L’estensione del regime sanzionatorio riservato ai c.d. nuovi assunti anche alle “piccole” imprese che, per l’effetto di nuove assunzioni, divengano “grandi” imprese non è incostituzionale.

Nota a Corte Cost. 19 marzo 2024, n. 44

Francesco Belmonte

L’art. 1, co. 3, D.LG. n. 23/2015, che estende l’applicazione delle c.d. tutele crescenti anche alle “piccole” imprese che raggiungano, per l’effetto di nuove assunzioni a tempo indeterminato a decorrere dal 7 marzo 2015, il requisito occupazionale di cui all’art. 18, co. 8 e 9, L. n. 300/70, non è costituzionalmente illegittimo.

Così si è pronunciata la Corte Cost. (19 marzo 2024, n. 44), che ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Lecce (ord. n. 71 del 20 aprile 2023), relativa all’art. 1, co. 3 del citato Decreto, mediante il quale il Legislatore del Jobs Act stabilisce che ai dipendenti di una piccola impresa, già in forza prima del 7 marzo 2015, devono essere applicate, in caso di superamento della soglia dei 15 dipendenti dopo tale data, le c.d. “tutele crescenti” e non quelle previste dall’art. 18 Stat. Lav.

Il giudice remittente, invocando l’intervento della Consulta, aveva ritenuto che il Legislatore fosse andato oltre i limiti della delega di cui all’art. 1, co. 7, lett. c), L. n. 183/2014, in quanto asseriva che le tutele crescenti fossero limitate soltanto alle nuove assunzioni.

La Consulta ha ritenuto di non seguire tale “input”, valorizzando lo scopo complessivo perseguito dal Legislatore delegante di rafforzare le possibilità di ingresso soprattutto dei giovani nel mondo del lavoro e di superare il precariato di varie forme contrattuali diverse dal contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

Il Giudice delle Leggi sottolinea poi che la “forza attrattiva” della norma impugnata non ha leso alcun diritto precostituito dei vecchi dipendenti; piuttosto, la disposizione ha creato due vantaggi per i lavoratori e per il datore di lavoro, e cioè:

a) non si rileva alcuna “regressione in peius” per le piccole imprese, in quanto, nel caso di licenziamento illegittimo dei lavoratori assunti prima dell’entrata in vigore del Decreto n. 23, non trovano applicazione le garanzie dell’art. 18 (ossia, la reintegrazione), ma la tutela meno favorevole della L. n. 604/66 (ossia, la riassunzione).

b) la possibilità di applicare le medesime tutele avverso il licenziamento a tutto il personale in forza rappresenta, secondo la Corte, “uno stimolo (o il venir meno di un freno) a crescere nella dimensione aziendale”.

Aggiungono i Giudici costituzionali, a sostegno del proprio ragionamento, che le c.d. tutele crescenti, applicabili a tutti i nuovi assunti, sono destinate a divenire progressivamente, con il decorso del tempo, di più generale applicazione, mentre,  il regime protettivo di cui all’art. 18 dello Statuto, essendo riservato ai soli lavoratori già in servizio al 7 marzo 2015, è destinato ad essere applicato ad una platea progressivamente più ridotta di lavoratori, “sì da costituire un regime ad esaurimento”; con la conseguenza che, escluso per i motivi sopra indicati il rischio di una modificazione in peius della tutela, “si ha che, anche sotto questo profilo, non è in contrasto con la legge di delega la previsione che l’accesso alla tutela reintegratoria – quella, pur limitata, del D.Lgs. n. 23 del 2015 – avvenga nel regime ordinario – piuttosto che, come vorrebbe il giudice rimettente, in quello congelato ad esaurimento – anche per quei lavoratori già in servizio alla data suddetta, ma privi a quella data di tale tutela”.

Sentenza

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 3, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), promosso dal Tribunale ordinario di Lecce, sezione lavoro, nel procedimento vertente tra I. A. e P. spa, con ordinanza del 20 aprile 2023, iscritta al n. 71 del registro ordinanze 2023 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 22, prima serie speciale, dell’anno 2023, la cui trattazione è stata fissata per l’adunanza in camera di consiglio del 6 febbraio 2024.

Udito nella camera di consiglio del 22 febbraio 2024 il Giudice relatore Giovanni Amoroso;

deliberato nella camera di consiglio del 22 febbraio 2024.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 20 aprile 2023 (reg. ord. n. 71 del 2023), il Tribunale ordinario di Lecce, sezione lavoro, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 76 e 77, primo comma, della Costituzione, dell’art. 1, comma 3, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), censurato per difformità rispetto al criterio di delega dettato dall’art. 1, comma 7, lettera c), della legge 10 dicembre 2014, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro).

