Al licenziamento ritorsivo camuffato da crisi aziendale si applica la tutela reintegratoria stabilita dall’art. 2, D.Lgs. n. 23/2015.

Nota a Cass. 8 luglio 2024, n. 18547

Fabio Iacobone

“Il licenziamento motivato dall’esigenza di trasformazione del part time in full time o viceversa va ritenuto ingiustificato alla luce dell’art. 8,1 comma d.lgs. 81/2015; mentre il licenziamento intimato a seguito del rifiuto del part time deve essere considerato ritorsivo in quanto mosso dall’esclusivo e determinante fine di eludere il divieto di cui all’art. 8 d.lgs. 81/2015 attraverso una ingiusta ed arbitraria reazione a un comportamento legittimo del lavoratore, che attribuisce al licenziamento il connotato della vendetta. Al licenziamento ritorsivo, in quanto riconducibile ad un caso di nullità del recesso previsto dell’art. 1345 c.c., si applica la tutela reintegratoria stabilita dall’art. 2 del d.lgs. n. 23 del 2015 dichiarato incostituzionale dalla sentenza n. 22/2024 della Corte Costituzionale”.

Questo, il rilevante principio sancito dalla Corte di Cassazione (8 luglio 2024, n. 18547), in relazione al ricorso di un lavoratore formalmente licenziato per giustificato motivo oggettivo per crisi aziendale non per l’esigenza di trasformazione del contratto full time in part time (il motivo addotto a sostegno del recesso non faceva riferimento, nemmeno tacito o indiretto, alle esigenze di trasformazione del rapporto di lavoro sotto il profilo dell’orario né al rifiuto del part time).

Nel caso in esame, la Corte di merito non aveva sanzionato con la nullità un licenziamento intimato a seguito del rifiuto del part time, bensì un licenziamento formalmente per giustificato motivo oggettivo motivato «da inesistenti e strumentali ragioni riferite ad una crisi aziendale, cui era sotteso l’intento di reagire al legittimo rifiuto del part time».

La Cassazione, rilevata la differenza tra le due fattispecie, conclude affermando che al licenziamento ritorsivo, la cui nullità non è oggetto di esplicita previsione di legge, si applica la tutela reintegratoria prevista dall’art. 2, co. 1, D.Lgs. n. 23/2015, avendo la Corte costituzionale, con la sentenza n 22/2024, definitivamente escluso, quanto al regime del licenziamento nullo, la distinzione tra “nullità espresse e nullità che tali non sono”.

Più specificamente, la norma del D.Lgs. n. 23/2015 è stata di recente dichiarata incostituzionale dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 22/2024) per violazione della legge delega, limitatamente alla parola «espressamente». Ne consegue che, grazie alla recente pronuncia della Consulta, il licenziamento per motivo ritorsivo rientra senza dubbio oggi tra i casi di nullità del licenziamento che conducono alla tutela reintegratoria piena.

Sentenza 

CORTE DI CASSAZIONE  8 luglio 2024, n. 18547

Fatti di causa

La Corte d’appello di Catanzaro, con la sentenza in atti, sull’appello principale proposto da XXX e sull’appello incidentale proposto XXX srl, ha accolto l’appello principale e rigettato l’appello incidentale; ed in riforma parziale della gravata sentenza ha ordinato alla società XXX srl di reintegrare XXX nel suo posto di lavoro e di risarcirgli il danno pari ad una indennità commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento sino al giorno dell’effettiva reintegrazione, oltre accessori e contributi previdenziali e spese.

A fondamento della sentenza la Corte d’appello ha ritenuto che non soltanto il licenziamento difettasse – come ritenuto dal primo giudice – del motivo oggettivo addotto, sia sotto il profilo del dedotto costante andamento negativo del reparto di macelleria dove lavorava il lavoratore, sia dell’impossibilità del repêchage; ma altresì che la manifesta insussistenza del motivo oggettivo rivelasse l’esclusiva finalità ritorsiva del licenziamento in oggetto, in ragione del concorso con gli ulteriori elementi presuntivi che erano stati acquisiti al giudizio: a partire dalla contiguità temporale del licenziamento rispetto al rifiuto che il dipendente aveva opposto alla trasformazione del suo rapporto di lavoro in un rapporto di lavoro part-time ed alla iniziativa disciplinare che ne era conseguita da parte del datore di lavoro.

