La tutela del patrimonio aziendale può riguardare la difesa datoriale sia da condotte di appropriazione di denaro o di danneggiamento o sottrazione di beni, le quali possono provenire anche da dipendenti dell’azienda e che giustificano la medesima protezione rispetto a quella dovuta a fronte di aggressioni esterne, sia dalla lesione all’immagine e al patrimonio reputazionale dell’azienda (le condotte fraudolente di dipendenti in danno di clienti sono anche idonee a pregiudicare l’immagine di una impresa).
Nota a Cass. (ord.) 6 settembre 2024, n. 23985
Alfonso Tagliamonte
L’impianto visivo, dal quale “derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori”, installato “previo accordo collettivo” sottoscritto con le organizzazioni sindacali, dichiaratamente “per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale” (ex art. 4 Stat. Lav. come mod. dall’art. 23, D.Lgs. n. 151/2015 e successive integrazioni) non riguarda i cd. “controlli difensivi in senso stretto” e si situano, ancora oggi, “all’esterno del perimetro applicativo dell’art. 4” (così, Cass. n. 18168/2023 e Cass. n. 25732/2021, in q. sito con nota di G.I. VIGLIOTTI).
Questa l’affermazione della Corte di Cassazione (ord. 6 settembre 2024, n. 23985) la quale precisa che la fattispecie sottoposta alla sua attenzione si colloca “tra i controlli a difesa del patrimonio aziendale che riguardano tutti i dipendenti (o gruppi di dipendenti) nello svolgimento della loro prestazione di lavoro che li pone a contatto con tale patrimonio, controlli che dovranno necessariamente essere realizzati nel rispetto delle previsioni dell’art. 4 novellato in tutti i suoi aspetti”.
La Corte rileva che la nozione di “patrimonio aziendale” tutelabile in sede di esercizio del potere di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori è stata intesa, dalla giurisprudenza di legittimità in una accezione estesa. Si è così riconosciuto “il diritto del datore di lavoro di tutelare il proprio patrimonio, […] costituito non solo dal complesso dei beni aziendali, ma anche dalla propria immagine esterna, così come accreditata presso il pubblico” (Cass. n. 2722/2012; sulla tutela dell’immagine aziendale v. pure Cass. n. 13266/2018, annotata in q. sito da M.N. BETTINI); è stato anche considerato come patrimonio aziendale “il profilo del regolare funzionamento e della sicurezza degli impianti” (Cass. n. 10955/2015). Inoltre, si è ritenuto lesivo del patrimonio aziendale il comportamento di dipendenti potenzialmente integrante un illecito penale, “sia ammettendo l’accertamento di fatti disciplinarmente rilevanti mediante filmati di telecamere installate in locali dove si erano verificati furti (Cass. n. 10636/2017, in q. sito con nota di D. CASAMASSA) o a presidio della cassaforte aziendale (Cass. n. 22662/2016, in q. sito con nota di K. PUNTILLO), sia in ipotesi di mancata registrazione della vendita da parte dell’addetto alla cassa ed appropriazione delle somme incassate (per tutte, v. Cass. n. 18821/2008; sul controllo mediante agenzie investigative v., da ultimo, Cass. n. 17004/2024)”. E’ stata altresì ritenuta rilevante “la contestazione, al lavoratore, di un fatto reato incidente sul patrimonio del datore di lavoro, mediante esame di informazioni raccolte da un impianto in precedenza autorizzato” (Cass. n. 32683/2021, in un caso di “sottrazione furtiva di merce aziendale” ripresa da “telecamere di sicurezza”).
Nella fattispecie sottoposta alla sua attenzione, la Cassazione ritiene che l’installazione dello strumento tecnologico di ripresa della biglietteria era stato installato, in modalità non occulte in quanto “autorizzato dall’accordo sindacale, per tutelare il patrimonio aziendale, inteso in senso ampio, da possibili lesioni, interne o esterne”; e che lo stesso era stato impiegato per accertare comportamenti illeciti del dipendente non concretanti un mero inadempimento nell’esecuzione della prestazione lavorativa, per cui la visione del filmato, con la conseguente identificazione degli addetti, non richiedeva reclamo dettagliato della clientela, così come invece previsto dall’accordo del luglio 2015.
