L’assegnazione del prestatore a mansioni inferiori in seguito alla privatizzazione del rapporto di lavoro costituisce un illecito permanente che viola il principio di conservazione della professionalità acquisita.
Nota a Cass. (ord.) 13 settembre 2024, n. 24589
Kevin Puntillo
“La protrazione nel tempo della condotta datoriale di adibizione del lavoratore a mansioni inferiori costituisce un illecito di natura permanente”. Tale illecito si configura “quando la situazione illecita viene instaurata dalla condotta iniziale, a cui si accompagna il mantenimento della medesima situazione, di fatto o di diritto, sicché per la cessazione dell’offesa agli interessi tutelati è necessaria un’ulteriore condotta, contraria alla precedente, idonea a rimuovere (integralmente) la predetta situazione; una situazione illecita (e pregiudizievole per il diritto alla professionalità del dipendente) che può venire meno solo se e quando il datore di lavoro adibisca il dipendente a mansioni che rispettino i limiti posti dal legislatore”.
Non rileva che l’atto datoriale che determina la situazione antigiuridica “sia uno, atteso che quello è solo l’atto iniziale, che instaura appunto la situazione antigiuridica; la condotta datoriale illecita non si esaurisce con quell’atto, ma si protrae con il volontario mantenimento di quell’adibizione giorno per giorno, fino a quando tale protrazione non cessi con un nuovo atto di adibizione ad altre mansioni”. Se ciò non si verifica, la situazione antigiuridica permane per una scelta propria e volontaria del datore di lavoro, concretizzandosi un illecito permanente.
Lo ribadisce la Corte di Cassazione (ord. 13 settembre 2024, n, 24589; v. anche Cass. n. 11870/2024), in linea con la Corte territoriale, in una fattispecie in cui il lavoratore ricorrente, già dipendente dei servizi di telefonia del settore pubblico, poi transitato in quelli del settore privato, aveva dedotto l’erroneo inquadramento avvenuto in occasione della cd. privatizzazione del suo rapporto di lavoro, in violazione del principio di tutela della professionalità acquisita, per mancanza di corrispondenza tra la qualifica rivestita e quella assegnatagli in forza delle tabelle di equiparazione all’epoca concordate in sede sindacale, chiedendo l’accertamento di illegittimità delle suddette tabelle e del suo diritto all’inquadramento superiore, con condanna alle differenze retributive maturate.
Al riguardo, i giudici hanno precisato che in seguito al passaggio dei servizi di telefonia dal settore pubblico al settore privato, regolamentato dalla L. n. 58/1992 e dagli accordi sindacali indicati dalle parti, il raffronto tra l’inquadramento d’origine e quello conseguito dopo il passaggio doveva avvenire “sulla base di tabelle di equiparazione finalizzate a garantire il mantenimento della professionalità acquisita e di un trattamento economico globalmente non inferiore a quello precedentemente goduto”, non mediante “una corrispondenza meccanica e assoluta con le qualifiche di provenienza”. Si sarebbe dovuto procedere ad un esame complessivo delle qualifiche o dei livelli di volta in volta presi in considerazione, “in vista anche dell’esigenza di un raccordo tra i diversi sistemi di classificazione e di inquadramento propri del sistema pubblicistico dell’A. e, rispettivamente, delle società che ad essa per legge si sono sostituite” (v. Cass. n. 24231/2010);
Peraltro, specifica la Corte, “la previsione di apposite tabelle di equiparazione non preclude la verifica circa l’effettiva equivalenza delle posizioni di lavoro, potendo il giudice disapplicare tali tabelle laddove – in base a un raffronto complessivo tra le qualifiche o i livelli di volta in volta presi in considerazione – non riscontri corrispondenza tra la categoria di provenienza ed il nuovo livello attribuito in sede di passaggio all’impiego privato” (v. Cass. nn. 6791/2018; 23140/2021;3822/2021).
