Il licenziamento per superamento del periodo di conservazione del posto intimato dal datore di lavoro inducendo in errore il dipendente sul numero di assenze effettuate è illegittimo.
Nota a Cass. (ord.) 8 agosto 2024, n. 22455
Sonia Gioia
Il provvedimento espulsivo irrogato al prestatore per superamento del periodo di comporto è illegittimo, con conseguente diritto alla reintegrazione sul luogo di lavoro, laddove risulti che la società datrice abbia ragionevolmente indotto il dipendente a ritenere, sulla base dei prospetti presenza allegati alle buste paga, di aver accumulato un numero di giornate di assenza per malattia ben inferiore rispetto al dato reale.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione (ord.) 8 agosto 2024, n. 22455 (conforme ad App. Roma, n. 3417/2021), in relazione ad una fattispecie concernente un dipendente che lamentava l’illegittimità del recesso per superamento del periodo di conservazione del posto di impiego in quanto, in ragione dei prospetti presenza allegati alle buste paga, era stato indotto a credere di avere effettuato un numero di giorni di assenza per malattia di gran lunga inferiore a quelle conteggiate nella lettera di licenziamento.
Al riguardo, la Cassazione, in conformità con l’orientamento giurisprudenziale maggioritario, ha rilevato che l’imprenditore, salvo che la contrattazione collettiva non contenga una “espressa” previsione in tal senso, “non ha alcun obbligo di preavvertire il lavoratore dell’imminente superamento del periodo di comporto”.
Tuttavia, in caso di erronea indicazione delle assenze nei prospetti presenza allegati alle buste paga, un tale adempimento si rende necessario per correggere le indicazioni “erronee e fuorvianti” che lo stesso datore di lavoro ha fornito al dipendente e, di conseguenza, per eliminare quel ragionevole affidamento ingenerato nel lavoratore dalla precedente e reiterata condotta datoriale.
Pertanto, il licenziamento intimato per superamento del periodo di conservazione del posto di impiego, ai sensi dell’art. 2110, co. 2, c.c., è illegittimo, con conseguente diritto alla reintegrazione sul luogo di lavoro, laddove risulti che la società datrice abbia indotto in errore il dipendente conteggiando nelle buste paga un numero di assenze per malattia inferiore rispetto al reale.
La circostanza che il prestatore possa verificare autonomamente il numero effettivo di assenze per malattia, eventualmente accedendo al portale web di un istituto previdenziale – che non è il datore di lavoro – non è sufficiente ad escludere il carattere illegittimo del recesso dal momento che la condotta dell’imprenditore che fornisca indicazioni erronee e fuorvianti ai propri dipendenti integra una violazione dei doveri generali di buona fede e correttezza (artt. 1175 e 1375 c.c.).
In attuazione di tali principi, la Cassazione ha confermato la pronuncia di merito che aveva dichiarato l’illegittimità del recesso per superamento del periodo di conservazione del posto per avere la società datrice (Alitalia – SAI spa in amministrazione straordinaria), in violazione dei canoni della correttezza e buona fede, indotto il dipendente in errore sull’effettivo numero di assenze per malattia (indicando nei prospetti allegati alle buste paga soli 241 giorni di assenza a fronte dei 371 reali), ritenendo irrilevante la circostanza che il prestatore avrebbe comunque potuto verificare le giornate di assenza autonomamente accedendo al portale web dell’INPS.
