Il licenziamento è nullo anche se il datore di lavoro conosceva la pregressa convivenza di fatto.

Nota a Cass. (ord.) 22 maggio 2024, n. 14301

Francesco Belmonte

La presunzione di nullità del licenziamento della lavoratrice per causa di matrimonio, prevista dall’art. 35 D.LGS. n. 198/2006, non è esclusa dalla pregressa convivenza more uxorio.

In tale linea si è pronunciata la Corte di Cassazione (ord. 22 maggio 2024, n. 14301), in relazione al licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato ad una lavoratrice durante il periodo di un anno dalle pubblicazioni di matrimonio.

Per l’azienda, essendo la lavoratrice impegnata in una stabile convivenza, doveva ritenersi inoperante la presunzione di nullità prevista dal predetto art. 35 al momento del recesso, attesa la comparabilità della convivenza al matrimonio.

La fattispecie in esame dà modo alla Cassazione, conformemente ai precedenti gradi di giudizio (App. Milano n. 735/2020), di richiamare alcuni principi in materia:

  • la nullità del licenziamento della donna lavoratrice a causa di matrimonio prescinde dalla considerazione della buona fede del datore di lavoro (che, come nel caso di specie, sia a conoscenza del fatto che il matrimonio intervenga in una situazione di precedente convivenza di fatto) ed è esclusivamente legato al fatto che esso cada nel periodo di un anno dalle pubblicazioni di matrimonio, se questo poi segua;
  • tale presunzione di collegamento del recesso con il matrimonio può evincersi, secondo il co. 5 del citato art. 35, unicamente in tre ipotesi: colpa grave della lavoratrice, costituente giusta causa di licenziamento, cessazione dell’attività aziendale e scadenza del termine direttamente o indirettamente apposto al contratto di lavoro;
  • nella fattispecie in esame, come negli altri casi di nullità del licenziamento, la tutela reintegratoria c.d. “forte” esclude, sul piano risarcitorio, la detrazione dell’”aliunde percepiendum” (Cass. n. 1602/2023);
  • siffatta disciplina protettiva della donna non discrimina gli uomini lavoratori, perché la diversità di trattamento non è giustificata dal genere, ma dalla realtà sociale che rende necessarie misure di protezione inutili per gli uomini (Corte cost. nn. 61/91 e 27/69; Cass. nn. 15515/2019; Cass. n. 28926/2018, in q. sito con nota di F. BELMONTE e n. 31824/2018).

Sentenza

CORTE DI CASSAZIONE (ORD.) 22 maggio 2024, n. 14301

Fatto
1. Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte d’appello di Milano, accogliendo parzialmente l’appello proposto dalla (OMISSIS) s.p.a. contro la sentenza del Tribunale della medesima sede n. 693/2020, in parziale riforma di quest’ultima, condannava detta società al pagamento dell’indennità risarcitoria nella misura indicata nella sentenza di primo grado, detratto quanto versato a titolo di indennità sostitutiva del preavviso; confermava nel resto tale decisione, la quale aveva dichiarato la nullità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato a C.D. con lettera del 4 giugno 2019 da detta società e aveva condannato quest’ultima a reintegrare la lavoratrice nel posto di lavoro e a risarcirle il danno subito mediante il pagamento di un’indennità commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, pari ad € 6.083,34 mensili, per il periodo dal 4 giugno 2019 alla effettiva reintegrazione, oltre accessori di legge, ed al versamento della contribuzione previdenziale ed assistenziale per il medesimo periodo.

2. Per quanto qui interessa, la Corte territoriale, nel disattendere i primi due motivi di gravame, relativi alla nullità del licenziamento per cui è causa ed alle conseguenze di tale nullità, osservava che non era mai stato in contestazione tra le parti che la lettera di licenziamento del 4 giugno 2019 era stata inviata alla C.D. dopo che quest’ultima, in data 11 marzo 2019, aveva informato l’ufficio del personale ed il proprio diretto superiore della circostanza che avrebbe contratto matrimonio il successivo 30 giugno 2019, e che le pubblicazioni di matrimonio erano state effettuate dal 12 al 20 marzo 2019.
2.1. Ciò premesso, riteneva l’irrilevanza delle considerazioni svolte nell’atto di appello per ricavare l’assenza di discriminazione nei confronti della lavoratrice per essere la stessa stata assunta quando era già convivente così che della sua “possibile fecondità non si poteva dubitare”.

