro e alla salute del dipendente (art. 4 e 32 Cost.) e la libertà di iniziativa economica del datore di lavoro privato (art. 41 Cost.) ovvero per il dato di lavoro pubblico le esigenze organizzative e i limiti di spesa. L’elemento di base di questa operazione è rappresentato dalla adozione come definizione di salute non è quella di “semplice assenza dello stato di malattia o di infermità”, ma quella di “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale” originariamente contenuta nel Preambolo della Costituzione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità OMS (oppure World Health Organization, WHO, entrata in vigore il 7 aprile 1948), cui si riferiscono tutte le Carte internazionali in materia – a partire dalla importante Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità – e che è stata espressamente riprodotta nell’art. 2, comma 1, lettera o) del D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81.
6. La sentenza impugnata non è conforme a tali principi, in quanto ha ritenuto le difficoltà relazionali siano imputabili anche alla A.A., senza considerare che l’ “ambiente lavorativo stressogeno” è configurabile come fatto ingiusto, suscettibile di condurre anche al riesame di tutte le altre condotte datoriali allegate come vessatorie pur se non necessariamente viene accertato l’intento persecutorio che unifica tutte le condotte denunciate (come richiesto solo per il mobbing) ancorché apparentemente lecite o solo episodiche; inoltre, senza operare una precisa e completa ricostruzione del fatto, ha dato atto dell’annullamento del trasferimento della A.A. per incompatibilità ambientale (che, ad avviso della Corte d’appello, risulterebbe dalla sentenza n. 132/2008 del Tribunale di Forlì, richiamata senza alcun chiarimento della relativa della ricostruzione in fatto e delle argomentazioni ivi svolte e senza alcun esame critico delle stesse in base ai motivi di gravame) e dell’annullamento di due sanzioni disciplinari irrogate alla medesima, senza esaminare tali condotte nel contesto complessivo della condotta datoriale.
7. Il ricorso va pertanto accolto e la sentenza impugnata va cassata, con rinvio alla Corte di Appello di Bologna, anche per il regolamento delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso e cassa la sentenza impugnata, con rinvio alla Corte di Appello di Bologna in diversa composizione, anche per il regolamento delle spese del giudizio di legittimità.