Sentenza
CORTE DI CASSAZIONE ORDINANZA 8 agosto 2024, n. 22455
Svolgimento del processo
1.Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte d’Appello di Roma accoglieva il reclamo proposto da A.A. contro la sentenza del Tribunale di Civitavecchia che aveva respinto la sua opposizione all’ordinanza del medesimo Tribunale che, nella fase sommaria del procedimento ex lege n. 92/2012, pure aveva rigettato le domande dell’attore, ex dipendente di Alitalia – SAI Spa in amministrazione straordinaria, licenziato in data 12.10.2017 per superamento del periodo di comporto; domande volte ad ottenere l’accertamento dell’illegittimità del licenziamento, con conseguenti annullamento del provvedimento, reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e condanna della società al risarcimento dei danni in misura pari alle mensilità di retribuzione maturate sino alla data di effettiva riammissione in servizio, nel rispetto del limite massimo di dodici mensilità; la Corte in particolare, in riforma dell’impugnata sentenza, dichiarava illegittimo tale licenziamento e lo annullava; ordinava alla società suddetta di procedere all’immediata reintegrazione del reclamante nel posto di lavoro, con adibizione alle stesse mansioni svolte all’atto del licenziamento o ad altre equivalenti; dichiarava che il ricorrente aveva diritto al risarcimento dei danni, che liquidava in misura pari a dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto percepita, oltre interessi e rivalutazione dalla data del licenziamento al saldo, nonché al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali maturati sulle somme erogate a titolo risarcitorio, ma dichiarava improcedibile la relativa domanda di condanna (attesa la sottoposizione della società reclamata alla procedura dell’amministrazione straordinaria).
2. Per quanto qui interessa, la Corte territoriale, ritenuti inammissibile il secondo motivo di reclamo e infondato il terzo, giudicava, invece, fondato il primo motivo, con il quale il A.A. aveva censurato la sentenza di primo grado per avere il Tribunale ritenuto che la società non avesse alcun obbligo di preavvertire il lavoratore dell’imminente superamento del periodo di comporto, pur avendo ingenerato nel medesimo un incolpevole affidamento, indicando nei prospetti presenze allegati alle buste paga un numero di assenze per malattia di gran lunga inferiore a quelle conteggiate nella lettera di licenziamento.
3. Avverso tale decisione l’Alitalia – SAI Spa in amministrazione straordinaria ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi.
4. L’intimato ha resistito con controricorso.
5. Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Motivi della decisione
1.Con il primo motivo la ricorrente denuncia “Violazione e falsa applicazione degli artt. 132, comma 2, n. 4 c.p.c. e 118, comma 1, disp. att. c.p.c. per omessa motivazione sul passaggio in giudicato dell’accertamento operato dal Giudice della fase di merito avente ad oggetto l’assenza nei giorni di cui alla comunicazione di licenziamento (con riferimento all’art. 360, n. 4, c.p.c.)”.
2. Con un secondo motivo denuncia “Violazione e falsa applicazione degli artt. 132, comma 2, n. 4 c.p.c. e 118, comma 1, disp. att. c.p.c. per genericità della motivazione in relazione alla violazione e falsa applicazione degli artt. 1175 e 1375 c.c. per avere ritenuto il comportamento di Alitalia SAI in a.s. contrario a buona fede e correttezza (con riferimento all’art. 360 n. 3, c.p.c.)”.
3. I così riassunti motivi, che possono essere congiuntamente esaminati per connessione, sono inammissibili.
4. Rileva il Collegio che in entrambi i motivi sono denunciate anomalie motivazionali, pur se nel primo motivo l’ “omessa motivazione” di cui ci si duole è fatta valere ex art. 360, comma primo, n. 4), c.p.c., mentre nel secondo motivo la profilata “genericità della motivazione” è dedotta con il differente mezzo di cui all’art. 360, comma primo, n. 3), c.p.c.; e rileva ancora il Collegio che in tutte e due le censure non è comunque sostenuta la “nullità della sentenza” per i prospettati errores in procedendo.
6. Inoltre, nel primo motivo la ricorrente imputa alla Corte d’Appello di aver “del tutto omesso di considerare che il Tribunale di Civitavecchia, a definizione della fase di merito, aveva rilevato che “Sono stati accertati nell’ordinanza conclusiva della prima fase – e non sono stati oggetto di opposizione – l’effettività dell’assenza per malattia del ricorrente nelle giornate indicate nella missiva datoriale e la tempestività della comunicazione di recesso””. Secondo la ricorrente, infatti, “Su tale capo non impugnato dal lavoratore allora reclamante, si era evidentemente formato giudicato interno che, però, non è stato tenuto in alcuna considerazione da parte del Giudice del reclamo”.