3. La stessa Corte, nel ritenere infondato il terzo motivo d’impugnazione, premetteva che certamente la proposta del 17 febbraio 2020, definita dall’allora appellante in termini di proposta di revoca del licenziamento, non poteva valere appunto come revoca del recesso già intimato.

3.1. Considerava, quindi, che l’argomentazione della difesa della società, in tale censura, tralasciava un elemento decisivo sotto un duplice profilo. Da un lato, infatti, ponendosi al di fuori dell’ambito di applicabilità dell’art. 5 d.lgs. n. 23/2015, tale offerta non poteva determinare di per sé la ricostituzione del rapporto di lavoro, con le relative conseguenze sul piano della cessazione degli effetti conseguenti alla nullità del recesso a suo tempo intimato, essendo a quel fine necessaria la manifestazione di volontà in tal senso del lavoratore; dall’altro, neppure poteva incidere sotto il profilo dell’art. 1227 c.c., dal momento che altrimenti verrebbe pregiudicata l’autonomia negoziale delle parti.
4. Rilevava ancora la Corte che, contrariamente a quanto sostenuto dalla società nel quarto motivo di gravame, la giurisprudenza di legittimità è consolidata nel ritenere che nel concetto di aliunde perceptum non rientri qualsiasi reddito percepito, ma solo quelli conseguiti attraverso l’utilizzo delle capacità lavorative dell’interessato, cosicché ne sono escluse tutte le erogazioni che traggono origine dal sistema di sicurezza sociale che appronta misure sostitutive del reddito in favore del lavoratore, la cui eventuale non debenza, per esempio nell’ipotesi di reintegrazione del soggetto che ne usufruisce, dà luogo ad un indebito previdenziale, ripetibile nei limiti di legge.

4. In definitiva, la Corte di merito riteneva privi di fondamento anche gli ulteriori punti di censura, fatta eccezione per quello relativo alla questione della compensazione c.d. atecnica dell’indennità liquidata a titolo risarcitorio dal primo giudice con l’indennità sostitutiva del preavviso.

5. Avverso tale decisione la (OMISSIS) s.p.a. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi.

6. Ha resistito l’intimata con controricorso.

7. La ricorrente ha depositato memoria.

Diritto

1.Con il primo motivo la ricorrente denuncia: “Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 35 del d.lgs. n. 198/2006 (c.d. Codice delle pari opportunità) e dell’art. 2 del d.lgs. n. 23/2015, in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c.”, per avere errato la sentenza di secondo grado, nel confermare la dichiarazione di nullità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo adottato nei confronti della lavoratrice nel giugno del 2019, in quanto, essendo la lavoratrice medesima impegnata in un rapporto di stabile convivenza – quanto meno – sin dal marzo 2018 (allorquando, sulla base della scheda professionale fornita a scopo di assunzione, ove tale stato di convivenza ella stessa dichiarato, la (OMISSIS) la ha assunta), doveva ritenersi inoperante, al momento del licenziamento, la presunzione di nullità prevista dall’art. 35 del d.lgs. n. 198/2006, atteso che la comparabilità di convivenza more uxorio e matrimonio era ormai portato consolidato della giurisprudenza pratica, teorica, nonché di una serie considerevole di disposizioni legislative sia interne, sia comunitarie e che, pertanto, l’unico interesse, generale, tutelato dalla norma non è stato in concreto violato.

2. Con un secondo motivo denuncia: “violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1227, comma 2, nonché 1175 e 1176 c.c., in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c.”, per avere errato la sentenza di secondo grado, nel confermare la reiezione della richiesta di limitazione dei danni per il licenziamento dichiarato nullo fino alla data della lettera aziendale del 17.02.2020, con la quale la (OMISSIS), senza pretendere dalla lavoratrice alcuna rinuncia ai diritti rivendicati in giudizio in relazione alla dedotta invalidità del licenziamento, offriva alla stessa immediata nuova occasione di lavoro presente in azienda (peraltro, a condizioni economiche e normative pari a quelle della funzione precedentemente svolta); infatti, il rifiuto, immotivato e pretestuoso, opposto dalla lavoratrice alla ridetta offerta costituisce comportamento contrario all’ordinaria diligenza che, ai sensi dell’art. 1227, comma 2, c.c., esclude il diritto al risarcimento dei danni che, con l’accettazione, avrebbero altrimenti potuto (rectius, dovuto) essere evitati.

3. Con un terzo motivo denuncia: “violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1223 c.c. e dell’art. 2, comma 2, del d.lgs. n. 23/2015 nonché dell’art. 74 della L. n. 833/1978, dell’art. 1, comma 6, del d.lgs. n. 663/1979, conv. con modif. in L. n. 33/1980, degli artt. 22 e 23 del d.lgs. n. 151/2001 e dell’art. 197 CCNL Terziario Confcommercio e, ancora, dell’art. 25, comma 2, del d.lgs. n. 151/2001 e dell’art. 8 della L. n. 155/1981, in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., per avere errato la sentenza di secondo grado, nel confermare che il risarcimento del danno disposto a carico della (OMISSIS) per la nullità del licenziamento dovesse cumularsi con l’indennità per congedo di maternità, in quanto: A) è stato riconosciuto alla sig.ra C.D., in violazione dell’art. 1223 c.c. nonché dell’art. 2, comma 2, del d.lgs. n. 23/2015, il risarcimento di danni che non ha subito; la lavoratrice, infatti, per i medesimi periodi non lavorati, ha percepito – per la stessa causa, ossia, la mancata prestazione lavorativa – sia l’indennità per congedo di maternità da parte dell’INPS (la quale non è suscettibile di venir meno per via della dichiarazione di invalidità del licenziamento e, dunque, resta stabilmente acquisita dalla lavoratrice), sia la retribuzione cui è stata condannata la (OMISSIS), entrambe svolgenti analoga funzione; B) è stato attribuito alla (OMISSIS) medesima, in violazione dell’art. 74 della L. n. 833/1978 e dell’art. 1, comma 6, del d.l. n. 663/1979, conv. con modif. in L. 33/1980, un obbligo – quale quello di provvedere al pagamento del trattamento economico durante il periodo di congedo di maternità della lavoratrice – che le succitate disposizioni, invece, pongono inderogabilmente a carico dell’INPS e che, nel caso di specie, ai sensi di quanto previsto dagli artt. 22 e 23 del d.lgs. n. 151/2001, dell’art. 197 del CCNL Terziario, il datore di lavoro non doveva neppure integrare, con conseguente ingiustificato arricchimento dell’istituto previdenziale.

4. Il primo motivo non è fondato.

5. Giova premettere che questa Corte di legittimità ha ritenuto che, in tema di divieto di licenziamento per causa di matrimonio, la limitazione alle sole lavoratrici della nullità prevista dall’art. 35 del d.lgs. n. 198 del 2006 non ha natura discriminatoria, in quanto la diversità di trattamento non trova giustificazione nel genere del soggetto che presta l’attività lavorativa, ma è coerente con la realtà sociale, che ha reso necessarie misure legislative volte a garantire alla donna la possibilità di coniugare il diritto al lavoro con la propria vita coniugale e familiare, ed è fondata su una pluralità di principi costituzionali posti a tutela dei diritti della donna lavoratrice (così Cass., sez. lav., 12.11.2018, n. 28926).
5.1. In particolare, nell’ora richiamata sentenza, dopo la ricostruzione del quadro normativo anche in chiave storica, sulla scorta delle sentenze della Corte costituzionale n. 27/1969 e n. 61/1991 in subjecta materia, si è considerato che la tutela accordata alle lavoratrici contraenti matrimonio è apparsa sorretta da ragioni coerenti con la realtà sociale e fondate su una pluralità di principi costituzionali (art. 2 Cost, di garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo, fra i quali la libertà di contrarre matrimonio; art. 3, comma 2, Cost., di realizzazione del principio di uguaglianza sostanziale attraverso la rimozione di ogni ostacolo, anche di fatto, al pieno sviluppo della persona umana; art. 31 Cost., di agevolazione, quale compito della Repubblica, di formazione della famiglia attraverso l’eliminazione di ogni ostacolo, anche indiretto; art. 37 Cost., di fissazione di condizioni di lavoro per la donna compatibili con l’adempimento della sua funzione familiare, sull’evidente presupposto della sua libertà di diventare sposa e madre; art. 4 Cost., di proclamazione del diritto al lavoro tra i principi fondamentali della Repubblica e art. 35, comma 1, Cost., di tutela del lavoro, in testa al titolo terzo relativo ai rapporti economici, in coerenza con l’art. 1 Cost., ben giustificanti misure legislative intese a consentire alla donna di poter coniugare il legittimo diritto al lavoro con la propria vita coniugale e familiare).
5.2. Nella medesima decisione, inoltre, la previsione normativa specifica di cui all’art. 35 d.lgs. n. 198/2006 è stata reputata certamente non in contrasto con la normativa antidiscriminatoria europea (ma v. in proposito nella motivazione anche Cass. n. 31824/2018), richiamandosi a riguardo anche due decisioni della CEDU.
5.3. Si è, inoltre, osservato che nell’ordinamento interno, proprio in ragione della costitutiva differenza della persona umana e della sua diversa vocazione generativa e relazionale nell’ambito familiare, costituzionalmente tutelata (art. 29 Cost., comma 1, e art. 31 Cost., comma 2), è apprestata, sotto il profilo assistenziale, dalla normativa relativa al congedo di maternità (d.lgs. n. 151 del 2001, art. 16 e ss.), una più forte tutela prioritaria (la cui inosservanza è sanzionata anche penalmente, a differenza che per il congedo di paternità dall’art. 18 d.lgs. cit.).

5.4. A tale indirizzo è stata data continuità con successive decisioni di questa Corte (Cass. n. 15515/2019 e n. 31824/2018).

6. Ciò premesso, l’art. 35 d.lgs. n. 198/2006, sotto la rubrica “Divieto di licenziamento per causa di matrimonio (legge 9 gennaio 1963, n. 7, articoli 1, 2 e 6)”, per quanto qui interessa, al comma 2 ha sancito anzitutto la nullità dei “licenziamenti attuati a causa di matrimonio”. A riguardo il seguente comma 3 recita: “Salvo quanto previsto dal comma 5, si presume che il licenziamento della dipendente nel periodo intercorrente dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio, in quanto segua la celebrazione, a un anno dopo la celebrazione stessa, sia stato disposto per causa di matrimonio”.
Trattasi di presunzione legale, sebbene relativa, in quanto il comma 5 consente al datore di lavoro “di provare che il licenziamento della lavoratrice, avvenuto nel periodo di cui al comma 3, è stato effettuato non a causa di matrimonio, ma per una” delle tre ipotesi ivi specificate alle lett. a), b) e c).

Dunque, soltanto a tali strette condizioni, normativamente delineate, è consentita al datore di lavoro la prova contraria alla presunzione legale che il licenziamento della lavoratrice, intervenuto nell’arco temporale suddetto, sia stato disposto per causa di matrimonio.
7. Tanto considerato, rispetto alla tesi riproposta dalla ricorrente nel primo motivo resta anzitutto condivisibile quanto già osservato dalla Corte di merito, secondo la quale “nella fattispecie – ovvero il recesso per causa di matrimonio – ciò che rileva non è l’intento – discriminatorio o meno – del datore di lavoro, bensì il dato oggettivo che il licenziamento è avvenuto nel periodo di un anno dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio cui è seguita la celebrazione dello stesso, dato oggettivo che non è contestato”.
Invero, secondo quanto testé osservato è ben delimitata l’area entro la quale è data facoltà di provare al datore di lavoro che il licenziamento della lavoratrice avvenuto nel ridetto periodo di cui al comma 3 dell’art. 35 cit. è stato intimato non per discriminare la lavoratrice (come assume la ricorrente), bensì “non a causa di matrimonio”. E coerentemente solo le tre ipotesi ben precise, descritte dal legislatore delegato, sono idonee a superare la presunzione legale del ricorrere di quest’ultima specifica causale del licenziamento. Secondo la norma, l’eventuale prova contraria da fornirsi, quindi, non concerne l’assenza in via di fatto di un intento datoriale di discriminare la lavoratrice in quanto nubenda o contraente matrimonio.

8. Né può apprezzarsi l’argomento della società ricorrente, secondo il quale, in caso di pregressa convivenza more uxorio della lavoratrice con la medesima persona che poi ne diventi coniuge, l’interesse tutelato dalla norma non sarebbe in concreto violato.
8.1. Per quanto s’è detto in precedenza, infatti, il complesso delle previsioni attualmente contenute nell’art. 35 d.lgs. n. 198/2006 (in cui sono confluite le disposizioni di cui agli artt. 1,2 e 6 della previgente L. n. 7/1963), non a caso inserito proprio nel “Codice delle pari opportunità tra uomo e donna”, è tuttora coerente con la realtà sociale, che ha reso necessarie misure legislative volte a garantire alla donna la possibilità di coniugare il diritto al lavoro con la propria vita coniugale e familiare, ed è fondata su una pluralità di principi costituzionali posti a tutela della donna lavoratrice, sopra esposti, e non solo quale potenziale genitrice.

8.2. In ogni caso, la trama normativa sopra esaminata, una volta che il licenziamento sia intervenuto nel periodo ivi previsto, non permette indagini volte a controllare se gli interessi tutelati non sarebbero stati in concreto vulnerati nel senso sostenuto dalla società ricorrente per cassazione.

Esclusivamente se il datore di lavoro provi le tassative ipotesi normativamente delineate nel comma 5 dell’art. 35 cit. (e cioè: “a) colpa grave da parte della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro; b) cessazione dell’attività dell’azienda cui essa è addetta; c) ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o di risoluzione del rapporto di lavoro per la scadenza del termine”), il licenziamento intimato nel ridetto periodo potrà essere reputato non a causa di matrimonio.
8.3. Incensurabilmente, perciò, la Corte distrettuale ha approvato la scelta del Tribunale di non approfondire dal punto di vista istruttorio la vicenda di riorganizzazione aziendale, allegata dalla società datrice di lavoro quale giustificato motivo oggettivo del recesso. Ha osservato, infatti, che si sarebbe trattato appunto di una ristrutturazione, irrilevante ai fini che interessavano in causa, e non di una cessazione dell’attività aziendale, integrale o parziale (cfr. in extenso pagg. 9-10 della sua sentenza).

9. Parimenti infondato è il secondo motivo.

10. Difatti, nel caso di specie non può comunque trovare applicazione l’art. 1227, comma secondo, c.c., ossia, la norma di cui la ricorrente lamenta principalmente la violazione.

11. In proposito, occorre porre in luce che – trattandosi di licenziamento dichiarato nullo, ed avendo la Corte di merito accertato che la lavoratrice era stata assunta dopo il 7.3.2015, data di entrata in vigore del d.lgs. n. 23/2015 (recante “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti”) (cfr. pag. 11 della sua sentenza) -, era applicabile ratione temporis l’art. 2, comma 2, di tale decreto; esso recita: “Con la pronuncia di cui al comma 1, il giudice condanna altresì il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata la nullità e l’inefficacia, stabilendo a tal fine un’indennità commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative. In ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto. Il datore di lavoro è condannato, altresì, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali”.

Nota allora il Collegio che, salva la sostituzione della nozione di “ultima retribuzione globale di fatto” con quella di “ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto”, si è in presenza di disposizione pressoché identica a quella di cui all’art. 18, comma secondo, L. n. 300/1970 novellato per l’indennità risarcitoria ivi prevista sempre per il caso di sentenza che dichiari la nullità del licenziamento, ai sensi del comma 1 dello stesso articolo 18.

E questa Corte ha ritenuto che, nell’ipotesi di licenziamento illegittimo, cui consegua la tutela reintegratoria c.d. “piena” di cui all’art. 18, comma 1, St. lav. riformulato – che opera quale regime speciale concernente la materia dei licenziamenti individuali – non trova applicazione la detrazione dell’aliunde percepiendum in quanto il comma 2 dell’articolo citato dispone che nella predetta ipotesi dal risarcimento vada dedotto esclusivamente quanto dal lavoratore percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative e non anche quanto il lavoratore “avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione”, come previsto, invece, dal successivo comma 4 in materia di tutela reintegratoria c.d. “attenuata” (così Cass., sez. lav., 19.1.2023, n. 1602).

11.1. Ebbene, ritiene il Collegio che il medesimo principio di diritto debba indubbiamente valere rispetto all’indennità risarcitoria disciplinata dall’art. 2, comma 2, d.lgs. n. 23/2015.

Invero, anche tale più recente previsione, al pari di quella dell’art. 18, comma secondo, L. n. 300/1970 come novellato, non contempla la detrazione dell’aliunde percipiendum sotto la specifica forma della deduzione di quanto il lavoratore “avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro, ai sensi dell’articolo 4, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 21 aprile 2000, n. 181, e successive modificazioni”; deduzione, quest’ultima, piuttosto prevista dall’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23/2015 esclusivamente nell’ambito della disciplina di tutela per le ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore.

Per tali dirimenti ragioni in punto di diritto, quindi, non poteva nella specie operare la detrazione dell’aliunde percipiendum che la società ricorrente profila ai sensi dell’art. 1227, comma secondo, c.c., sull’assunto che la lavoratrice avrebbe potuto (o dovuto) accettare l’occasione di lavoro offertale dalla stessa datrice di lavoro dopo il licenziamento.

12. è infine infondato il terzo motivo.

13. Tale censura presenta un profilo d’inammissibilità per la parte in cui, pur essendo formulata esclusivamente in termini di violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360, comma primo, n. 3), c.p.c., si fonda su un accertamento fattuale non operato dai giudici di merito.

13.1. In particolare, la ricorrente assume che la lavoratrice aveva percepito somme “a titolo di indennità per congedo di maternità, anche anticipata, a carico dell’INPS”, e che “La percezione dell’indennità di maternità da parte della sig.ra C.D. è circostanza acquisita agli atti del giudizio sin dal primo grado, per altro per stessa iniziativa della lavoratrice” (cfr. in extenso pagg. 29-30 del ricorso).

13.2. Tali dati fattuali, tuttavia, non sono stati accertati dalla Corte territoriale, la quale, nel disattendere anche il quarto motivo d’appello nei termini già anticipati in narrativa, ha piuttosto affrontato la questione in punto di diritto, facendo riferimento alla giurisprudenza di legittimità richiamata.

14. In ogni caso, le deduzioni della ricorrente anche su questo aspetto sono giuridicamente errate.

14.1. Secondo un consolidato orientamento di questa Corte, infatti, non sono deducibili a titolo di aliunde perceptum dal risarcimento del danno le somme che traggono origine dal sistema di sicurezza sociale che appronta misure sostitutive del reddito in favore del lavoratore, la cui eventuale non debenza dà luogo ad un indebito previdenziale ripetibile, nei limiti di legge, dall’istituto previdenziale (Cass., sez. lav., 5.3.2020, n. 6369). E, nell’ambito specifico della disciplina di tutela per l’illegittimità del licenziamento, si è affermato che a titolo di aliunde perceptum rilevano solo i redditi conseguiti attraverso l’impiego della medesima capacità lavorativa, nella qualità di incrementi patrimoniali del danneggiato valutabili quali conseguenza immediata e diretta del licenziamento stesso e quindi rilevanti in termini di compensatio lucri cum damno (cfr. Cass., sez. lav., 31.10.2022, n. 32130; id., 19.6.2018, n. 16136). Prestazioni pensionistiche o di natura previdenziale, quali indennità di mobilità o di disoccupazione, se percepite dal lavoratore, si pongono, invece, su un piano diverso dagli incrementi patrimoniali che possono derivare al dipendente per effetto del licenziamento quando però impieghi altrimenti la propria capacità lavorativa, e la loro eventuale non spettanza può dar luogo solo ad un indebito previdenziale, ripetibile nei limiti di legge (v. anche Cass., sez. lav., 15.5.2018, n. 11835; id., 27.3.2017, n. 7794).

Tali principi di diritto, enunciati essenzialmente in relazione alla disciplina dell’art. 18 L. n. 300/1970 sia nella sua originaria formulazione che in quelle nel tempo derivate dalle sue successive modificazioni, sono destinati a valere anche, per quanto qui interessa, circa la tutela risarcitoria ex art. 2, comma 2, d.lgs. n. 23/2015, nella specie da applicare.

Come si è visto, difatti, nell’esaminare il secondo motivo di ricorso, pure tale norma prende in considerazione, ai fini dell’aliunde perceptum, esclusivamente “quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative”, e non anche in virtù di prestazioni di natura previdenziale, quale, nella specie solo in ipotesi, l’indennità di maternità.
15. La ricorrente, in quanto soccombente, dev’essere condannata al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, ed è tenuta al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese di questo giudizio di legittimità, che liquida in € 200,00 per esborsi e in € 5.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso forfetario delle spese generali nella misura del 15%, IVA e CAP come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Licenziamento della lavoratrice a causa di matrimonio
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