Sentenza
CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 13 settembre 2024, n. 24589
Rilevato che
1.la Corte d’Appello di Milano ha respinto l’appello avverso la sentenza del Tribunale della stessa sede, con la quale era stato dichiarato il diritto di F.P. all’inquadramento nel IV livello CCNL SIP dall’1.11.1993, poi livello F CCNL TLC 1996, attuale VI livello CCNL 2000, con diritto alle conseguenze normative ed economiche nei limiti della prescrizione quinquennale maturata alla data del 18.7.2012, e condannata la società ad adibire lo stesso a mansione uguali o corrispondenti a quelle svolte presso A.;
2. il dipendente originario ricorrente, già dipendente pubblico di A., poi transitato in I. e quindi in T., aveva dedotto errore di inquadramento avvenuto in occasione della cd. privatizzazione del suo rapporto di lavoro, in violazione del principio di tutela della professionalità acquisita, per mancanza di corrispondenza tra la qualifica rivestita e quella assegnatagli in forza delle tabelle di equiparazione all’epoca concordate in sede sindacale, chiedendo l’accertamento di illegittimità delle suddette tabelle quanto alla specifica applicazione nei suoi confronti, e quindi concludendo per l’accertamento del suo diritto all’inquadramento superiore, con condanna alle differenze retributive maturate; le sue domande erano state accolte dal Tribunale;
3. la Corte di merito, in sintesi, ha escluso l’avvenuta prescrizione del diritto all’inquadramento superiore e alle differenze retributive, per la natura permanente del sotto-inquadramento, non superata dal riconoscimento (nel 2005) del V livello CCNL vigente, oggetto di domanda subordinata; ha altresì escluso la prescrizione del diritto in costanza di rapporto, in seguito all’incidenza sulla prescrizione dei crediti di lavoro delle modifiche in materia di reintegrazione nel rapporto di lavoro ad opera della legge n. 92/2012, che ha fortemente ridimensionato tale forma di tutela, ora ”riservata ad ipotesi residuali, che fungono da eccezione rispetto alla tutela indennitaria”; ha specificato che, pur non applicandosi direttamente alla fattispecie la regola di cui all’art. 2103 c.c., era stata accertata l’illegittimità dell’inquadramento del dipendente operata ai sensi della legge n. 58/1992, perché non rispettoso del principio di conservazione della professionalità; ha affermato il valore solo ricognitivo, e non costitutivo della qualifica, delle tabelle di equiparazione, legittime a condizione di rispettare l’equivalenza delle posizioni messe a confronto; in fatto, ha ritenuto che la posizione di inquadramento del dipendente, tale da assicurarne la tutela della professionalità acquisita, era da individuarsi (non in quella applicata, ma) in quella oggetto di domanda del lavoratore e riconosciuta dal Tribunale;
4. per la cassazione della predetta sentenza ricorre la società con unico articolato motivo, illustrato da memoria; resiste il lavoratore con controricorso; al termine della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza;
Considerato che
1.la società ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 2948 e 2946 c.c., in uno con gli artt. 2934, 2935, 2936, 2941, 2942, 2943 c.c., in relazione all’art. 2103 c.c., all’art. 4 legge n. 58/1992, agli artt. 2697 c.c., 115 c.p.c., 18 legge n. 300/1970, come modificato dalla legge n. 92/2012, oltre all’art. 12 Preleggi; sostiene di avere adempiuto sin dall’inizio del rapporto di lavoro alle prescrizioni normative, avendo applicato le tabelle di equiparazione in esecuzione della legge n. 58/1992 e degli Accordi Sindacali attuativi, reinquadrando il lavoratore non ai sensi dell’art. 2103 c.c., ma della legge speciale; assume che ciò escluderebbe, anche tenuto dei successivi inquadramenti ottenuti, la natura di illecito permanente ravvisata dalla Corte di Milano; contesta, inoltre, la ritenuta imprescrittibilità del diritto all’inquadramento superiore, nonostante la privatizzazione del rapporto a decorrere dal 1993, e la ritenuta sospensione della prescrizione a decorrere dal 18.7.2012 con l’entrata in vigore della legge n. 92/2012;
2. il ricorso non è fondato;