Contro la sentenza è stato proposto ricorso per cassazione da XXX Srl con tre motivi ai quali ha resistito XXX con controricorso. La ricorrente ha depositato memoria. Il collegio ha riservato la motivazione, ai sensi dell’art. 380bis1, secondo comma, ult. parte c.p.c.

Ragioni della decisione

1.- Col primo motivo di ricorso si deduce violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 41 Costituzione, dell’articolo 115 c.p.c. e degli articoli 3 e 5 legge n. 604/1966, vizio di motivazione e omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio in relazione all’articolo 360, numeri 3 e 5 c.p.c., posto che la Corte d’appello avrebbe errato nell’esame dei fatti e nell’interpretazione giurisprudenziale in tema di g.m.o., avrebbe travalicato i limiti posti al sindacato giudiziale sulle scelte datoriali entrando nel merito di tali scelte; ed inoltre non sarebbe riuscita nemmeno ad effettuare una corretta analisi dei dati che sono stati offerti dalle parti con conseguente omesso esame e/o travisamento delle prove e violazione dell’articolo 115. c.p.c. L’esame dei documenti nonché delle buste paga sarebbe stato del tutto omesso dalla Corte d’appello. L’insussistenza del gmo era frutto di un evidente travisamento della prova. L’unica situazione che il giudice doveva prendere in considerazione doveva essere quella relativa alla situazione del mese di novembre 2016 nel quale era avvenuta la cessazione dei rapporti di lavoro. L’analisi di tutti i reparti evidenziava che i ricavi del reparto macelleria non erano tali da supportare i costi costituiti dai due dipendenti assunti a tempo pieno; mentre gli altri reparti con addetto alla vendita avevano un numero di clienti praticamente doppio ciascuno; senza la necessità della contestuale presenza di due addetti in contemporanea (cioè full time). La Corte non aveva neppure considerato gli ulteriori documenti depositati, in particolare quelli che dimostravano che nello stesso mese di novembre 2016 la società datoriale avesse assunto con contratto a tempo determinato e part-time con la qualifica di aiuto macellaio una lavoratrice che poi si era dimessa, ed a seguito delle dimissioni ha fatto ricorso al lavoro occasionale attraverso voucher.

1.1.- Il motivo di ricorso è totalmente di merito rispetto ai fatti di causa, in quanto attiene alla selezione e alla valutazione delle prove e va quindi dichiarato inammissibile alla luce del corretto e motivato accertamento effettuato dalla Corte di appello in conformità alle regole processuali e sostanziali dettate in materia dall’ordinamento.

1.2. Il motivo di ricorso peraltro neppure si limita a denunciare l’omessa valutazione di un fatto storico, bensì deduce come vizio la generale valutazione dei vari elementi di prova operata dalla Corte di appello per aver la stessa affermato, contrariamente ai desiderata della ricorrente, che non esistesse alcuna crisi ossia l’asserito costante andamento negativo del reparto di macelleria, posto formalmente a fondamento del recesso.

1.3. Allo scopo la Corte di merito ha analizzato i dati di bilancio (gli importi, l’incidenza, il numero di clienti) e ne ha dedotto non solo la mancanza della crisi addotta ma persino la crescita costante del fatturato ed inoltre da lì a poco l’acquisto di un nuovo supermercato.

La Corte ha invero accertato che l’analisi mensile dell’andamento dei reparti prodotta dalla società non offriva dimostrazione del trend negativo del reparto di macelleria, ma al contrario lo confutava.