1.1.– Le questioni sono sollevate nell’ambito del giudizio di impugnazione di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato, in data 8 luglio 2022, ad un lavoratore che, a far tempo dal 2011, era stato assunto a tempo pieno e indeterminato, con mansioni di collaboratore amministrativo.

Nel giudizio a quo, il ricorrente, premessa la sussistenza di un organico superiore alle soglie di cui all’art. 18, commi ottavo e nono, dello statuto dei lavoratori (legge 20 maggio 1970, n. 300, recante «Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento»), aveva contestato l’errore dell’azienda nell’applicazione dei criteri di scelta, il mancato adempimento dell’onere di repêchage, l’omesso espletamento della procedura prevista dall’art. 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali). Il ricorrente aveva quindi domandato, in via principale, la tutela reintegratoria attenuata di cui al quarto comma dell’art. 18 statuto lavoratori, in via subordinata la tutela indennitaria forte di cui ai commi quinto e settimo dello stesso articolo, ed in via ulteriormente gradata la tutela indennitaria ridotta di cui al comma sesto.

1.2.– La parte resistente, invocata l’applicazione dell’art. 1, comma 3, del d.lgs. n. 23 del 2015, aveva eccepito, in via preliminare, l’inapplicabilità della disciplina sostanziale di cui all’art. 18 statuto lavoratori, nonché del rito ex art. 1, commi 47 e seguenti, della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), e, ribadita la correttezza del proprio operato, aveva insistito sulla sussistenza dei presupposti per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

1.3.– Il giudice a quo – premesso che all’eventuale errore nella scelta del rito non sarebbe, in ogni caso, conseguita l’inammissibilità del ricorso introduttivo, ma al più la conversione del rito – osserva che le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 3, del d.lgs. n. 23 del 2015, avrebbero una incidenza diretta, ed immediatamente decisiva, oltre che nell’individuazione del rito, sulla disciplina sostanziale dell’intimato licenziamento.

1.4.– In termini di rilevanza, il rimettente riferisce che dalla documentazione in atti emergeva la conferma che al momento del licenziamento sussistessero pienamente i requisiti ex art. 18, commi ottavo e nono, statuto lavoratori, ma anche che la soglia numerica fosse stata superata dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 23 del 2015, sicché, risultando presente il prescritto requisito numerico al momento del licenziamento, in caso di accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale, al lavoratore assunto a tempo indeterminato prima del 7 marzo 2015 sarebbe stato applicabile il sistema sanzionatorio previsto dall’art. 18 statuto lavoratori, nonché il rito di cui all’art. 1, commi 47 e seguenti, della legge n. 92 del 2012; di contro, in caso di rigetto, andava disposto il mutamento del rito e lo stesso lavoratore sarebbe stato soggetto al diverso regime di tutela previsto per i contratti cosiddetti a tutele crescenti.

Il Tribunale di Lecce esclude la possibilità di addivenire ad una interpretazione costituzionalmente orientata, data la chiara formulazione della disposizione censurata nella individuazione del presupposto fattuale per la sua applicazione (ossia il superamento della soglia legale ex art. 18, commi ottavo e nono, citati in data successiva all’entrata in vigore del d.lgs. n. 23 del 2015), nonché degli effetti da ciò derivanti (l’attrazione nel regime delle tutele crescenti).

1.5.– In punto di non manifesta infondatezza il giudice a quo denuncia la violazione degli artt. 76 e 77, primo comma, Cost., da parte dell’art. 1, comma 3, del d.lgs. n. 23 del 2015 – rispetto al criterio di delega di cui all’art. 1, comma 7, lettera c), della legge delega n. 183 del 2014 che con riguardo alla nuova disciplina sui licenziamenti fa riferimento alle sole «nuove assunzioni» – nella parte in cui avrebbe esteso la nuova disciplina anche a coloro che, assunti precedentemente, si sono trovati a operare in una realtà lavorativa che ha superato determinate soglie numeriche di lavoratori occupati dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 23 del 2015.

Tale circostanza fattuale – osserva il rimettente – non è riconducibile, sotto il profilo dell’interpretazione letterale e sistematica, al concetto di «nuova assunzione» previsto dal legislatore delegante; il sopravvenuto superamento della soglia numerica riferita alla posizione di coloro che erano già dipendenti non sarebbe, quindi, una circostanza riconducibile alla nozione di «nuova assunzione», né tale eventualità sarebbe stata altrimenti presa in considerazione dal legislatore delegante.

