Il diniego del datore di lavoro di autorizzare il dipendente di banca a svolgere attività libero professionale di commercialista, giustificato da un potenziale conflitto di interessi e dall’assenza di dettagli circoscritti sull’attività da svolgere, è legittimo, tenuto anche conto delle disposizioni del CCNL Credito e del Codice etico aziendale.
Nota a Cass. 15 luglio 2024, n. 19391
Massimo Citerni di Siena
“Dal collegamento dell’obbligo di fedeltà, previsto dall’art. 2105 c.c., con i principi generali di correttezza e buona fede, a norma degli artt. 1175 e 1375 c.c., deriva che il lavoratore deve astenersi non solo dai comportamenti espressamente vietati dal suddetto art. 2105, ma anche da qualsiasi altra condotta che, per la natura e per le sue possibili conseguenze, risulti in contrasto con i doveri connessi all’inserimento del lavoratore nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa o crei situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi della medesima o sia comunque idonea a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto”.
Questo, il principio ribadito dalla Corte di Cassazione (15 luglio 2024, n. 19391; conf. Cass. n. 2474/2008 e Cass. n. 6957/2005) in relazione al ricorso di un dipendente di un ‘azienda di credito avverso il diniego di autorizzazione da parte della banca a svolgere l’attività libero professionale di commercialista.
La Corte precisa che gli artt. 2104 e 2105 c.c. non devono essere interpretati in modo restrittivo e cioè non escludono che il dovere di diligenza del lavoratore subordinato “si riferisca anche ai vari doveri strumentali e complementari che concorrono a qualificare il rapporto obbligatorio di durata avente ad oggetto un facere e che l’obbligo di fedeltà vada inteso in senso ampio e si estenda a comportamenti che per la loro natura e le loro conseguenze appaiano in contrasto con i doveri connessi all’inserimento del lavoratore nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa o creino situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi dell’impresa” (così, Cass. n. 11437/1995; nonché Cass. n. 24976/2019, in motivaz. sub p.to 9).
I giudici si pongono in linea con la decisione della Corte d’appello nell’interpretazione dei principi contenuti nel Codice etico e delle norme collettive applicati all’istituto di credito.
L’art. 24 del Codice etico aziendale prevede: “il personale è tenuto all’obbligo di fedeltà nei confronti della società non potendo assumere occupazione alle dipendenze di terzi, ovvero collaborazioni non preventivamente autorizzate”.
E l’art. 38, co.7 (rubricato “Obblighi delle Parti”) del CCNL per i Quadri direttivi e per il personale delle aree professionali dipendenti delle imprese creditizie, finanziarie e strumentali del 31 marzo 2015 e del 19 gennaio 2012 (vigenti all’epoca) stabilisce: “Al personale è vietato in particolare di: a) prestare a terzi la propria opera, salvo preventiva autorizzazione dell’impresa, o svolgere attività comunque contraria agli interessi dell’impresa stessa o incompatibile con i doveri di ufficio”.
In senso analogo, l’art. 34, co. 7, lett. a) del CCNL 8 dicembre 2007, all’epoca vigente, disponeva: “Al personale è vietato in particolare di: a) prestare a terzi la propria opera, salvo preventiva autorizzazione dell’impresa”).
In particolare, secondo la Cassazione, la Corte territoriale ha correttamente sottolineato l’aspecificità dell’attività di esercizio generico dell’attività libero professionale di commercialista (come poche ricca di “sfaccettature” plurime, articolate e diverse) oggetto della richiesta di autorizzazione, giustificante, “in mancanza di più dettagliate indicazioni anche solo di impegno del lavoratore a circoscrivere la propria attività in concreto”, l’adozione del “criterio del “più probabile che non”.
Sentenza
CORTE DI CASSAZIONE 15 luglio 2024, n. 19391
Fatto
1.Con sentenza 24 giugno 2020, la Corte d’appello di Bologna ha rigettato l’appello di S.G. avverso la sentenza di primo grado, di reiezione della sua domanda di riconoscimento del superiore inquadramento contrattuale e trattamento retributivo della 3^ area professionale III livello retributivo del CCNL vigente dall’8 marzo 2010 e del diritto di svolgere l’attività libero professionale di commercialista con i conseguenti riflessi risarcitori per la mancata autorizzazione della Nuova Cassa di Risparmio di Ferrara (poi Nuova C., ora incorporata in B.B.) s.p.a.