La Corte territoriale aveva accertato due episodi contestati all’autore e consistenti nel non avere consegnato ai clienti il resto dovuto, senza poi registrare l’esubero di cassa ed ha valutato tali “fatti idonei a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario, in considerazione delle mansioni in concreto rivestite, comportanti maneggio di denaro”.
Sentenza
CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 06 settembre 2024, n. 23985
Licenziamento – Impianto audiovisivo di controllo installato – Oggetto di efficace contestazione – Accordo con le organizzazioni sindacali – Tutela del patrimonio aziendale e dei beni demaniali in concessione – Fatti idonei a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario – Lettera di contestazione – Art. 4 St. lav. – Rigetto
Rilevato che
1.la Corte di Appello di Messina, con la sentenza impugnata, nell’ambito di un procedimento ex lege n. 92 del 2012, in riforma della pronuncia di primo grado, ha dichiarato “la legittimità del licenziamento irrogato da C. & T. s.p.a. ad A.R. con lettera del 2 novembre 2017”;
2. la Corte territoriale, in sintesi e per quanto qui rileva, ha preso visione del filmato contenuto in un DVD depositato dalla società sin dalla fase sommaria del giudizio di primo grado, contenente le riprese della biglietteria tratte dall’impianto aziendale di videosorveglianza installato sulla base di un Accordo aziendale del luglio 2015;
la Corte, sulla base di tale visione, ha accertato che “le operazioni di cassa registrate sono pienamente corrispondenti ai fatti addebitati nella lettera di contestazione” all’A., addetto alla biglietteria; ha ravvisato l’ <elemento intenzionale> nei due episodi contestati all’autore e consistenti nel non avere consegnato ai clienti il resto dovuto, senza poi registrare l’esubero di cassa; ha valutato tali “fatti idonei a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario, in considerazione delle mansioni in concreto rivestite, comportanti maneggio di denaro”;
3. in ordine alle contestazioni mosse dal reclamato in relazione alla violazione dell’art. 4 l. n. 300 del 1970, la Corte ha constatato che l’impianto audiovisivo di controllo era stato installato dalla società a seguito di accordo con le organizzazioni sindacali, il quale prevedeva quale finalità dichiarata “l’esigenza di tutela del patrimonio aziendale e dei beni demaniali avuti assentiti in concessione, e la salvaguardia di esigenze di sicurezza”;
ha poi argomentato che, “nel caso di specie, le modalità di attuazione delle riprese di videosorveglianza garantiscono il rispetto della dignità e della riservatezza del dipendente, e dunque anche del principio di proporzionalità del mezzo utilizzato rispetto allo scopo, poiché le telecamere sono state posizionate in modo da consentire la visione di un angolo delimitato dell’area di scambio tra denari e titoli di viaggio, senza alcuna possibilità di identificazione visiva immediata degli addetti, possibile solo successivamente, come chiarito nell’accordo, in caso di dettagliato reclamo della clientela”;
in merito alla circostanza che, nella specie, l’identificazione dell’A. era stata operata in assenza di un reclamo della clientela, la Corte ha ritenuto che “la disposizione di garanzia contenuta nell’accordo va considerata in relazione alla finalità precipua dell’accordo, ossia quella di tutela del patrimonio aziendale e dei beni demaniali in concessione, ma tale garanzia non può essere estesa alla diversa e ben più grave ipotesi in cui attraverso le immagini di videosorveglianza risulti la perpetrazione di illeciti penali”;
4. per quanto riguarda l’eccepita violazione della procedura prevista per l’estrazione di copia dei filmati del servizio di videosorveglianza, ex lege n. 48 del 2008, la Corte, “conformemente a quanto motivato dal giudice di primo grado”, ha ritenuto che “la censura di autenticità del dato informatico estratto dalla società datoriale risulta formulata in modo del tutto generico, ossia in assenza di qualsivoglia riferimento a circostanze concrete idonee ad attestare la non corrispondenza tra la realtà fattuale e quella riprodotta”; infine, la Corte ha ritenuto, in fatto, che neanche fosse stato superato “il termine di 7 giorni per la conservazione delle immagini, indicato nell’accordo sindacale del 10 luglio 2015”;
5. per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso il lavoratore con quattro motivi; ha resistito con controricorso l’intimata società; la parte ricorrente ha anche comunicato memoria; all’esito della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nel termine di sessanta giorni;
Considerato che
1.i motivi di ricorso possono essere sintetizzati come di seguito;
1.1. col primo motivo si denuncia: “Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 4, L. n. 300/70, come sostituito dall’art. 23, comma 1, D. Lgs. 14 settembre 2015, n. 151 nonché degli artt. 1175 e 1375 c.c., in relazione ai controlli effettuati da C&T s.p.a. mediante impianti audiovisivi (art. 360, n. 3, c.p.c.)”;
si sostiene che il controllo operato dalla società non sarebbe consentito in quanto inerente al corretto svolgimento dell’attività lavorativa e che “anche per i cd. controlli difensivi trovino applicazione le garanzie del citato art. 4”; si sottolinea che l’Accordo aziendale del 10 luglio 2015 consentiva la visione delle immagini solo in presenza di un reclamo della clientela, nella specie mancante, con conseguente violazione dei principi di correttezza e buona fede; si eccepisce che “la prova della <perpetrazione di illeciti penali> sarebbe costituita esclusivamente dalle immagini delle videoriprese che, per le considerazioni esposte, sono inutilizzabili”;
1.2. con il secondo motivo si denuncia: “Violazione e/o falsa applicazione della L. 48/2008 e dell’art. 2712 c.c. in relazione alla violazione della procedura prevista per l’estrazione di copia dei filmati del servizio di videosorveglianza (art.360, n. 3 c.p.c.)”; si deduce che “la legge n. 48/2008 ha ratificato la Convenzione di Budapest del 2001 e ha introdotto nel nostro ordinamento norme dirette a disciplinare l’acquisizione della prova in ambiente informatico o telematico e l’utilizzo corretto degli strumenti di ricerca e di acquisizione della stessa, con evidenti conseguenze sui criteri che devono essere utilizzati dal giudice per la valutazione degli elementi probatori”; in particolare, si critica la Corte territoriale per l’utilizzo improprio dell’art. 2712 c.c., perché “la censura del ricorrente non si riferiva alla non corrispondenza tra realtà fattuale e quella riprodotta, ma piuttosto al fatto che nel caso di specie non è stata garantita la genuinità delle immagini registrate dalle telecamere e utilizzate quale prova della sussistenza di quanto addebitato al lavoratore poi licenziato” e ciò per “la mancata osservanza della procedura imposta dalla legge n. 48/2008”;
1.3. il terzo mezzo denuncia: “Omesso esame di un fatto decisivo, oggetto di discussione tra le parti, in relazione alla circostanza che i dati informatici prodotti in giudizio da C&T e sui quali è fondato il licenziamento non sono stati realizzati in <copia forense> (art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.)”; si eccepisce, tra l’altro, l’inutilizzabilità delle immagini estratte dal sistema di videosorveglianza in violazione della legge n. 48 del 2008 “per analogia con quanto previsto dall’art. 191 c.p.p.”;
1.4. il quarto motivo denuncia: “Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 c.c., in relazione all’Accordo sindacale del 10 luglio 2015 stipulato tra C.&T. s.p.a. e le OO.SS. (art. 360 n. 3 c.p.c.)”; si contesta l’interpretazione del citato accordo sindacale operata dalla Corte territoriale, trascurando che nessun cliente aveva proposto reclamo, che le immagini erano state conservate oltre il termine di 7 giorni ivi previsto e “che il sistema di videosorveglianza utilizzato da C&T non era a norma”;
2. il ricorso non può trovare accoglimento;
2.1. il primo motivo, unitamente al quarto mezzo di gravame da valutarsi congiuntamente per profili di reciproca connessione, è da respingere;
2.1.1. la fattispecie concreta si colloca, ratione temporis, nell’ambito di applicazione del comma 1 dell’art. 4 St. lav. modificato dall’art. 23 del d. lgs. n. 151 del 2015 e successive integrazioni, trattandosi di impianto visivo, dal quale “derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori”, installato “previo accordo collettivo” sottoscritto con le organizzazioni sindacali, dichiaratamente “per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale”; siamo pertanto al di fuori della tematica dei cd. “controlli difensivi in senso stretto” (pur richiamata in modo ultroneo dalla Corte territoriale) i quali, come noto, si situano, ancora oggi, “all’esterno del perimetro applicativo dell’art. 4” (così Cass. n. 25732 del 2021, punti 31 e 32; più di recente v. Cass. n. 18168 del 2023); secondo la classificazione operata proprio da Cass. n. 25732/2021 cit., la fattispecie all’attenzione del Collegio si colloca “tra i controlli a difesa del patrimonio aziendale che riguardano tutti i dipendenti (o gruppi di dipendenti) nello svolgimento della loro prestazione di lavoro che li pone a contatto con tale patrimonio, controlli che dovranno necessariamente essere realizzati nel rispetto delle previsioni dell’art. 4 novellato in tutti i suoi aspetti”; risultando nella specie autorizzata l’installazione dell’impianto, si pone la questione della utilizzabilità delle informazioni – le riprese visive – così raccolte “a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro” (art. 4, u.c., St. lav.) e, quindi, anche ai fini dell’esercizio dell’azione disciplinare (cfr. Cass. n. 32683 del 2021);
2.1.2. non sono state oggetto di efficace contestazione le due condizioni stabilite da tale ultimo comma dell’art. 4 per rendere “utilizzabili” le informazioni raccolte ai sensi dei primi due commi del medesimo articolo, e cioè l’adeguata informazione al lavoratore delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli nonché il “rispetto di quanto disposto nel decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196”; piuttosto parte ricorrente si duole della violazione di talune previsioni contenute nell’accordo sindacale, in particolare di quelle secondo cui “la visione delle immagini videoregistrate, per finalità diverse da quelle espresse in premessa (tutela del patrimonio aziendale e dei beni demaniali […] e per esigenze di sicurezza), avverrà esclusivamente in presenza di reclami, o richieste dettagliate, adeguatamente motivate e non anonime da parte dei clienti, ovvero dell’autorità giudiziaria”, aggiungendosi che “per quanto attiene alle telecamere istallate all’interno delle biglietterie posizionate sull’area di scambio tra denaro e titoli di viaggio, l’identificazione degli addetti […] avverrà solo in caso di dettagliato reclamo della clientela”; reclamo del cliente nella specie pacificamente assente;
2.1.3. osserva, però, il Collegio che dallo stesso testo dell’accordo sindacale risulta che il reclamo del cliente non era richiesto laddove la finalità della visione delle immagini non fosse diversa da quella di “tutela del patrimonio aziendale”; la nozione di “patrimonio aziendale” tutelabile in sede di esercizio del potere di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori è stata intesa, dalla giurisprudenza di questa Corte, in una accezione estesa;
si è così riconosciuto “il diritto del datore di lavoro di tutelare il proprio patrimonio, […] costituito non solo dal complesso dei beni aziendali, ma anche dalla propria immagine esterna, così come accreditata presso il pubblico” (Cass. n. 2722 del 2012; sulla tutela dell’immagine aziendale v. pure Cass. n. 13266 del 2018);
è stato anche considerato come patrimonio aziendale “il profilo del regolare funzionamento e della sicurezza degli impianti” (Cass. n. 10955 del 2015); costantemente, poi, è stata ritenuta lesiva del patrimonio aziendale la condotta di dipendenti potenzialmente integrante un illecito penale, sia ammettendo l’accertamento di fatti disciplinarmente rilevanti mediante filmati di telecamere installate in locali dove si erano verificati furti (Cass. n. 10636 del 2017) o a presidio della cassaforte aziendale (Cass. n. 22662 del 2016), sia in ipotesi di mancata registrazione della vendita da parte dell’addetto alla cassa ed appropriazione delle somme incassate (per tutte v. Cass. n. 18821 del 2008; sul controllo mediante agenzie investigative v., da ultimo, Cass. n. 17004 del 2024);
anche nel vigore della nuova normativa è stata ritenuta rilevante “la contestazione, al lavoratore, di un fatto reato incidente sul patrimonio del datore di lavoro, mediante esame di informazioni raccolte da un impianto in precedenza autorizzato” (Cass. n. 32683/2021 cit., in un caso di “sottrazione furtiva di merce aziendale” ripresa da “telecamere di sicurezza”);
in definitiva, la tutela del patrimonio aziendale può riguardare la difesa datoriale sia da condotte di appropriazione di denaro o di danneggiamento o sottrazione di beni, le quali possono provenire anche da dipendenti dell’azienda e che giustificano la medesima protezione rispetto a quella dovuta a fronte di aggressioni esterne, sia dalla lesione all’immagine e al patrimonio reputazionale dell’azienda, non meno rilevanti dell’elemento materiale che compone la medesima (e non può dubitarsi che condotte fraudolente di dipendenti in danno di clienti siano anche idonee a pregiudicare l’immagine di una impresa);
in continuità con tale giurisprudenza e in conformità con il novellato dettato legislativo dell’art. 4 St. lav. – il quale consente l’impiego di impianti audiovisivi dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori “esclusivamente” per le finalità indicate dal suo primo comma, tra cui appunto “la tutela del patrimonio aziendale” – il Collegio giudica che, nella specie, lo strumento tecnologico di ripresa della biglietteria fosse installato, in modalità non occulte perché autorizzato dall’accordo sindacale, per tutelare il patrimonio aziendale, inteso in senso ampio, da possibili lesioni, interne o esterne, e sia stato impiegato per accertare comportamenti illeciti del dipendente, non concretanti un mero inadempimento nell’esecuzione della prestazione lavorativa, per cui la visione del filmato, con la conseguente identificazione degli addetti, non richiedeva il “dettagliato reclamo della clientela”, così come invece previsto dall’accordo del luglio 2015;
per completezza pare anche opportuno ricordare che, secondo questa Corte, l’autorizzazione amministrativa dell‘INL territoriale all’installazione dell’impianto tecnologico, necessaria in caso di mancanza di accordo sindacale, non può “rendere inutilizzabili le informazioni raccolte ai fini disciplinari” perché la clausola che impone un tale limite deve ritenersi “successivamente caducata e, quindi, tamquam non esset, in quanto in contrasto con la disposizione di cui all’art. 4 legge n. 300 del 1970 come modificata con le novelle del 2015 e del 2016” (Cass. n. 32683/2021 cit.);
2.1.4. ogni altro doglianza contenuta nei motivi in scrutinio è inammissibile;
sia nella parte in cui si sostiene un mero dissenso esegetico rispetto all’interpretazione dell’accordo aziendale offerta dalla Corte territoriale, atteso che l’accertamento della volontà negoziale si sostanzia in un accertamento di fatto (tra molte, Cass. n. 9070 del 2013; Cass. n. 12360 del 2014), riservato all’esclusiva competenza del giudice del merito (cfr. Cass. n. 17067 del 2007; Cass. n. 11756 del 2006; di recente, conf. Cass. n. 22318 del 2023), sia laddove si prospettano violazioni di legge ma criticando nella sostanza, nonostante la veste formale delle censure, l’accertamento di fatti compiuto dalla medesima Corte, invocando così un sindacato estraneo al controllo demandato a questo giudice di legittimità;
2.2. anche il secondo motivo di gravame non merita accoglimento; esso è inammissibile nella parte in cui deduce genericamente, senza il rispetto del canone della necessaria specificità del motivo di ricorso per cassazione, la violazione della legge n. 48 del 2008 nel suo complesso; legge che riguarda i crimini informatici e contiene previsioni operanti nell’ambito dei procedimenti penali e la parte ricorrente neanche individua la norma che sancirebbe, nell’ambito del giudizio civile, l’inutilizzabilità del DVD laddove prodotto in violazione della procedura ivi prevista per l’estrazione di copia dei filmati del servizio di videosorveglianza; il motivo è poi infondato quanto alla dedotta violazione dell’art. 2712 c.c. perché l’operato della Corte territoriale è conforme alla giurisprudenza secondo cui:
“L’efficacia probatoria delle riproduzioni meccaniche di cui all’art. 2712 c.c. è subordinata -in ragione della loro formazione al di fuori del processo e senza le garanzie dello stesso – all’esclusiva volontà della parte contro la quale esse sono prodotte in giudizio, concretantesi nella non contestazione che i fatti, che tali riproduzioni tendono a provare siano realmente accaduti con le modalità risultanti dalle stesse. Il relativo <disconoscimento> – che fa perdere alle riproduzioni stesse la loro qualità di prova e che va distinto dal <mancato riconoscimento>, diretto o indiretto, il quale, invece, non esclude che il giudice possa liberamente apprezzare le riproduzioni legittimamente acquisite – pur non essendo soggetto ai limiti e alle modalità di cui all’art. 214 c.p.c., deve tuttavia essere chiaro, circostanziato ed esplicito (dovendo concretizzarsi nell’allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra realtà fattuale e realtà riprodotta) e deve avvenire nella prima udienza o nella prima risposta successiva alla rituale acquisizione delle suddette riproduzioni, venendosi in caso di disconoscimento tardivo ad alterare l’iter procedimentale in base al quale il legislatore ha inteso cadenzare il processo in riferimento al contraddittorio.
(Nella specie la S.C. ha confermato la sentenza impugnata nella parte in cui aveva escluso che potesse avere valore di disconoscimento di una cassetta video registrata la condotta della parte, dopo aver assistito alla relativa visione e non aver mosso alcuna contestazione sui fatti e sui soggetti in essa rappresentati, ne aveva genericamente disconosciuto il contenuto solo tardivamente in corso di causa, dopo l’esaurimento del termine a tal fine concesso dal giudice)” (così Cass. n. 8998 del 2001; conf. Cass. n. 2117 del 2011; v. pure Cass. n. 3122 del 2015, per la quale, anche in caso di rituale disconoscimento, il giudice può comunque accertare la conformità all’originale anche attraverso altri mezzi di prova, comprese le presunzioni; conf. Cass. n. 17526 del 2016; Cass. n. 5141 del 2019);nella specie, i giudici d’appello hanno argomentato che, “conformemente a come motivato dal giudice di primo grado, la censura di autenticità del dato informatico estratto dalla società datoriale risulta formulato in modo del tutto generico, ossia in assenza di qualsivoglia specifico riferimento a circostanze concrete idonee ad attestare la non corrispondenza tra la realtà fattuale e quella riprodotta”, aggiungendo infine che “nel caso di specie vi è assoluta carenza allegatoria da parte del reclamato”;
non è sufficiente a determinare la cassazione della sentenza impugnata il diverso opinamento di chi ricorre che, col motivo in esame, ritiene invece che detto disconoscimento vi sia stato, atteso che come spetta al giudice del merito apprezzare, nell’ambito del giudizio di fatto al medesimo riservato, l’esistenza ed il valore di una condotta di non contestazione dei fatti rilevanti, allegati dalla controparte (Cass. n. 3680 del 2019; Cass. n. 3126 del 2019), allo stesso modo compete al giudice di merito valutare se la condotta processuale della parte sia idonea ad addure elementi attestanti la non corrispondenza tra realtà fattuale e realtà riprodotta in modo chiaro, circostanziato ed esplicito ai fini e per gli effetti di cui all’art. 2712 c.c.;
2.3. il terzo motivo di ricorso è inammissibile; non solo perché si replicano censure relative alla pretesa generica violazione della legge n. 48 del 2008, rispetto alle quali si è già detto, ma anche perché si denuncia un omesso esame di fatto decisivo al di fuori dei limiti posti dalle Sezioni unite di questa Corte con le sentenze nn. 8053 e 8054 del 2014; con dette pronunce le Sezioni unite hanno espresso sulla nuova formulazione del n. 5 dell’art. 360 c.p.c. i seguenti principi di diritto (principi costantemente ribaditi dalle stesse Sezioni unite v. n. 19881 del 2014, n. 25008 del 2014, n. 417 del 2015, oltre che dalle Sezioni semplici):
a) la disposizione deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 disp. prel. c.c., come riduzione al minimo costituzionale del sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di legittimità, per cui l’anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità è solo quella che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in sé, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione di alcuna rilevanza del difetto di “sufficienza”, nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”;
b) il nuovo testo introduce nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia);
c) l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze istruttorie;
d) la parte ricorrente dovrà indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui agli artt. 366, primo comma, n. 6), c. p. c. e 369, secondo comma, n. 4), c. p. c. – il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extra testuale, da cui ne risulti l’esistenza, il “come” e il “quando” (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, e la “decisività” del fatto stesso;
il motivo in esame risulta irrispettoso di tali enunciati, in particolare non tenendo conto che “l’allegata violazione della procedura prevista per l’estrazione di copia dei filmati del servizio di videosorveglianza” è stata specificamente presa in considerazione alla pagina 15 della sentenza impugnata (sicché di alcun omesso esame di fatto storico può discettarsi), e che, comunque, non viene affatto dimostrato come tale fatto abbia carattere decisivo (“vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia”), tanto più rispetto ad un disposto normativo di cui non è dimostrata l’applicabilità alla fattispecie;
3. conclusivamente, il ricorso deve essere respinto nel suo complesso, con spese che seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo; ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020);
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 4.000,00, oltre esborsi pari ad euro 200,00, spese generali nella misura del 15% ed accessori secondo legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.