L’estensione censurata non sarebbe riportabile neanche ad una interpretazione teleologica del criterio di delega, individuato nello scopo di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione, in quanto la ratio della disciplina è focalizzata sui neo assunti, sull’asserito presupposto che ad una maggiore flessibilità “in uscita” consegua una maggior dinamicità nell’andamento delle assunzioni, e giammai si rivolge ai soggetti già inseriti nel mondo del lavoro. Né, dal punto sistematico, l’evidente intento del legislatore delegato di impedire – in caso di raggiungimento della soglia ex art. 18 citato dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 23 del 2015 – che rapporti instaurati allorquando era loro applicabile la legge n. 604 del 1966 venissero a trovarsi assoggettati all’art. 18 statuto lavoratori, troverebbe conferma nella disciplina della legge delega espressamente limitata alla disciplina dei licenziamenti dei “nuovi assunti”.

1.6.– In conclusione, il denunciato vizio di eccesso di delega dell’art. 1, comma 3, del d.lgs. n. 23 del 2015, per estraneità – letterale, sistematica e teleologica – alla fattispecie che il legislatore delegante ha voluto introdurre con il chiaro limite alle nuove assunzioni, sarebbe rinvenibile nell’estensione della disciplina a soggetti, come il ricorrente, che risultavano già occupati alla data di entrata in vigore del decreto stesso.

2.– Nessuna delle parti del giudizio principale si è costituita; né è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri.

Considerato in diritto

1.– Con ordinanza del 20 aprile 2023 (reg. ord. n. 71 del 2023), il Tribunale ordinario di Lecce, sezione lavoro, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 76 e 77, primo comma, Cost., dell’art. 1, comma 3, del d.lgs. n. 23 del 2015, censurato per difformità rispetto al criterio di delega dettato dall’art. 1, comma 7, lettera c), della legge n. 183 del 2014 (cosiddetto Jobs Act).

1.1.– Nell’ambito di un giudizio di impugnazione di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato, in data 8 luglio 2022, ad un lavoratore che, a far data dal 2011, era stato assunto a tempo pieno e indeterminato, introdotto con il rito di cui all’art. 1, commi 47 e seguenti, della legge n. 92 del 2012, per chiedere la tutela di cui all’art. 18 statuto lavoratori, la parte resistente aveva invocato l’applicazione dell’art. 1, comma 3, del d.lgs. n. 23 del 2015, eccependo che, sebbene al momento del licenziamento sussistessero i requisiti ex art. 18, commi ottavo e nono, statuto lavoratori, la soglia numerica fosse stata superata dopo l’entrata in vigore del citato d.lgs. n. 23 del 2015.

1.2.– Il giudice a quo, dovendo fare applicazione dell’art. 1, comma 3, del d.lgs. n. 23 del 2015, sia ai fini dell’individuazione del rito che della disciplina sostanziale applicabile all’intimato licenziamento, dubita della legittimità costituzionale di tale norma, nella parte in cui, in caso di datore di lavoro che integri il requisito occupazionale di cui all’art. 18, commi ottavo e nono, statuto lavoratori, in conseguenza di assunzioni a tempo indeterminato avvenute successivamente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 23 del 2015, estende l’applicazione del regime di tutela del licenziamento illegittimo previsto per i contratti a tutele crescenti anche ai lavoratori assunti prima dell’entrata in vigore dello stesso decreto.

È dedotta la violazione degli artt. 76 e 77, primo comma, Cost., per contrasto con l’art. 1, comma 7, lettera c), della legge n. 183 del 2014 che, demandando al Governo la previsione del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, ne limita l’applicazione alle «nuove assunzioni», senza che tale nozione sia idonea, dal punto di vista letterale, sistematico e teleologico, a ricomprendere al suo interno la posizione di soggetti già assunti a tempo indeterminato prima del 7 marzo 2015.

2.– La questione, come sollevata, non presenta profili di inammissibilità.

2.1.– Quanto alla rilevanza, gli elementi descrittivi in merito al procedimento principale e le argomentazioni a sostegno del presupposto interpretativo risultano sufficienti.

Si ha, infatti, che il Tribunale rimettente – che deve decidere dell’impugnazione di un licenziamento intimato in data 8 luglio 2022 ad un lavoratore già in servizio alla data del 7 marzo 2015 per essere stato assunto nel 2011, risultando pacifica tra le parti l’integrazione del requisito occupazionale ex art. 18, ottavo e nono comma, statuto lavoratori, al momento del licenziamento – ha dato atto che dalla documentazione esibita dalla società datrice di lavoro sarebbe emerso che tale soglia numerica era stata superata dopo l’entrata in vigore del citato d.lgs. n. 23 del 2015.