2. Come il Tribunale, essa ha ritenuto, in esito ad argomentato scrutinio delle risultanze istruttorie, sotto il primo profilo, la corrispondenza alle mansioni di settorista crediti dell’inquadramento attribuito al lavoratore nella terza area professionale (art. 87 CCNL applicato), comprensivo di “attività caratterizzate generalmente da procedure globalmente standardizzate, con imput prevalentemente predefiniti, tali da richiedere la risoluzione di problemi che presentano ridotte variabili e da limitati compiti di coordinamento o di controllo di altri lavoratori/lavoratrici”, in difetto di prova dell’esercizio, invece proprio dell’inquadramento superiore, di “elevate responsabilità funzionali ed elevata preparazione professionale” ovvero di quella “responsabilità di coordinare (attraverso valutazioni e controlli) il lavoro di operatori di credito, in particolare di rete, che appartenevano alla sua stessa area professionale”.
3. Quanto al diniego di autorizzazione a svolgere attività libero professionale, la Corte territoriale ha parimenti condiviso la valutazione del primo giudice di corretta prospettazione, secondo il criterio del “più probabile che non”, di casi di conflitto di interessi giustificanti il rifiuto datoriale e che escludono il rispetto dei doverosi confini di comportamento di buona fede o delle prerogative del dipendente, senza ragionevole utilità.
4. Con atto notificato il 23 settembre 2020, il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione con un unico motivo, cui la banca ha resistito con controricorso.
5. Il P.G. ha comunicato requisitoria nel senso dell’accoglimento del ricorso.
6. Entrambe le parti hanno comunicato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Ragioni della decisione
1.Con un unico motivo, il lavoratore ha dedotto violazione e falsa applicazione degli artt. 2104 e 2105, in combinato disposto con gli artt. 2106 c.c., 44 e 38, settimo comma, lett. a) CCNL per i Quadri direttivi e per il personale delle aree professionali dipendenti delle imprese creditizie, finanziarie e strumentali del 31 marzo 2015, 38, settimo comma, lett. a) CCNL 19 gennaio 2012, 34, settimo comma, lett. a) CCNL 8 dicembre 2007, nonché dell’art. 24, quarto comma Codice etico dell’allora gruppo C., poi art. 25 Codice etico 2016, per avere la Corte territoriale, ancora più laconicamente del Tribunale (che aveva argomentato le ragioni, anche esemplificate, del potenziale conflitto di interessi, nell’esercizio della libera professione di commercialista “in tutte le sue sfaccettature”, da parte del dipendente della banca richiedente l’autorizzazione ad esso, senza specificare “nulla in merito alla concreta attività da svolgersi in futuro”), “in mancanza di più dettagliate indicazioni anche solo di impegno del lavoratore a circoscrivere la propria attività in concreto”, giustificato il diniego della banca alle due richieste (il primo, in data 20 dicembre 2013, sostanzialmente immotivato e il secondo, in data 6 giugno 2016, per impossibilità del concreto esercizio di un effettivo controllo dello svolgimento, da parte del dipendente, di “attività contrarie agli interessi del Gruppo o incompatibili con i doveri d’ufficio di cui all’art. 24 del vigente Codice etico”): essendo il diniego di autorizzazione in contrasto con le norme di diritto denunciate, diffusamente illustrate, di tutela dell’esercizio, anche da parte del lavoratore dipendente di una banca, della libera professione di commercialista (debitamente regolata dall’iscrizione all’Ordine professionale, sotto i profili deontologico, di controllo e disciplinare), nei limiti legali, contrattual-collettivi e regolamentari interni a protezione della banca e garanzia dei diritti di libertà del lavoratore implicati.
3. Esso è in parte infondato e in parte inammissibile;
4. In linea di premessa generale, giova ribadire che dal collegamento dell’obbligo di fedeltà, previsto dall’art. 2105 c.c., con i principi generali di correttezza e buona fede, a norma degli artt. 1175 e 1375 c.c., deriva che il lavoratore deve astenersi non solo dai comportamenti espressamente vietati dal suddetto art. 2105, ma anche da qualsiasi altra condotta che, per la natura e per le sue possibili conseguenze, risulti in contrasto con i doveri connessi all’inserimento del lavoratore nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa o crei situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi della medesima o sia comunque idonea a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto (Cass. 4 aprile 2005, n. 6957; Cass. 1 febbraio 2008, n. 2474).