7. In primo luogo, è stato, anche di recente, ribadito da questa Corte il principio, secondo cui ai fini della selezione delle questioni di fatto o di diritto suscettibili di giudicato interno necessita riferirsi all’unità minima suscettibile di acquisire la stabilità del giudicato, che è costituita dalla sequenza logica fatto-norma-effetto giuridico. Ciò in quanto, ciascun elemento di tale sequenza può essere indipendentemente investito di censura in appello, e considerando anche che l’impugnativa motivata in ordine anche ad uno solo di essi riapre per intero l’esame di tale minima statuizione, consentendo al giudice dell’impugnazione di riconsiderarla tanto in punto di diritto (individuando una diversa norma sotto cui sussumere il fatto o fornendone una differente esegesi), quanto in punto di fatto, attraverso una nuova valutazione degli elementi probatori acquisiti (così, tra le più recenti, Cass. civ., sez. lav., sent. 28.6.2023, n. 18417, e ivi in motivazione i precedenti in senso conforme).
8. Ebbene, i due aspetti che la ricorrente assume coperti da giudicato interno, ossia l’effettività dell’assenza per malattia del ricorrente nelle giornate indicate nella missiva datoriale e la tempestività della comunicazione di recesso, non corrispondono allo schema testé indicato di unità minima decisionale, costituita dalla sequenza logica fatto-norma-effetto giuridico.
Trattasi, invero, di profili relativi ad accertamenti meramente fattuali, che, pertanto, nella sentenza di primo grado venivano appunto dati per accertati nella fase sommaria, ma non “decisi” in base ad una determinata norma con il conseguente effetto giuridico.
9. Nella rubrica del motivo in esame, infatti, è denunciata un'”omessa motivazione” sul punto suddetto, così sembrando riferirsi ad un’assenza totale, anche grafica, di motivazione a riguardo.
Nello sviluppo della stessa censura, invece, si assume che la motivazione resa nell’unico passo preso in considerazione (cfr. pag. 16 del ricorso), in quanto “del tutto generica”, “palesa una c.d. motivazione apparente”.
9.1. In ogni caso, non considera anzitutto la ricorrente che la Corte territoriale aveva dato conto che già il Tribunale, nella sentenza resa in sede d’opposizione, aveva rilevato che erano “stati accertati nell’ordinanza conclusiva della prima fase – e non (erano) stati oggetto di opposizione – l’effettività dell’assenza per malattia del ricorrente nelle giornate indicate nella missiva datoriale e la tempestività della comunicazione di recesso” (così alla fine di pag. 4 della sentenza qui impugnata).
9.2. Inoltre, nel passo motivazionale che la ricorrente giudica generico (e, cioè: “Pertanto, la società non è stata in grado di spiegare perché mai a fronte di 371 giorni di assenza per malattia, nei prospetti presenze ne sono stati indicati soltanto 241”), la Corte distrettuale non ha assolutamente posto in discussione “l’effettività dell’assenza per malattia del ricorrente nelle giornate indicate” dalla datrice di lavoro per porre fine al rapporto di lavoro.
Per vero, la ratio decidendi della Corte di merito a riguardo, diffusamente illustrata (cfr. pagg. 6-9 della sua sentenza), e in cui è dato per acquisito tale profilo fattuale, s’incentra piuttosto sull’assunto “che sulla base dei prospetti presenza allegati alle buste paga consegnate al datore di lavoro il ricorrente è stato ragionevolmente indotto a ritenere di avere accumulato un numero di giorni di assenza per malattia di gran lunga inferiore al reale. È certamente vero che egli avrebbe sempre potuto verificare autonomamente il numero effettivo di assenze per malattia, eventualmente accedendo al portale web dell’Inps, ma è anche vero che il comportamento posto in essere dal datore di lavoro, il quale ha fornito indicazioni fuorvianti al lavoratore, non può essere considerato conforme a buona fede e correttezza”.
10. Circa il secondo motivo, giova ricordare che la riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c., disposta dall’art. 54 D.L. 22 giugno 2012, n. 83, conv., con modificazioni, in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione; pertanto, è denunciabile in Cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali; tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (così, per tutte, Cass., sez. un., 22.9.2014, n. 19881; id., sez. un., 7.4.2014, n. 8053).