Questa circostanza di fatto (l’integrazione del requisito occupazionale dopo il 7 marzo 2015) comporterebbe l’applicazione, nel giudizio principale, della disposizione censurata, che prevede che il licenziamento dei lavoratori, anche se assunti precedentemente a tale data, sia disciplinato dalle disposizioni del d.lgs. n. 23 del 2015 e non già dall’art. 18 statuto lavoratori.

Ciò avrebbe conseguenze sotto un duplice profilo: a) processuale, in quanto la controversia, introdotta con il rito ex art. 1, commi 47 e seguenti, della legge n. 92 del 2012, sarebbe invece soggetta all’ordinario processo del lavoro ex art. 414 e seguenti del codice di procedura civile, rendendo così necessario il mutamento di rito; b) sostanziale, in riferimento alla tutela applicabile, in quanto il ricorrente, benché assunto prima del 7 marzo 2015, diverrebbe soggetto alla disciplina sostanziale prevista per i lavoratori neoassunti dal d.lgs. n. 23 del 2015, in luogo di quella dettata dall’art. 18 statuto lavoratori.

Pertanto le questioni – in quanto incidenti sul percorso che conduce alla decisione in riferimento sia al rito applicabile, sia alla disciplina sostanziale dell’intimato licenziamento – risultano rilevanti.

2.2.– Inoltre, il giudice a quo esclude la possibilità di addivenire ad una interpretazione costituzionalmente orientata alla luce della chiara formulazione della disposizione censurata nella individuazione del presupposto fattuale per la sua applicazione (il superamento della soglia occupazionale ex art. 18, ottavo e nono comma, citato in data successiva all’entrata in vigore del d.lgs. n. 23 del 2015), nonché degli effetti da ciò derivanti (in particolare, l’estensione del regime delle tutele crescenti anche ai lavoratori già in servizio alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 23 del 2015, perché assunti prima).

Tale soglia occupazionale riguarda i licenziamenti individuali, e tale è quello oggetto del giudizio principale. Il testuale riferimento del censurato art. 1, comma 3, al solo criterio dimensionale di cui all’art. 18, commi ottavo e nono, statuto lavoratori comporta l’esclusione dal suo ambito di applicazione dei licenziamenti collettivi, per i quali opera il diverso requisito dimensionale di cui all’art. 24 della legge n. 23 luglio 1991, n. 223 (Norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea, avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del lavoro) ai fini della configurazione della fattispecie e della disciplina applicabile.

È costante la giurisprudenza di questa Corte «per la quale l’univoco tenore della disposizione segna il confine in presenza del quale il tentativo di interpretazione conforme deve cedere il passo al sindacato di legittimità costituzionale (sentenze n. 150 del 2022, n. 118 del 2020, n. 221 del 2019 e n. 83 del 2017)» (sentenza n. 203 del 2022).

2.3.– Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice rimettente ha diffusamente argomentato in ordine alle ragioni per le quali, a suo giudizio, la disposizione censurata sia suscettibile del prospettato dubbio di legittimità costituzionale, incentrato in via esclusiva sulla violazione del criterio direttivo di cui all’art. 1, comma 7, lettera c), della legge n. 183 del 2014 e, quindi, degli artt. 76 e 77, primo comma, Cost.

3.– Preliminarmente, va richiamata in sintesi la normativa concernente la rilevanza della dimensione dell’impresa, in termini di numero di lavoratori occupati, ai fini della selezione della disciplina dei licenziamenti.

3.1.– La distinzione tra “piccole” imprese e imprese “medio/grandi” sulla base del numero di lavoratori occupati, nella singola unità produttiva oppure nel complesso, costituisce una costante nella disciplina dei licenziamenti, individuali e collettivi.

Il requisito occupazionale, presente già nella prima legge sui licenziamenti n. 604 del 1966 (all’art. 11), si affianca, pochi anni dopo, a quello contemplato dallo statuto dei lavoratori (art. 35), che introduce (all’art. 18) la tutela della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo; tutela (cosiddetta reale) a fronte di quella indennitaria (cosiddetta obbligatoria), già contemplata dalla precedente legge n. 604 del 1966 (all’art. 8), così creando quel binomio “reintegrazione/indennità”, che sarà destinato a perdurare nel tempo, seppure con ambiti applicativi diversi che, negli ultimi anni, a partire dalla legge n. 92 del 2012, hanno visto una progressiva riduzione della tutela reintegratoria.