3. come già osservato da questa Corte in precedenti pronunce alle quali il Collegio intende dare continuità, il passaggio dei servizi di telefonia dal settore pubblico al settore privato, regolamentato dalla legge n. 58/1992 e dagli accordi sindacali indicati dalle parti, ha comportato che il raffronto tra l’inquadramento posseduto presso A. e quello conseguito con il passaggio a I. e poi alla S., avvenisse sulla base di tabelle di equiparazione finalizzate a garantire il mantenimento della professionalità acquisita e di un trattamento economico globalmente non inferiore a quello precedentemente goduto, senza che il raffronto dovesse avvenire in base ad una corrispondenza meccanica e assoluta con le qualifiche di provenienza, ma attraverso un esame complessivo delle qualifiche o dei livelli di volta in volta presi in considerazione, in vista anche dell’esigenza di un raccordo tra i diversi sistemi di classificazione e di inquadramento propri del sistema pubblicistico dell’A. e, rispettivamente, delle società che ad essa per legge si sono sostituite (così Cass. n. 24231/2010);
4. la previsione di apposite tabelle di equiparazione non preclude la verifica circa l’effettiva equivalenza delle posizioni di lavoro, potendo il giudice disapplicare tali tabelle laddove – in base a un raffronto complessivo tra le qualifiche o i livelli di volta in volta presi in considerazione – non riscontri corrispondenza tra la categoria di provenienza ed il nuovo livello attribuito in sede di passaggio all’impiego privato (Cass. n. 1249/2015; cfr. anche Cass. n. 6791/2018, n. 23140/2021, n. 3822/2021);
5. la protrazione nel tempo della condotta datoriale di adibizione del lavoratore a mansioni inferiori costituisce un illecito di natura permanente, e in questo senso le conseguenze del sotto inquadramento iniziale (nella fase di transito dal lavoro pubblico a quello privato regolata dalla legge speciale) in violazione del principio di tutela della professionalità acquisita, come accertato in fatto, non si differenziano da quelle generali, nel senso di fondare il diritto all’inquadramento alle mansioni spettanti e alle differenze retributive;
6. l’illecito è permanente quando la situazione illecita viene instaurata dalla condotta iniziale, a cui si accompagna il mantenimento della medesima situazione, di fatto o di diritto, sicché per la cessazione dell’offesa agli interessi tutelati è necessaria un’ulteriore condotta, contraria alla precedente, idonea a rimuovere (integralmente) la predetta situazione; una situazione illecita (e pregiudizievole per il diritto alla professionalità del dipendente), che può venire meno solo se e quando il datore di lavoro adibisca il dipendente a mansioni che rispettino i limiti posti dal legislatore; a nulla rileva che l’atto datoriale che instaura la situazione antigiuridica sia uno, atteso che quello è solo l’atto iniziale, che instaura appunto la situazione antigiuridica; la condotta datoriale illecita non si esaurisce con quell’atto, ma si protrae con il volontario mantenimento di quell’adibizione giorno per giorno, fino a quando tale protrazione non cessi con un nuovo atto di adibizione ad altre mansioni; se ciò non si verifica, la situazione antigiuridica permane per una scelta propria e volontaria del datore di lavoro, e si è al cospetto di un illecito permanente, come esattamente ritenuto dai giudici d’appello (cfr., da ultimo, per una compiuta ricostruzione sistematica dell’istituto, anche con riferimento alla modifica dell’art. 2103 c.c. disposta dall’art. 3 del d.lgs. n. 81 del 2015, Cass. n. 11870/2024, e giurisprudenza ivi richiamata);
7. quanto ai profili relativi alla decorrenza della prescrizione in corso di rapporto di lavoro, questa Corte, con orientamento ormai consolidato, ha affermato che il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, come modulato per effetto della legge n. 92 del 2012 e del d.lgs. n. 23 del 2015, mancando dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e di una loro tutela adeguata, non è assistito da un regime di stabilità, sicché, per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della legge n. 92 del 2012 , il termine di prescrizione decorre, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4, e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro (Cass. n. 26246/2022, nonché, tra le molte conformi, Cass. n. 29831/2022, n. 30957/2022, n. 30958/2022, n. 36932/2022, n. 4186/2023, n. 4321/2023);
8. in ragione della soccombenza parte ricorrente deve essere condannata alla rifusione delle spese del presente giudizio in favore di parte controricorrente, liquidate come da dispositivo, con distrazione in favore del difensore dichiaratosi antistatario;
9. al rigetto dell’impugnazione consegue il raddoppio del contributo unificato, ove dovuto nella ricorrenza dei presupposti processuali;
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio, che liquida in € 5.000 per compensi, € 200 per esborsi, spese generali al 15%, accessori di legge, da distrarsi.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.