1.4. Bastava mettere a raffronto gli importi di quel reparto dei mesi di marzo-aprile con quelli dei mesi di settembre-ottobre per scorgere un trend in crescita. Tanto veniva confortato dal raffronto del dato della incidenza che nell’analisi mensile segue i dati della quantità e dell’importo. Parimenti risultava in crescita il numero dei clienti di quello stesso reparto: dai 1487 di marzo (che ad aprile aumentano a 1819) si passava infatti ai 1908 di settembre e ai 2134 di ottobre.

1.4. Tale valutazione mira ovviamente ad accertare l’esistenza dei presupposti di legittimità del licenziamento per gmo intimato al lavoratore e non è certo diretta a sindacare il potere discrezionale di gestione e di organizzazione dell’impresa come sostiene la ricorrente.

1.5. Peraltro le censure sollevate in proposito col ricorso solo formalmente denunciano plurimi errores in iudicando, anche attraverso l’improprio riferimento all’art. 115 (cfr. Cass. n. 23940 del 2017 e Cass. n. 25192 del 2016, con la giurisprudenza ivi richiamata), mentre nella sostanza criticano la sentenza impugnata per come ha valutato le prove e ricostruito, in base ad esse, l’insussistenza del gmo di licenziamento.

1.6. In proposito, occorre considerare che gli accertamenti di fatto non sono sindacabili in sede di legittimità oltre i limiti imposti dal novellato art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., così come rigorosamente interpretato dalle Sezioni unite di questa Corte con le sentenze n. 8053 e n. 8054 del 2014 (con principi costantemente ribaditi dalle stesse Sezioni unite v. n. 19881 del 2014, n. 25008 del 2014, n. 417 del 2015, oltre che dalle Sezioni semplici), di cui parte ricorrente non tiene alcun conto, pretendendo piuttosto una rivalutazione degli accadimenti storici ed una revisione del giudizio di fatto non ammissibile in questa sede.

1.7. Deve pure ribadirsi, in consonanza con l’orientamento di questa Corte (v. Cass., S.U. n. 20867 del 2020; Cass. n. 11892 del 2016; Cass. n. 25029 del 2015; Cass. n. 25216 del 2014), che la violazione dell’art. 115 c.p.c. può essere dedotta come vizio di legittimità qualora il giudice, esercitando il suo potere discrezionale nella scelta e valutazione degli elementi probatori, ometta di valutare le risultanze di cui la parte abbia esplicitamente dedotto la decisività, salvo escluderne in concreto, motivando sul punto, la rilevanza; ovvero quando egli ponga alla base della decisione fatti che erroneamente ritenga notori o la sua scienza personale.

2.- Col secondo motivo di ricorso si prospetta la violazione e/o la falsa applicazione del decreto legislativo n. 23/2015 e del decreto legislativo n. 81/2015 – in relazione all’articolo 360 numero 3 c.p.c. – per avere la Corte di appello ritenuto provata la esclusiva finalità ritorsiva del licenziamento ed accordato al lavoratore la tutela reintegratoria (a seguito del rifiuto del part time).

Sostiene la ricorrente che nel sistema delineato dalla riforma del c.d. jobs act nel 2015 con il d.lgs. 81 (art. 2, comma 1) la reintegra è considerata come la sanzione applicabile solo quando il licenziamento sia discriminatorio o negli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge, tra i quali non rientra il licenziamento intimato a seguito del rifiuto del part time, pure disciplinato dall’art. 8,1 comma del d.lgs. n. 81/2015 il quale prevede appunto che “il rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale o viceversa non costituisce giustificato motivo di licenziamento”. E pertanto la norma non commina, tanto meno espressamente, alcuna sanzione di nullità.

2.1. Il motivo è infondato e deve essere disatteso.

2.2. Va ribadito, anzitutto, che il lavoratore è stato formalmente licenziato per g.m.o. per crisi aziendale non per l’esigenza di trasformazione del contratto full time in part time.