Ferma la rilevanza del criterio dimensionale, mutano nel tempo le soglie occupazionali rilevanti: più di trentacinque dipendenti per la legge n. 604 del 1966, ai fini dell’applicazione di una disciplina limitativa dei licenziamenti individuali ingiustificati (senza giusta causa o giustificato motivo) rispetto alla regola civilistica del recesso datoriale ad nutum ex art. 2118 del codice civile; non meno di quindici dipendenti nell’unità produttiva, o in più unità produttive nello stesso comune, per l’applicabilità della tutela reintegratoria ex art. 18 statuto lavoratori; il requisito dimensionale unico di non meno di quindici dipendenti nelle singole unità produttive o nell’ambito dello stesso comune, o non meno di sessanta nel complesso dell’azienda, per l’estensione della tutela reintegratoria all’esito della riforma del 1990 (legge 11 maggio 1990, n. 108, recante «Disciplina dei licenziamenti individuali»).

Diversamente, la soglia di quindici dipendenti occupati costituisce l’autonomo e distinto criterio dettato dall’art. 24 della legge n. 223 del 1991 per integrare la fattispecie del licenziamento collettivo ed accedere alla tutela reintegratoria prevista per le violazioni della specifica disciplina dettata dalla stessa legge. Per effetto dell’introduzione di tale nuovo criterio, nell’azienda di dimensione intermedia (con più di quindici dipendenti, ma non più di sessanta, occupati nel complesso e non già nella singola unità produttiva o nel comune), la tutela reintegratoria poteva trovare applicazione in caso di licenziamento collettivo, per la violazione della previa procedura di confronto sindacale e dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, ma non anche in caso di illegittimità di un licenziamento individuale.

La successiva legge n. 92 del 2012, novellando l’art. 18 statuto lavoratori, nel senso di una innovativa differenziazione in plurimi regimi della tutela, reintegratoria e indennitaria, per i licenziamenti individuali e collettivi, ha lasciato, tuttavia, immutato il requisito dimensionale di accesso per la tutela reintegratoria all’una o all’altra fattispecie, modificando solo la sequenza dei commi (attuali ottavo e nono) del suddetto articolo.

Il requisito dimensionale è rimasto, quindi, immutato anche quando «in un contesto riformatore finanche più ampio che ha toccato plurimi aspetti della materia del lavoro (il cosiddetto Jobs Act: legge n. 183 del 2014), a questa disciplina, novellata nel 2012, si è affiancata – senza sostituirla – la regolamentazione di quello che, nelle intenzioni del legislatore, era un nuovo tipo di contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato – cosiddetto a tutele crescenti – che si sovrappone a quello ordinario precedente» (sentenze n. 22 e n. 7 del 2024).

Infatti, il successivo d.lgs. n. 23 del 2015, nello stabilire un distinto regime di tutela, nel caso di licenziamento illegittimo, per i lavoratori assunti con il contratto di lavoro a tutele crescenti, quindi necessariamente in data successiva alla sua entrata in vigore (7 marzo 2015), non ha modificato il requisito dimensionale, limitandosi a richiamare i commi ottavo e nono dell’art. 18 statuto lavoratori per regolare il licenziamento nelle piccole imprese (art. 9).

3.2.– In definitiva, la disciplina del requisito dimensionale è rimasta quella prevista dalla legge n. 108 del 1990 per i licenziamenti individuali, richiamata dalla disposizione censurata, e quella della legge n. 223 del 1991 per i licenziamenti collettivi.

4.– Venendo al merito, la questione oggetto di scrutinio investe la compatibilità della scelta compiuta dall’art. 1, comma 3, del d.lgs. n. 23 del 2015, rispetto alla legge delega n. 183 del 2014; il vulnus denunciato dal giudice a quo, in riferimento agli artt. 76 e 77, primo comma, Cost., riguarda l’oggetto della delega che sarebbe circoscritto alle «nuove assunzioni», ossia ai lavoratori “giovani” assunti a partire dal 7 marzo 2015, quale non è il lavoratore del cui licenziamento si controverte nel giudizio principale.

Invece, per effetto della disposizione censurata, anche i lavoratori dipendenti di imprese di piccole dimensioni, già assunti alla data del 7 marzo 2015, vengono attratti nel regime delle tutele crescenti introdotte dal d.lgs. n. 23 del 2015, in concomitanza e in conseguenza di assunzioni aggiuntive a tempo indeterminato, successive all’entrata in vigore dello stesso decreto, e che comportino il superamento dei limiti dimensionali previsti dall’art. 18, commi ottavo e nono, statuto lavoratori.

Solo per tali prestatori di lavoro la decorrenza temporale di applicazione del d.lgs. n. 23 del 2015 dipende non già dalla data di assunzione, che anzi è antecedente, bensì dalla decisione datoriale di incrementare l’organico in epoca successiva al 7 marzo 2015.

5.– Le questioni non sono fondate.

6.– L’art. 1, comma 7, della legge n. 183 del 2014, nel contesto di un ampio intervento in materia di diritto del lavoro e del sistema di previdenza e assistenza sociale, ha delegato il Governo ad adottare, in particolare, un «testo organico semplificato delle discipline delle tipologie contrattuali e dei rapporti di lavoro» e a tal fine ha indicato sia la finalità perseguita, sia specifici principi e criteri direttivi.

Per un verso, lo «scopo» complessivo, avuto di mira dal legislatore, è stato quello di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione, nonché di riordinare i contratti di lavoro vigenti per renderli maggiormente coerenti con le attuali esigenze del contesto occupazionale e produttivo. Contrastare la disoccupazione giovanile e superare il precariato di varie forme contrattuali, diverse dal contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, è stato l’obiettivo strategico perseguito dal legislatore.

Per altro verso, sono stati declinati i «principi e criteri direttivi», tra cui in particolare quello di cui alla lettera c) del citato comma 7, del quale è denunciata la violazione da parte del giudice rimettente: «previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio, escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché prevedendo termini certi per l’impugnazione del licenziamento».

La rimodulazione della disciplina dei licenziamenti quanto all’ambito della reintegrazione nel posto di lavoro e al calcolo dell’indennizzo compensativo doveva concorrere – secondo le scelte del legislatore delegante – a dare maggiori certezze ai datori di lavoro, imprenditori e non, al fine di rimuovere rigidità e diffidenze che frenavano l’incremento dell’occupazione mediante contratti di lavoro a tempo indeterminato e che avevano fatto preferire forme di lavoro precario (a termine, di collaborazione autonoma, a progetto).

7.– A tal fine, secondo la delega legislativa, la disciplina dei licenziamenti avrebbe dovuto essere rivista «per le nuove assunzioni» – con contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti – in due aspetti fondamentali della tutela del lavoratore in caso di recesso datoriale illegittimo: quella indennitaria e quella reintegratoria (entrambe previste dall’art. 18 statuto lavoratori nella formulazione novellata dalla legge n. 92 del 2012).

Per la tutela indennitaria era prescritta la previsione di «un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio»; per quella reintegratoria era prefigurata una limitazione dell’area di applicabilità.

La convergenza di questi due aspetti – la calcolabilità delle conseguenze economiche in caso di licenziamento illegittimo e il ridimensionamento dell’area della tutela reintegratoria – avrebbe concorso a favorire, nella visione di politica economica del legislatore delegante, l’occupazione nella misura in cui la determinazione automatica della misura dell’indennizzo e una maggiore flessibilità in uscita sono state ritenute idonee a “rassicurare” il mondo imprenditoriale, peraltro in un contesto in cui la precedente legge n. 92 del 2012 era già intervenuta, al medesimo «scopo» e con una disciplina analoga.

8.– L’ulteriore ridimensionamento della tutela reintegratoria – che è l’aspetto rilevante al fine dello scrutinio delle sollevate questioni di legittimità costituzionale – è stato prefigurato sulla base di un criterio compromissorio, che ha rappresentato il punto di equilibrio, raggiunto in Parlamento, nell’approvazione della legge di delega: esso avrebbe potuto e dovuto riguardare soltanto «le nuove assunzioni», quelle con contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti.

Ciò significava che i lavoratori già in servizio, i quali versassero nelle condizioni per beneficiare della tutela reintegratoria, l’avrebbero conservata inalterata (pur nei termini comunque ridotti, previsti dall’art. 18 statuto lavoratori, come novellato dalla legge n. 92 del 2012). Per questi lavoratori, dipendenti di datori di lavoro che integravano il requisito occupazionale di cui all’ottavo e nono comma del medesimo art. 18, non c’era quindi una modifica in peius quanto all’ambito di applicazione della tutela reintegratoria, nella misura in cui questa, ad essi già applicabile in precedenza, lo sarebbe stata negli stessi termini anche in seguito.

Invece i “nuovi” assunti, a partire dal 7 marzo 2015, avrebbero acquisito la “nuova” tutela reintegratoria nella versione, dal perimetro ridotto, del d.lgs. n. 23 del 2015 e non già in quello più ampio dell’art. 18 statuto lavoratori. Per costoro, il carattere più contenuto della tutela reintegratoria non avrebbe significato una modifica in peius, perché il rapporto di lavoro subordinato si sarebbe instaurato ab initio con questo regime di tutela, la cui componente reintegratoria e indennitaria è rimessa alla discrezionalità del legislatore (da ultimo, sentenza n. 7 del 2024).

Ed infatti, in attuazione di questo criterio direttivo, l’art. 1 del d.lgs. n. 23 del 2015 esordisce, al comma 1, stabilendo in generale che «[p]er i lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri, assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto, il regime di tutela nel caso di licenziamento illegittimo è disciplinato dalle disposizioni di cui al presente decreto». Tale data (del 7 marzo 2015) è lo spartiacque tra la “vecchia” tutela reintegratoria (ex legge n. 92 del 2012), di cui continuano a beneficiare i lavoratori in servizio alla data suddetta e che già ne fossero provvisti, e la “nuova” tutela reintegratoria (quella disegnata in termini ancora più limitativi dal d.lgs. n. 23 del 2015) prevista per i nuovi assunti.

9.– Questa distinzione, con un duplice e parallelo regime di tutela, è già stata esaminata da questa Corte con riferimento ai licenziamenti collettivi, in quanto “licenziamenti economici”, nella sentenza n. 7 del 2024, che ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 1, e 10 del d.lgs. n. 23 del 2015, sollevate denunciando la violazione del medesimo criterio di delega indicato nell’ordinanza di rimessione attualmente in esame. La tutela reintegratoria prevista dall’art. 5, comma 3, della legge n. 223 del 1991, come novellato dalla legge n. 92 del 2012, in caso di licenziamento collettivo – fattispecie configurabile nella ricorrenza dei presupposti di cui all’art. 24 della medesima legge, compreso lo specifico requisito dimensionale consistente nell’occupazione di più di quindici dipendenti nel complesso – è stata conservata per i lavoratori già in servizio prima della data suddetta. Invece, per i lavoratori assunti a partire da tale data, con contratto di lavoro subordinato a tutele crescenti, la tutela nei confronti dei licenziamenti collettivi è prevalentemente indennitaria (art. 10).

Al di sotto del requisito dimensionale suddetto non era proprio configurabile – alla data di entrata in vigore del decreto legislativo – la fattispecie del licenziamento collettivo, ma solo quella di licenziamenti individuali, eventualmente plurimi, con la conseguenza che ad essi, in quanto individuali, si applicava la disposizione censurata, ove ne ricorressero i presupposti (ossia secondo che sussistesse, o no, il diverso requisito dimensionale di cui a tale disposizione).

10.– In sintesi, la previsione nel menzionato criterio di delega – secondo cui la disciplina che il legislatore delegato era chiamato a porre riguardava «le nuove assunzioni» con contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti – ha legittimato proprio questo assetto a “doppio binario”, ispirato alla logica secondo cui i lavoratori in servizio alla data suddetta, che già avevano la tutela reintegratoria ex art. 18 statuto lavoratori, la conservano anche in caso di licenziamenti intimati dopo il 7 marzo 2015, mentre i lavoratori assunti a partire da tale data accedono direttamente al più limitato regime di tutela reintegratoria del d.lgs. n. 23 del 2015.

In questo parallelismo si colloca anche la fattispecie particolare dei lavoratori che erano sì già in servizio alla data suddetta, ma che non beneficiavano della tutela reintegratoria perché non era integrato il requisito occupazionale previsto, per i licenziamenti individuali, dall’ottavo e nono comma dell’art. 18 statuto lavoratori. In tale evenienza, di prestatori impiegati in piccole aziende, la tutela nei confronti dei licenziamenti illegittimi non era quella dettata dall’art. 18, bensì quella, solo indennitaria, di cui alla legge n. 604 del 1966.

Il legislatore delegato – nell’esercizio del potere di completamento della disciplina, come questa Corte ha riconosciuto proprio con riferimento alla stessa legge di delega qui in esame (sentenza n. 22 del 2024) – poteva regolare anche questa fattispecie particolare, tenendo conto dello «scopo» della delega e del bilanciamento voluto dal legislatore delegante (la non regressione dalla tutela reintegratoria di chi, essendo già in servizio, l’avesse alla data dell’entrata in vigore della nuova disciplina).

Questa esigenza di completamento – come già rilevato – si è posta proprio per i licenziamenti individuali perché solo per essi sussisteva, al di là del regime di tutela (vuoi reintegratoria, vuoi indennitaria) previsto dall’art. 18, anche una distinta e separata tutela meramente indennitaria: quella della legge n. 604 del 1966.

11.– In tal modo, il legislatore delegato ha completato il quadro della disciplina regolando anche la fattispecie del licenziamento individuale di dipendenti che, in ragione della mancata integrazione del requisito occupazionale di cui all’art. 18, commi ottavo e nono, statuto lavoratori, ricadevano, alla data del 7 marzo 2015, nell’area di applicazione della tutela (solo) indennitaria prevista (non già dallo stesso art. 18, ma) dalla legge n. 604 del 1966.

Per questi lavoratori, impiegati in piccole aziende, non esisteva un regime di tutela reintegratoria ex art. 18 da conservare.

Pertanto, una volta integrato tale requisito occupazionale dopo la data suddetta – requisito che, quanto al licenziamento individuale, è rimasto invariato anche nel decreto legislativo – il legislatore delegato poteva completare la disciplina regolando anche questa fattispecie, che non rientrava strettamente nella ipotesi di “nuovi” lavoratori assunti a partire dal 7 marzo 2015 e con contratti di lavoro subordinato a tutele crescenti.

Ciò il legislatore ha fatto in sintonia con lo «scopo» perseguito dalla legge di delega di incentivare le nuove occupazioni, ed ha così previsto, nella disposizione censurata (art. 1, comma 3, del d.lgs. n. 23 del 2015), che il regime di tutela nei confronti dei licenziamenti debba essere quello contemplato dal decreto stesso e non già dall’art. 18 statuto lavoratori, come novellato dalla legge n. 92 del 2012. Per il datore di lavoro, con una “piccola” impresa, la prospettiva che, superata la soglia dei quindici dipendenti nell’unità produttiva, la disciplina dei licenziamenti individuali fosse la stessa (quella del decreto legislativo) per tutti i suoi dipendenti – sia neoassunti, sia già in servizio – rappresentava uno stimolo (o il venir meno di un freno) a crescere nella dimensione aziendale.

Da una parte, la tutela prevista dal d.lgs. n. 23 del 2015 è, per il lavoratore già in servizio alla data suddetta, comunque più favorevole del regime ex legge n. 604 del 1966 che gli si applicava in precedenza, prima del superamento della soglia occupazionale, sicché non c’è alcuna regressione in peius. D’altra parte è soddisfatto lo «scopo» della delega nel senso che, se invece fosse stata operante l’acquisizione ex novo (ossia dopo la data di entrata in vigore del decreto legislativo) del regime di tutela dell’art. 18, ciò avrebbe potuto rappresentare una remora, per il datore di lavoro, a fare nuove assunzioni; proprio quelle assunzioni che il legislatore delegante voleva incentivare.

12.– Non è poi senza rilievo la considerazione che la disciplina del decreto legislativo, proprio perché applicabile a tutti i nuovi assunti, che sono in numero crescente, tende ad essere quella ordinaria. Mentre la disciplina dell’art. 18 statuto lavoratori, riservata ai lavoratori in servizio al 7 marzo 2015, vede restringersi naturalmente nel tempo (con i progressivi pensionamenti) la sua area di applicabilità sì da costituire un regime ad esaurimento. Sicché – una volta esclusa la non regressione (in peius per il lavoratore) della tutela – si ha che, anche sotto questo profilo, non è in contrasto con la legge di delega la previsione che l’accesso alla tutela reintegratoria – quella, pur limitata, del d.lgs. n. 23 del 2015 – avvenga nel regime ordinario – piuttosto che, come vorrebbe il giudice rimettente, in quello congelato ad esaurimento – anche per quei lavoratori già in servizio alla data suddetta, ma privi a quella data di tale tutela.

Peraltro, le differenze tra le due discipline si sono ridotte nella misura in cui sono venuti meno l’automatismo di calcolo dell’indennizzo previsto solo per i licenziamenti soggetti al d.lgs. n. 23 del 2015 (a seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale di cui alla sentenza n. 194 del 2018) e il rito speciale contemplato dalla legge n. 92 del 2012 solo per i licenziamenti soggetti all’art. 18 statuto lavoratori per effetto dell’abrogazione ad opera dell’art. 37, comma 1, lettera e), del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 149 (Attuazione della legge 26 novembre 2021, n. 206, recante delega al Governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonché in materia di esecuzione forzata).

13.– Per tutto quanto finora argomentato, vanno dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 3, del d.lgs. n. 23 del 2015 – sollevate in riferimento agli artt. 76 e 77, primo comma, Cost., per violazione del criterio di delega di cui all’art. 1, comma 7, lettera c), della legge n. 183 del 2014 – nella parte in cui, in caso di datore di lavoro che integri il requisito occupazionale di cui all’art. 18, commi ottavo e nono, statuto lavoratori, in conseguenza di assunzioni a tempo indeterminato avvenute successivamente all’entrata in vigore del decreto legislativo citato, estende l’applicazione del regime di tutela del licenziamento individuale illegittimo, previsto per i contratti a tutela crescente, anche ai lavoratori assunti prima dell’entrata in vigore dello stesso decreto.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 3, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), sollevate, in riferimento agli artt. 76 e 77, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Lecce, sezione lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Legittimità costituzionale delle c.d. tutele crescenti
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