Come già precisato da questa Corte, “gli artt. 2104 e 2105 c.c., richiamati dalla disposizione dell’art. 2106 relativa alle sanzioni disciplinari, non vanno interpretati restrittivamente e non escludono che il dovere di diligenza del lavoratore subordinato si riferisca anche ai vari doveri strumentali e complementari, che concorrono a qualificare il rapporto obbligatorio di durata avente ad oggetto un facere, e che l’obbligo di fedeltà vada inteso in senso ampio e si estenda a comportamenti che per la loro natura e le loro conseguenze appaiano in contrasto con i doveri connessi all’inserimento del lavoratore nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa o creino situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi dell’impresa” (Cass. n. 11437/1995)” (Cass. 7 ottobre 2019, n. 24976, in motivazione sub p.to 9).
5. Al riguardo, l’art. 38 (rubricato “Obblighi delle Parti”) del CCNL per i Quadri direttivi e per il personale delle aree professionali dipendenti delle imprese creditizie, finanziarie e strumentali del 31 marzo 2015 e del 19 gennaio 2012, vigenti all’epoca delle due negate autorizzazioni, stabilisce al settimo comma: “Al personale è vietato in particolare di: a) prestare a terzi la propria opera, salvo preventiva autorizzazione dell’impresa, o svolgere attività comunque contraria agli interessi dell’impresa stessa o incompatibile con i doveri di ufficio”.
E analogamente, l’art. 34, settimo comma, lett. a) del previgente CCNL 8 dicembre 2007, secondo cui: “Al personale è vietato in particolare di: a) prestare a terzi la propria opera, salvo preventiva autorizzazione dell’impresa”).
L’art. 24 del codice Etico aziendale prevede: “il personale è tenuto all’obbligo di fedeltà nei confronti della società non potendo assumere occupazione alle dipendenze di terzi, ovvero collaborazioni non preventivamente autorizzate”.
6. Non si configura, pertanto, la violazione delle norme di legge denunciate, in assenza di errori di diritto, neppure sotto il profilo del vizio di sussunzione (Cass. 30 aprile 2018, n. 10320; Cass. 25 settembre 2019, n. 23851).
Il ricorrente si duole piuttosto di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerente alla tipica valutazione del giudice di merito, censurabile in sede di legittimità solo sotto l’aspetto del vizio di motivazione (Cass. 11 gennaio 2016, n. 195; Cass. 13 ottobre 2017, n. 24155; Cass. 29 ottobre 2020, n. 23927), oggi peraltro nei rigorosi limiti del novellato art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c. (qui inammissibile, nella ricorrenza di ipotesi di doppia conforme).
6.1. Nel caso di specie, la Corte d’appello, nell’interpretare i dinieghi di autorizzazione – riservata esclusivamente al giudice di merito e insindacabile in sede di legittimità laddove adeguatamente argomentata (Cass. 10 gennaio 2004, n. 219; Cass. 4 maggio 2009, n. 10232; Cass. 28 giugno 2017, n. 16181; Cass. 26 luglio 2019, n. 20294) – ha esattamente applicato i su enunciati principi di diritto e le trascritte norme di CCNL e di Codice etico, con argomentazione congrua.
In particolare, essa ha compiuto una distinzione corretta tra il criterio di lettura interpretativa adottabile in sede disciplinare (ex post) e invece di autorizzazione in via preventiva (ex ante), sottolineando l’aspecificità dell’attività (di generico esercizio dell’attività libero professionale di commercialista, come poche altre tanto ricca di articolate e diverse plurime “sfaccettature”) oggetto della richiesta di autorizzazione, ben giustificante, “in mancanza di più dettagliate indicazioni anche solo di impegno del lavoratore a circoscrivere la propria attività in concreto”, l’adozione del “criterio del “più probabile che non”” (così all’ultimo capoverso di pg. 4 della sentenza).
6.2. La censura si risolve allora in una diversa interpretazione e valutazione delle risultanze processuali e della ricostruzione della fattispecie operata dalla Corte territoriale, insindacabili in sede di legittimità (Cass. 7 dicembre 2017, n. 29404; Cass. S.U. 27 dicembre 2019, n. 34476; Cass. 4 marzo 2021, n. 5987), esse spettando in via esclusiva al giudice del merito, autore di un accertamento in fatto, argomentato in modo pertinente e adeguato a giustificare il ragionamento logico giuridico alla base della decisione.
7. Pertanto il ricorso dichiarato rigettato, con la regolazione delle spese del giudizio secondo il regime di soccombenza e raddoppio del contributo unificato, ove spettante nella ricorrenza dei presupposti processuali (conformemente alle indicazioni di Cass. S.U. 20 settembre 2019, n. 23535).
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il lavoratore ricorrente alla rifusione, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida in € 200,00 per esborsi e € 5.500,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali in misura del 15%.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13, se dovuto.