Peraltro il motivo addotto a sostegno del recesso non faceva riferimento, nemmeno tacito o indiretto, alle esigenze di trasformazione del rapporto di lavoro sotto il profilo dell’orario (né, ovviamente, al rifiuto del part time).

2.3. La Corte d’appello non ha dichiarato la nullità per essere stato il licenziamento intimato in ragione dell’esigenza di trasformare il rapporto di lavoro a tempo pieno del XXX in rapporto a tempo parziale, ai sensi dell’articolo 8,1 comma del decreto legislativo n. 81/2015; la cui richiamata disciplina quindi non rileva affatto.

2.4. Bensì ha affermato che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in concreto intimato per crisi aziendale, fosse non solo ingiustificato ma anche ritorsivo perché esso traeva – in realtà – la propria esclusiva e determinante ragione nel rifiuto del lavoratore di trasformare il rapporto, siccome si evinceva dagli elementi di fatto messi in rilievo (la prossimità col rifiuto di trasformazione del contratto, la conseguente iniziativa disciplinare intrapresa dalla datrice di lavoro).

2.5. Chiara la differenza tra le due fattispecie.

A. Il licenziamento motivato dall’esigenza di trasformazione del part time in full time o viceversa va ritenuto ingiustificato perché adottato in violazione dell’art. 8,1 comma d.lgs. 81/2015 (sul tema v. di recente Cass. n. 30093 del 30/10/2023).

B. Il licenziamento intimato a seguito di rifiuto del part time, ancorché ammantato da altre ragioni come il g.m.o. (per asserita crisi aziendale insussistente), va invece ritenuto ritorsivo in quanto mosso dall’esclusivo e determinante fine di eludere proprio il divieto di cui all’art. 8 d.lgs. 81/2015 attraverso una ingiusta ed arbitraria reazione a un comportamento legittimo del lavoratore, che attribuisce al licenziamento il connotato della vendetta.

2.6. Non risulta pertanto violata dalla Corte di appello la normativa del decreto legislativo n. 81 del 2015; ma nemmeno l’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, in quanto la Corte di appello non ha sanzionato con la nullità un licenziamento intimato a seguito del rifiuto del part time (in quanto tale ingiustificato); ma un licenziamento per gmo motivato da inesistenti e strumentali ragioni riferite ad una crisi aziendale, cui era sotteso l’intento di reagire al legittimo rifiuto del part time.

2.7. Quanto al profilo sanzionatorio, va considerato che il licenziamento ritorsivo è un licenziamento nullo perché illecito, siccome deriva dalla disciplina testuale (ai sensi dell’art. 1345 c.c.), con la conseguenza che esso poteva essere anche ricondotto ad un caso di nullità espressamente previsto dalla legge ai sensi dell’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015.

2.8. Ogni residuo dubbio in proposito è comunque oggi destinato ad essere fugato definitivamente, posto che la norma del jobs act è stata di recente dichiarata incostituzionale dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 22/2024) per violazione della legge delega proprio limitatamente alla parola «espressamente».

Talché, grazie alla recente pronuncia della Consulta, il licenziamento per motivo ritorsivo certamente rientra oggi tra i casi di nullità del licenziamento che conducono alla tutela reintegratoria piena, come già accadeva in precedenza ed accade ancora per i casi di “vecchi lavoratori” assunti cioè nel vigore della disciplina dell’art. 18 l. n. 300/70, come modificato dalla legge c.d. Fornero n. 92/2012.