Orbene, l’addebito di “genericità della motivazione”, indicato nella rubrica di tale motivo, è esso generico, non essendo ricondotto dalla stessa ricorrente a nessuna delle tassative ipotesi di anomalie motivazionali denunciabili attualmente con ricorso per cassazione.
Del resto, la stessa ricorrente nel corpo del secondo motivo riporta pressoché integralmente l’estesa parte di motivazione che censura (cfr. pagg. 17-20 del ricorso), il che appare eloquente e sarebbe di per sé sufficiente a smentire la pretesa genericità motivazionale.
11.1. Sempre nello sviluppo della censura, la ricorrente adombra, altresì, una “contraddittorietà”, che giudica “più palese laddove la stessa Corte dapprima afferma, peraltro accedendo alla tesi di Alitalia SAI in a.s., che il lavoratore ben avrebbe potuto verificare i giorni di assenze sul portale del sito INPS, per poi invece giungere ad affermare che SAI avrebbe violato gli obblighi di correttezza e buona fede”.
11.2. Alcun “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili”, tuttavia, è così dedotto perché la Corte territoriale, nel passo motivazionale che intende censurare la ricorrente, già sopra riportato nell’esaminare il primo motivo, ha posto in luce che, se è vero che il lavoratore avrebbe sempre potuto verificare autonomamente il numero effettivo di assenze per malattia, eventualmente accedendo al portale web di un istituto previdenziale che non è il datore di lavoro, era anche vero che il comportamento posto in essere dal datore di lavoro (che la Corte ha diffusamente e in dettaglio accertato: cfr. la rassegna comparativa a pag. 7 della sua sentenza), vale a dire, da parte del rapporto contrattuale di lavoro rilevante in causa, nel fornire indicazioni fuorvianti al lavoratore, non poteva essere considerato conforme a buona fede e correttezza.
12. Non è affatto vero, inoltre, che la Corte d’Appello avrebbe “del tutto ignorato” che “le nuove modalità di certificazione telematica della malattia prevedono che l’INPS, attraverso il portale web renda disponibili, sia ai lavoratori che ai datori di lavoro, i certificati e gli attestati di malattia pervenuti dal medico curante”, essendo sufficiente rimandare in proposito alla lettura dei passaggi motivazionali tra la pag. 6 e la pag. 7 della decisione gravata.
12.1. Analogamente, i giudici del reclamo hanno senz’altro considerato (in dettaglio) le precedenti contestazioni disciplinari attinenti sempre a diverse assenze del lavoratore (cfr. sempre pag. 7 della sentenza).
13. Sul piano strettamente giuridico, infine, la Corte distrettuale ha ritenuto, in linea generale, pienamente condivisibile l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale laddove, come nel caso di specie, la contrattazione collettiva non contenga un’espressa previsione in tal senso, il datore di lavoro non ha alcun obbligo di preavvertire il lavoratore dell’imminente superamento del periodo di comporto; ma ha concluso tuttavia che nel caso di specie un tale adempimento fosse, invece, necessario per correggere le indicazioni erronee e fuorvianti che lo stesso datore di lavoro aveva fornito al lavoratore nei prospetti presenze allegati alle buste paga e quindi per eliminare quel ragionevole affidamento ingenerato nel lavoratore dal precedente e reiterato comportamento datoriale (v. in tal senso in extenso tra la pag. 8 e la pag. 9 della sua sentenza).
14. In definitiva, è evidente che, per il tramite di anomalie motivazionali denunciate in termini difformi da quelli consentiti in sede di legittimità e comunque insussistenti, la ricorrente in realtà veicola critiche a valutazioni di profili fattuali, senz’altro operate dalla Corte territoriale, ed alla stessa riservate.
15. La ricorrente, in quanto soccombente, dev’essere condannata al pagamento, in favore del difensore del controricorrente, dichiaratosi anticipatario, delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, ed è tenuta al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.500,00 per compensi professionali, oltre al rimborso forfettario delle spese generali nella misura del 15%, IVA e CPA come per legge, e distrae in favore del difensore del controricorrente.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.