3.- Col terzo motivo si deduce la violazione o falsa applicazione dell’articolo 115 e degli articoli 2697 e 2729 c.c. in relazione all’art. 360 n. 3 e n. 5 c.p.c. perché la Corte d’appello era giunta al licenziamento ritorsivo facendo ricorso, oltre che alla declaratoria di insussistenza del giustificato motivo oggettivo, ad alcuni elementi presuntivi individuati: nella contiguità temporale del licenziamento rispetto al rifiuto del dipendente di accettare la trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale; nella iniziativa sanzionatoria collegata a tale rifiuto (la datrice aveva proceduto ad una contestazione disciplinare a cui non è seguita alcuna sanzione); nella contraddittorietà delle scelte imprenditoriali; nella mancata dimostrazione che la preventiva offerta del part-time sia stata rivolta al lavoratore in alternativa al licenziamento. L’analisi degli elementi evidenziava anche in questo caso l’omesso esame e/o il travisamento delle prove oltre alla violazione dell’art. 115 c.p.c. e dell’articolo 2697 c.c. e dell’articolo 2729 c.c. Contrariamente a quanto affermato dalla Corte non era vero che XXX Srl non avesse informato il proprio dipendente che dato l’andamento economico del reparto tale da imporne il ridimensionamento per conservare il posto di lavoro era necessario che egli accettasse una riduzione dell’orario di lavoro.

Quanto alla iniziativa sanzionatoria, intrapresa dalla datrice di lavoro con una contestazione disciplinare, tale infelice iniziativa secondo la ricorrente non giustificava il travisamento della prova compiuta dalla Corte d’appello, al contrario dimostra che la scelta imprenditrice di ridimensionare il reparto di Macelleria fosse preesistente al rifiuto del lavoratore di accettare la proposta di trasformazione.

3.1 Il motivo è inammissibile perché censura in realtà il risultato del ragionamento presuntivo, ma non la violazione delle regole e dei presupposti normativi a monte.

La lunga illustrazione del motivo non prospetta infatti la falsa applicazione dell’art. 115 o dell’art. 2729 ma si risolve solo nella prospettazione di pretese inferenze probabilistiche diverse sulla base della evocazione di emergenze istruttorie e nella prospettazione di una diversa ricostruzione della quaestio facti.

Ne segue che il motivo non presenta le caratteristiche della denuncia di un vizio di falsa applicazione dell’art. 2729, primo comma, cod. civ. e nemmeno, pur riconvertito alla stregua di Cass., Sez. Un., n. 17931 del 2013, quelle di un motivo ai sensi del n. 5 dell’art. 360 cod. proc. civ.

3.2. In ogni caso non rileva neppure il fatto che la società avesse informato in precedenza il lavoratore che la proposta di part time fosse alternativa ad un possibile licenziamento, atteso che la motivazione del licenziamento né prescinde totalmente ed adduce non la necessità di procedere alla riduzione dell’orario in mancanza di alternative, ma un costante andamento negativo del reparto macelleria che è stato accertato come insussistente.

4.- Sulla scorta di quanto esposto il ricorso deve essere quindi respinto. Il ricorso, pertanto, va conclusivamente rigettato, con l’enunciazione dei seguenti principi di diritto:

4.1.- Il licenziamento motivato dall’esigenza di trasformazione del part time in full time o viceversa va ritenuto ingiustificato alla luce dell’art. 8,1 comma d.lgs. 81/2015; mentre il licenziamento intimato a seguito del rifiuto del part time deve essere considerato ritorsivo in quanto mosso dall’esclusivo e determinante fine di eludere il divieto di cui all’art. 8 d.lgs. 81/2015 attraverso una ingiusta ed arbitraria reazione a un comportamento legittimo del lavoratore, che attribuisce al licenziamento il connotato della vendetta.

4.2.- Al licenziamento ritorsivo, in quanto riconducibile ad un caso di nullità del recesso previsto dell’art. 1345 c.c., si applica la tutela reintegratoria stabilita dall’art. 2 del d.lgs. n. 23 del 2015 dichiarato incostituzionale dalla sentenza n. 22/2024 della Corte Costituzionale.

5.- Seguono le spese processuali a carico del soccombente secondo l’art. 91 c.p.c. Sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 quater, d.P.R.115 del 2002.

P.Q.M.

La Corte respinge il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio che liquida in € 5.000,00 per compensi professionali, euro 200,00 per esborsi, 15% per spese forfettarie, oltre accessori dovuti per legge. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto.

Licenziamento ritorsivo
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: