I proventi derivanti dalla vendita delle c.d. stock option costituiscono parte integrante della retribuzione.

Nota a App. Milano 13 maggio 2024, n. 470

Francesco Belmonte

I proventi derivanti dall’esercizio delle stock option, se continuativi e non occasionali, devono essere inclusi nel calcolo della retribuzione mensile di riferimento e, di conseguenza, anche nel TFR e nelle indennità di cessazione del rapporto di lavoro.

A stabilirlo è la Corte d’Appello di Milano (13 maggio 2024, n. 470) nell’ambito di una controversia concernente, tra l’altro, l’inclusione nel computo della retribuzione di un dirigente, licenziato per giusta causa, degli importi derivanti dalla vendita delle stock option. Il lavoratore, in particolare, sosteneva che queste ultime avevano natura retributiva considerata la loro regolarità e non occasionalità, in quanto erogate con cadenza predeterminata e rientranti in piani triennali o quadriennali.

Diversamente dal giudice di primo grado (Trib. Milano n. 2183/2023) – che aveva estromesso tali proventi dalla retribuzione, in ragione della sussistenza di un regolamento aziendale che li escludeva dal calcolo della retribuzione globale di fatto – la Corte meneghina assume una posizione diametralmente opposta, sorretta dalla normativa applicabile al caso di specie.

Ad avviso dei giudici di secondo grado, difatti, il Tribunale non aveva correttamente considerato il combinato disposto degli artt. 2099, 2118, 2120 e 2121 c.c., nonché i principi elaborati dalla Corte di Cassazione in materia.

In base all’art. 2099, co. 3, c.c.: “il prestatore di lavoro può anche essere retribuito in tutto o in parte con partecipazione agli utili o ai prodotti, con provvigione o con prestazioni in natura“.

Il preavviso è regolato dall’art. 2118 c.c., che rinvia, per la determinazione, alla disciplina del ccnl di settore, e dall’art. 2121 c.c., il quale, ai commi 1 e 2, sancisce che: “L’indennità di cui all’articolo 2118 deve calcolarsi computando le provvigioni, i premi di produzione, le partecipazioni agli utili o ai prodotti ed ogni altro compenso di carattere continuativo, con esclusione di quanto è corrisposto a titolo di rimborso spese.

Se il prestatore di lavoro è retribuito in tutto o in parte con provvigioni, con premi di produzione o con partecipazioni, l’indennità suddetta è determinata sulla media degli emolumenti degli ultimi tre anni di servizio o del minor tempo di servizio prestato“.

In relazione al Trattamento di fine rapporto (TFR), l’art. 2120 c.c., prevede che: “Salvo diversa previsione dei contratti collettivi la retribuzione annua, ai fini del comma precedente, comprende tutte le somme, compreso l’equivalente delle prestazioni in natura, corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro, a titolo non occasionale e con esclusione di quanto è corrisposto a titolo di rimborso spese“.

Nella specie, l’art. 24 del ccnl di settore non opera alcuna deroga, stabilendo che “per il computo del trattamento di fine rapporto, si considerano, oltre allo stipendio, tutti gli elementi costitutivi della retribuzione aventi carattere continuativo, ivi compresi le provvigioni, i premi di produzione ed ogni altro compenso ed indennità anche se non di ammontare fisso, con esclusione di quanto corrisposto a titolo di rimborso spese e di emolumenti di carattere occasionale. Fanno altresì parte della retribuzione l’equivalente del vitto e dell’alloggio eventualmente dovuti al dirigente nella misura convenzionalmente concordata, nonché le partecipazioni agli utili e le gratifiche non consuetudinarie e gli aumenti di gratifica pure non consuetudinari, corrisposti in funzione del favorevole andamento aziendale“.

Dall’esegesi delle citate norme, i Giudici fanno discendere che “ogni elemento della retribuzione non occasionale e non erogato a titolo di puro rimborso spese, debba incidere nel computo del TFR e debba altresì essere considerato, quale media nel triennio precedente, per il calcolo dell’indennità sostitutiva del preavviso. Una deroga al predetto principio generale, in tema di TFR, è, infatti, ammessa solo nel caso di diversa previsione della contrattazione collettiva di settore, mentre per il calcolo dell’indennità sostitutiva del preavviso valgono solo i principi dell’art. 2121 c.c., senza possibilità di deroga delle parti.”

Sul punto, la giurisprudenza di legittimità è univoca nel ritenere che “Ai fini del calcolo del t.f.r. i criteri di quantificazione della retribuzione annua fissati dall’art. 2120 c.c. nuovo testo possono essere derogati solo dalla normativa collettiva intervenuta successivamente all’entrata in vigore della norma di legge” (Cass. n. 23932/02019; Cass. n. 18207/2012). Inoltre: “Il concetto di retribuzione recepito dagli art. 2118, co. 2, c.c. (ai fini del calcolo dell’indennità di preavviso in caso di licenziamento) e 2120 c.c. (ai fini del calcolo del TFR) è ispirato al criterio dell’onnicomprensività, nel senso che in detti calcoli vanno compresi tutti gli emolumenti che trovano la loro causa tipica e normale nel rapporto di lavoro cui sono istituzionalmente connessi, anche se non strettamente correlati alla effettiva prestazione lavorativa, mentre ne vanno escluse solo quelle somme rispetto alle quali il rapporto di lavoro costituisce una mera occasione contingente per la relativa fruizione, quand’anche essa trovi la sua radice in un rapporto obbligatorio diverso ancorché collaterale e collegato al rapporto di lavoro” (Cass. n. 16636/2012).

Alla luce di tali principi la Corte d’Appello di Milano ha dunque ritenuto che le stock option costituiscono una forma di retribuzione tramite partecipazione agli utili, consentita dall’art. 2099 c.c.

Sentenza

App. Milano 13 maggio 2024, n. 470

Svolgimento del processo

con sentenza n. 2183/2023, pubblicata il 27/06/2023, il Tribunale Ordinario di Milano, Sezione Lavoro (Dott.ssa (…)) ha parzialmente accolto il ricorso proposto da (…) nei confronti di (…) e ha compensato le spese di lite.

Con ricorso del 3 novembre 2022, (…) conveniva in giudizio (…) chiedendo al Tribunale di:

– accertare e dichiarare che costituiscono retribuzione e, quindi, incidono sul computo dell’indennità sostitutiva del preavviso, dell’indennità supplementare e del TFR, gli importi corrisposti al lavoratore a titolo di: (…) ricavato dell’esercizio delle stock option; indennità estero e, per l’effetto:

– condannare (…) a versare l’importo di euro 33.604,25 quale incidenza sul TFR delle indennità estero percepite;

– condannare la società a versare al lavoratore il TFR sull’importo del complessivo ricavato dall’esercizio delle stock option negli anni 2009, 2015 e 2019;

– accertare e dichiarare l’insussistenza di giusta causa e l’ingiustificatezza del licenziamento intimato in data 16.5.2022 e condannare la convenuta a corrispondere:

– l’importo lordo di euro 784.423,80 a titolo di indennità sostitutiva del preavviso, oltre all’importo lordo di euro 58.105,50 a titolo di incidenza sul TFR dell’indennità sostitutiva del preavviso;

– l’importo lordo di euro 1.568.847,61 a titolo di indennità supplementare ex art. 19 e 22 CCNL Dirigenti di aziende produttive di beni e servizi;

– l’importo lordo di 440.000,00 a titolo di LTI, eventualmente anche pro quota;

– accertare e dichiarare che il sig. (…) non è Bad Leaver: quindi, ha diritto di esercitare tutte le stock option assegnate; condannare per l’effetto (…) a corrispondere l’importo di euro 218.186,60, corrispondente al ricavato delle azioni assegnate, oppure, alternativamente, disporre che la società consenta al lavoratore di esercitare il diritto di opzione per 23.250 azioni;

– condannare la società al risarcimento del danno subito corrispondente ai costi sostenuti per accedere alla c.d. quota 100 per un importo di euro 226.225,40;

– condannare la società a rimborsare i costi di rientro in Italia a seguito dell’illegittimo recesso, nell’importo di euro 22.727,90;

– condannare la società al rimborso delle eventuali spese di consulenza fiscale per la redazione delle dichiarazioni dei redditi i cui costi erano stati assunti da (…). Il lavoratore deduceva di essere stato assunto da (…) nel 2004, con qualifica di dirigente e funzioni di Group CCO e Responsabile Marketing e di aver ricoperto, nel corso degli anni, importanti incarichi all’interno dell’azienda, che hanno portato da ultimo a un suo distacco a Columbus, Georgia, USA.

Con lettera del 3 maggio 2022, gli venivano contestati dalla società comportamenti risalenti al 2020/2021 ritenuti irrispettosi di alcuni suoi collaboratori.

Dopo aver presentato le proprie giustificazioni, in data 16 maggio 2022 veniva licenziato per giusta causa.

Il sig. (…) decideva dunque di fare ritorno in Italia e di fruire dell’opzione c.d. quota 100 per il trattamento pensionistico. A tal fine, riscattava un periodo del corso di laurea.

(…) si costituiva in giudizio contestando in fatto e in diritto le domande avversarie e insistendo per il rigetto del ricorso.

Fallita la conciliazione, la causa è stata decisa dal Tribunale con sentenza n. 2183/23 (est. dott.ssa (…)).

Il giudice di prime cure ha riportato, preliminarmente, il contenuto della lettera del 3 maggio 2022, nella quale, in sintesi, si contestavano al lavoratore: a) problematiche nell’implementazione del procedimento di riduzione del personale;

b) gestione non professionale, con particolare riferimento al mancato rispetto delle norme sull’utilizzo delle mascherine in epoca Covid; c) esercizio di un potere di controllo sui dipendenti tale da sfociare in giudizi idonei a ledere la professionalità e rispettabilità di questi ultimi, creando così un ambiente di lavoro ostile.

Successivamente, il Giudice ha riportato le testimonianze di alcuni dipendenti di (…), ossia quelle di (…), (…) (…)

La società ha poi prodotto la dichiarazione di altri dipendenti di (…) ((…) e (…) il quale si sarebbe dimesso a causa dei comportamenti ostili del (…)).

Dalle dichiarazioni dei testi, il Tribunale ha ritenuto che non sia stata raggiunta la prova circa la contestazione sub b) relativa alle mascherine in epoca Covid. Invero, la circostanza secondo la quale il dirigente avrebbe chiesto di non indossare i DPI sarebbe stata smentita dal teste (…)

Per quanto riguarda la contestazione sub a), con particolare riferimento alla cessazione del rapporto con (…), il ruolo del (…) non è parso determinante, dal momento che la decisione di porre fine al rapporto con (…) era del gruppo ed era stata comunicata al teste (…) dal teste (…) Per quanto attiene alla contestazione sub c), il Giudice ha ritenuto censurabili le modalità con le quali il sig. (…) rimproverava i sottoposti, ma non i rimproveri in sé. In particolare, la dichiarazione di (…) riferiva che spesso il sig. (…) perdeva le staffe e urlava contro i dipendenti. Tale posizione sarebbe stata confermata dalla dichiarazione di (…)

Il Tribunale, dopo aver ammesso le prove atipiche – ovverosia le dichiarazioni di (…) e (…) – ha ritenuto che dalle stesse e dalla testimonianza di (…) emergesse che il sig. (…) avesse utilizzato in più occasioni toni offensivi nei confronti dei propri collaboratori.

Tale condotta sarebbe idonea a giustificare il licenziamento del dirigente sotto il profilo della giustificatezza, ma non della giusta causa di recesso del rapporto. In particolare, gli atteggiamenti aggressivi nei confronti dei collaboratori possono minare la fiducia del datore di lavoro riposta nel dirigente.

Il primo giudice ha rilevato quindi che è stata raggiunta la prova circa due episodi lesivi del vincolo fiduciario, senza che si sfociasse tuttavia in frasi lesive o diffamatorie.

Ha dunque riconosciuto il diritto del dirigente all’indennità di mancato preavviso da quantificarsi, in ragione di un’anzianità di oltre 15 anni, in 12 mesi di preavviso (art. 23 CCNL di settore).

Quantificava la mensilità in euro 43.259,32, non includendovi né l’importo percepito per le stock options, né l’indennità per l’estero. Ciò in quanto nella side letter del 5 luglio 2019, sottoscritta dal (…) al momento del distacco in Usa, si prevederebbe espressamente che l’indennità estero non costituisce “retribuzione aggiuntiva”.

Inoltre, nel regolamento EPTA 2019-2022, si escluderebbe espressamente che il piano di stock options possa essere considerato parte integrante della retribuzione, dato il suo carattere di straordinarietà.

L’insussistenza della giusta causa ha consentito di accogliere la domanda di pagamento di euro 218.186,60 corrispondente al ricavato delle azioni assegnate e in relazione alle quali non è stato consentito al sig. (…) l’esercizio del diritto di opzione. Infatti, il regolamento prevede tale preclusione solo in caso di Bad Leaver, ossia di cessazione del rapporto per giusta causa.

Il Giudice ha, altresì, rigettato la richiesta di euro 440.000,00 a titolo di LTI (Long Term Incentive 2019-2022), in quanto riferiti a un obiettivo e generico non definito, la cui verificazione, o meno, non può essere accertata. Il Tribunale ha, inoltre, condannato (…) alla corresponsione di euro 22.727,90 a titolo di rimborso dei costi sostenuti dal dirigente per il rientro in Italia, stante l’assenza della giusta causa di recesso. Tale rimborso trova fondamento nella side letter nella quale la società si è dichiarata disponibile al pagamento (doc. 5 ric.). Il Tribunale ha, invece, ritenuto esplorativa la richiesta di rimborso delle spese di “eventuale” consulenza fiscale, le quali sono incerte sia nell’an sia nel quantum. Infine, il giudice di prime cure ha rigettato la richiesta di rimborso relativo al costo sostenuto per il parziale riscatto della laurea al fine di accedere a quota 100 perché l’accordo di rimborso esistente tra le parti – concluso con la side letter del 5/7/2019 – si riferiva esclusivamente all’interruzione preventiva del distacco. In ogni caso, secondo il Tribunale, difetta il nesso di causalità tra l’allegato inadempimento e il preteso danno.

Avverso tale sentenza il sig. (…) con atto depositato in data 24/10/2023, ha proposto appello per i seguenti motivi:

1) Violazione dei principi in tema di immediatezza della contestazione e sull’onere della prova, ex art. 2697 c.c., avendo la sentenza ritenuta tempestiva la contestazione.

Preliminarmente, il lavoratore rileva che la società aveva dedotto in primo grado che la dott.ssa (…), nuova responsabile delle Risorse Umane, aveva appreso i fatti poi contestati appena giunta in azienda, quindi “nel mese di gennaio 2022” (cfr. memora dif. Cap. 71-73, pag. 21). Di conseguenza, dal momento che la società avrebbe impiegato circa 4 mesi per notificare al sig. (…) la lettera di contestazione, quest’ultima sarebbe affetta da vizio di tardività. Vieppiù che i fatti indicati risalirebbero al 2020 e al 2021, ossia risalenti a uno, se non due anni prima.

Secondo l’appellante, non sarebbe, quindi, stata fatta una corretta valutazione degli elementi in atti, in violazione degli art. 115 e 116 c.p.c., né il Tribunale avrebbe considerato che l’onere della prova, anche in tema di tempestività, è in capo alla società, che nulla aveva dedotto e provato circa i tempi necessari ad appurare fatti, peraltro molto risalenti.

2) Violazione e/o falsa applicazione degli art. 115 e 116 c.p.c., nonché dell’art. 2697 c.c., in quanto la sentenza, laddove ha ritenuto giustificato il licenziamento, non ha considerato il complessivo esito delle prove testimoniali ed ha anche basato la decisione su dichiarazioni scritte non confermate in giudizio.

Parte appellante rammenta che la lettera di contestazione addebita al sig. (…) di aver “posto in essere dei comportamenti irrispettosi, tali da ledere la professionalità ed immagine dei Suoi collaboratori, così creando un ambiente di lavoro ostile”.

Elemento centrale della contestazione sarebbe non solo e non tanto il comportamento tenuto dall’ing. (…), ma il suo effetto, ovverosia “un ambiente di lavoro particolarmente ostile, stressante e lesivo della salute dei dipendenti stessi”.

Orbene, di ciò non sarebbe emersa alcuna prova nel corso dell’istruttoria e ben poco sarebbe anche desumibile dalle dichiarazioni di alcuni dipendenti prodotte dalla società.

Inoltre, dovrebbe ritenersi pacifico che praticamente tutte le esemplificazioni indicate a supporto dalla società non sono risultate provate. Anzi, sarebbe emerso che nulla poteva addebitarsi al sig. (…).

Per quanto riguarda le contestazioni riferibili alla gestione della cessazione dei rapporti di lavoro tra (…) e alcuni dipendenti, indicate nella lettera di contestazione sub a), dalle prove acquisite in primo grado non sarebbe stata confermata alcuna problematica circa il licenziamento di più dipendenti, né tantomeno cause con esiti pregiudizievoli per la società; la decisione di non concedere un incentivo sarebbe stata del tutto legittima e spettava all’ing. (…), quale responsabile di (…) la scelta di incentivare la sig. (…) alla pensione è sostanzialmente riferibile al dott. (…)

Anche per quanto attiene al clima ostile che si sarebbe creato sul luogo di lavoro l’appellante indica l’insufficienza probatoria e, con particolare riferimento alla posizione del sig. (…) rileva che quest’ultimo si sarebbe dimesso avendo trovato un altro lavoro (cfr. doc. avv. n. 8 quater, fasc. di primo grado), come ammesso anche dal teste (…) (che ha dichiarato ” (…) si è dimesso non è stato licenziato perché ha trovato un nuovo lavoro). Il dott. (…) che, pure, a dire dell’azienda (V. cap. 96 primo grado), avrebbe dovuto essere stato informato in merito dal sig. (…), non ha confermato tali fatti, affermando “Ricordo dimissioni negli USA nel marketing ma non so riferire circostanze specifiche”.

La società ha anche prodotto una dichiarazione del sig. (…) (che tutt’ora lavora per (…), redatta dopo la notifica del ricorso (essendo datata 16 gennaio 2023), che, premesso di aver lavorato per la società dal 2019 ad agosto 2021 e promosso da ultimo a Direttore Marketing, ha affermato di aver lasciato l’azienda in quanto “la leadership di (…) ha creato un ambiente di lavoro instabile, in cui non sentivo un vero senso di sicurezza sul lavoro” (cfr. doc. avv. 13/13bis).

Nella dichiarazione non si farebbe riferimento ad atteggiamenti “ostili” o di sentirsi “bersagliato”, né a una “lista di (…)”, ma alle modalità con cui operava il ricorrente (ovvero il fatto di intervenire nelle riunioni, dare ordini anche a suoi collaboratori, ecc..), a lui evidentemente non gradite, anche se del tutto legittime, visto che il ricorrente era il responsabile di (…) e delle altre società americane. A prescindere che detta dichiarazione non è stata dal medesimo confermata in sede di giudizio, non sarebbe comunque idonea a supportare quanto oggetto di contestazione, anche perché la società non ha minimamente provato che si trattava di un dipendente altamente qualificato, ovvero importante per l’organizzazione e/o difficilmente sostituibile, visto che il dott. (…) neppure si ricordava qualcosa di specifico riferibile al sig. (…) e, tantomeno, un teste ha dichiarato che le sue dimissioni avrebbero creato pregiudizio alla società.

Per quanto riguarda le misure anti-Covid, la stessa sentenza di primo grado ha smentito la fondatezza di ogni contestazione sul mancato rispetto delle stesse da parte del (…). Di conseguenza, non possono assurgere a causa giustificativa del recesso.

Allo stesso modo, la sentenza ha dato atto che nessun ruolo determinante può essere stato ricoperto dal (…) riguardo alla cessazione del rapporto di lavoro con (…).

Per quanto riguarda il punto c) della lettera di contestazione, esso si fonderebbe principalmente su due episodi avvenuti nel corso di una conference call del 10 settembre 2021, di cui uno riferito al sig. (…), che “Lei ha bruscamente interrotto dicendogli “Non sei tu quello che ha raccomandato (…).

Allora non abbiamo bisogno della tua opinione, abbiamo solo bisogno di fatti” e l’altro al dott. (…), nei cui confronti l’ing. (…) avrebbe “alzato la voce … sminuendo e mortificando ..di fronte ai propri colleghi di lavoro”.

Inoltre si addebita al (…) un frequente utilizzo di toni particolarmente offensivi.

L’appellante sottolinea che nulla sarebbe risultato provato nel corso dell’istruttoria circa asseriti comportamenti offensivi o umilianti del ricorrente nei confronti del dott. (…) e del sig. (…) a cui il sig. (…) non ha fatto minimamente cenno, né i fatti dedotti dalla società sono stati confermati dal dott. (…)

Il primo giudice avrebbe dunque errato nel rilevare la mancanza di prova circa i fatti contestati, salvo poi dare rilievo ai toni con cui sono avvenuti i richiami nei confronti del sig. (…).

Il Tribunale avrebbe altresì errato nel porre a fondamento della propria decisione la dichiarazione del sig. (…) Infatti, quest’ultima è stata richiamata a supporto di quanto sarebbe avvenuto nei confronti del sig. (…) durante la conference call del 10 settembre 2021, ancorché questa sia difforme rispetto a quanto contestato nella lettera del 3 maggio e alle dichiarazioni rese in udienza dal sig. (…), visto che con riferimento a quest’ultimo si limita a dire che “il signor (…) ha nuovamente perso le staffe, questa volta prendendosela con il nostro (…) Manager locale, (…)”, mentre il resto è riferito al “signor (…) … interrompendolo e mettendosi letteralmente a urlare” (cfr. doc. avv. 9/9bis, fasc. di primo grado).

Sarebbero stati quindi sovrapposti dei fatti indicati in contestazione con altri invece esclusi.

Il giudice di primo grado non avrebbe valutato tali difformità, né che nulla era stato confermato dal sig. (…) con riferimento al dott. (…) e neppure con riferimento al sig. (…).

La gravata sentenza avrebbe dunque erroneamente fatto assurgere a prova il contenuto di due dichiarazioni, rilasciate ad hoc, sulla base della lettera di contestazione (persino richiamata) e prodotte dalla società per cui non vi erano anche analoghe ed univoche dichiarazioni testimoniali posto che uno dei due testi della società nulla ha confermato di quanto ex adverso dedotto a prova e l’unico teste di parte ricorrente, sig. Testimone_i ha dichiarato di non aver

“assistito a episodi di dissidio tra (…) e altri collaboratori”.

3) Violazione ed errata applicazione del concetto di giustificatezza di cui al CCNL Dirigenti Aziende industriali, con riferimento al capo di sentenza in cui è stato ritenuto legittimo, sotto tale profilo, il licenziamento, a fronte di un solo fatto emerso, neppure disciplinarmente rilevante, nonostante la contestazione fosse basata su plurimi fatti, volti complessivamente a dimostrare un preteso “ambiente di lavoro ostile”, in alcun modo risultato provato in giudizio.

Il sig. (…) non si sarebbe mai reso autore di inadempimenti nei confronti di (…), tanto contrattuali, quanto relativi ai principi del Codice etico, né avrebbe mai recato alcun concreto pregiudizio all’azienda, come confermato dalla sentenza di primo grado.

Ci si troverebbe dunque in presenza di un licenziamento determinato per motivi che nulla hanno a che vedere con quelli indicati nella lettera di contestazione e quindi palesemente contrario ai principi di correttezza e buona fede, come dimostra il fatto che quanto contestato non è risultato provato in giudizio. Nello specifico, la sentenza impugnata dà atto che il comportamento contestato non è idoneo a ledere il vincolo fiduciario e la ritenuta giustificatezza si basa su “toni” e pretesi “atteggiamenti”, che – oltre, come sopra dimostrato, a non essere stati provati – al più atterrebbero a modalità di espletamento di un incarico di vertice, che necessita anche di prese di posizione, magari con toni aspri, ma pacificamente non contenenti alcun tipo di frase lesiva o diffamatoria. Non può, però, parlarsi di un comportamento idoneo a ledere il vincolo fiduciario, per di più dopo 18 anni di attività, di cui 15 nella sede di Milano, per cui, non solo sarebbe arduo pensare che il suo stile manageriale non fosse noto ai vertici, ma anche che di questo si preoccupassero.

Inoltre, i fatti indicati nella lettera di contestazione sarebbero tutti risalenti, infondati e pretestuosi, come emerso dall’istruttoria, e volti a sostenere un unico motivo di recesso: l’aver creato un ambiente di lavoro particolarmente ostile, stressante e lesivo della salute dei dipendenti stessi, che in alcun modo è risultato provato.

Invero, ciò che più rileva è proprio quest’ultimo aspetto, ovvero la carenza di prova del motivo addotto a sostegno del licenziamento.

Orbene, la mancata prova dei motivi posti a base del recesso, così come praticamente di tutti i fatti esemplificati a supporto, escluderebbe che possa ritenersi il licenziamento giustificato, vieppiù in assenza anche dell’elemento soggettivo.

4) Violazione degli artt. 2099, 3 comma, 2118, 2120 e 2121 c.c., laddove la sentenza non ha considerato come retribuzione, ai fini degli istituti legali -indennità sostitutiva del preavviso e TFR – e contrattuali – indennità supplementare – quanto percepito dal dirigente per l’indennità estero e esercizio delle stock option.

L’appellante ribadisce che il sig. (…) era stato inserito nello Stock Option Plan, volto a coinvolgere il dipendente “nel raggiungimento degli obiettivi e dello sviluppo aziendale” (cfr. ns. doc. 2bis, 4 bis, 4 ter e 16 fascicolo di primo grado), il cui ricavato (differenza tra l’acquisto e la vendita delle azioni maturate) è sempre stato liquidato al ricorrente in busta paga, previe le ritenute di legge (cfr. doc. 4 e 4 ter fasc. di primo grado).

Di conseguenza, quanto percepito negli anni dall’ing. (…) in relazione all’esercizio delle stock option, avendo natura di retribuzione e non essendo occasionale, stante la cadenza predeterminata in piani tri/quadriennali, doveva incidere sul TFR, sull’indennità sostitutiva del preavviso e sull’indennità supplementare, per le quali ultime si deve tener conto della media dell’ultimo triennio, che in base allo Stock Option Plan 2019 – 2022 e alla lettera di distacco, portavano ad una media annua di Euro 107.518,00.

Per quanto riguarda le indennità estero, poiché esse sarebbero state riconosciute dal 1 luglio 2019 al 16 maggio 2022, per un totale di Euro 453.657,46, se ne è chiesta l’incidenza sul calcolo del TFR, pari ad oggi rivalutato ad Euro 36.200,70 (doc. H46), oltre che, quale media del triennio, per Euro 157.794,00 sugli istituti indiretti, quantificando, quindi, la retribuzione mensile di riferimento, da prendere a base del computo dell’indennità sostitutiva del preavviso e dell’indennità supplementare, in Euro 65.368,65, come da conteggio prodotto (doc. 66 fasc. di primo grado).

Posta, quindi, la suddetta retribuzione mensile di riferimento, considerato che l’ing. (…) aveva oltre 18 anni di anzianità aziendale, per cui è previsto un preavviso di 12 mesi (doc. 64 e 65 fasc. di primo grado), questo si è quantificato in Euro 784.423,80, oltre ad Euro 58.105,50 quale incidenza del predetto importo sul TFR (cfr. doc. 66 fasc. di primo grado) e, l’indennità supplementare, in misura massima, stante la palese arbitrarietà del recesso, in Euro 1.568.847,61, o, comunque, nell’eventuale minor somma ritenuta di giustizia, tra il minimo (di 18 mensilità) e il massimo (di 24) stabilito dal CCNL di settore (doc. 64 fasc. di primo grado).

La società non avrebbe contestato i predetti conteggi, ma solo addotto che l’indennità estero e le stock option non potevano incidere sugli istituti legali e contrattuali, la prima in quanto esclusa dalla lettera di assegnazione e le seconde in base a quanto previsto nel relativo Regolamento, considerando solo gli MBO e, quindi, quantificando la retribuzione di riferimento nel minor importo di Euro 43.259,32.

La sentenza avrebbe acriticamente aderito alla tesi della società. Invero, ogni elemento della retribuzione non occasionale, o a titolo di puro rimborso spese, dovrebbe incidere nel computo del TFR e dovrebbe altresì essere considerato, quale media nel triennio precedente, per il calcolo dell’indennità sostitutiva del preavviso.

Una deroga al principio generale in tema di TFR sarebbe, infatti, ammessa solo nel caso di diversa previsione (rectius esclusione di alcuni istituti) della contrattazione collettiva di settore, mentre per il calcolo dell’indennità sostitutiva del preavviso varrebbero solo i principi dell’art. 2121 c.c., senza possibilità di deroga delle parti, datore e lavoratore.

L’appellante aggiunge che per gli istituti legali, quali TFR e indennità sostitutiva del preavviso, anche le indennità estero concorrono al loro computo “a prescindere dall’assetto riconducibile alla qualificazione delle parti in ipotesi di disciplina legale che sia da ritenere prevalente sulla concreta previsione delle stesse quanto alla inclusione nel trattamento di fine rapporto, in mancanza di deroga espressa da parte della contrattazione collettiva ai sensi dell’art. 2120, comma 2, c.c.” (Cass. sez. lav. – 05/10/2018, n. 24594; conf. Cass. sez. lav. -31/08/2018, n. 21519; Cass. sez. lav. – 22/07/2016, n. 15217; Corte appello sez. lav. – Roma, 26/04/2017, n. 1296).

Così dovrebbe essere anche per qualsiasi altro elemento avente natura retributiva, compreso il ricavato delle stock option.

In definitiva, si tratterebbe di istituti legali, non derogabili dalle parti, per cui non rileva quanto previsto nella side letter del 5 luglio 2019.

L’appellante confida, quindi, che Questa Corte vorrà riformare sul punto la sentenza di primo grado, condannando la società al pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso (detratto quanto versato in esecuzione della sentenza di primo grado), e dell’indennità supplementare sulla base di una retribuzione di riferimento di Euro 65.368,65, con inoltre condanna della società al pagamento a titolo di TFR del complessivo importo di Euro 126.322,93 (di cui Euro 36.200,70 per le indennità estero ed Euro 90.122,23 per le stock option), o quanto dovesse risultare di giustizia.

5) Violazione e/o falsa applicazione degli art. 112, 113, 115 e 116 c.p.c., avendo la sentenza escluso il diritto al LTI, nonostante fosse stato provato il raggiungimento degli obiettivi come da ultimo determinati dalla società, la quale non ha contestato, nel merito e nel quantum, le deduzioni del ricorrente, che, in ogni caso, aveva formulata la domanda anche a titolo risarcitorio.

Nel ricorso introduttivo del giudizio era stato evidenziato che, in relazione al distacco a Columbus, era stato, tra l’altro, previsto a favore del ricorrente un LTI basato sui risultati di (…) senza Management fee e che, dai dati ricevuti sia dal dott. (…) che dalle varie funzioni preposte, risultavano raggiunti gli obiettivi negli anni 2019, 2020, 2021, e certamente sarebbero stati conseguiti anche nel 2022 (visto il budget e dell’andamento dei primi 4 mesi, che è poi proseguito – cfr. doc. 3bis, 14, 58 e 59 – V. anche ulteriore documentazione offerta nel presente grado – doc. B, C e D), per cui, calcolando l’ con i criteri decisi dall’ing. (…) si perveniva ad un importo minimo di Euro 440.000,00. Parte appellante sottolinea che la società non ha contestato il diritto dell’ing. (…) all’ e persino per l’ammontare richiesto di Euro 440.000,00, né potrebbe dirsi che il ricorrente non abbia accettato i criteri per determinare tale importo, o che non lo avrebbe accettato.

6) Violazione e falsa applicazione degli art. 115 e 116 c.p.c., e dell’art. 1218 c.c., avendo la sentenza rigettato la domanda risarcitoria, connessa all’esborso per conseguire la pensione, stante l’inadempimento della società all’obbligo assunto con la side letter del 5 luglio 2019 (doc. 8 fasc. di primo grado).

Da ultimo il sig. (…) aveva evidenziato che la società, in una side letter del 5 luglio 2019, gli aveva garantito al suo rientro in Italia, al termine del distacco, una posizione di lavoro nell’ambito del Org_3 fino al conseguimento dei requisiti per la fruizione del trattamento pensionistico (con la medesima retribuzione fissa e variabile annua – doc. 8).

L’ing. (…), dopo il licenziamento, vista la sua età e le difficoltà a reperire altra occupazione, aveva ritenuto di accedere al c.d. prepensionamento a “quota 100”, per cui, però, aveva dovuto effettuare un parziale riscatto degli anni di laurea, indicando il costo all’epoca stimato in Euro 226.225,40 (cfr. ns. doc. 59 e 60), chiedendo poi, nel corso del giudizio, di produrre la documentazione attestante il pagamento e, proprio recentemente, l'(…) ha rettificato l’importo in Euro 273.283,85 (doc. L e M in questo grado), di cui si chiede l’acquisizione, essendo successivi al deposito del ricorso.

In relazione a quanto sopra è stato chiesto il pagamento, a titolo risarcitorio, di quanto versato all’ (…), considerato che la società era venuta meno anche a tale obbligo.

La sentenza di primo grado avrebbe allora erroneamente richiamato una previsione della lettera del 5 luglio 2019 contenete la complessiva regolamentazione del distacco (cfr. ns. doc. 5, fasc. di primo grado, pag. 2, sul “rientro anticipato”), e non la side letter del 5 luglio 2019, su cui si basava la domanda, del seguente tenore letterale: “In relazione al contratto contente i termini e le condizioni del suo distacco da (…) a (…), le confermiamo che, alla cessazione dell’incarico e pertanto al rientro nell’organizzazione di (…) (…) si rende disponibile a garantirle una posizione di lavoro nel gruppo alle condizioni economiche concordate a far data dal 1 luglio 2019 (RAL 370.000 + MBO 170.000) fino alla data in cui lei raggiungerà i requisiti per l’accesso a prestazioni pensionistiche” (cfr. ns. doc. 8, fasc. di primo grado).

La società si era, quindi, assunta un obbligo, che, a prescindere dal riferimento al rientro in Italia (dando per scontato il distacco fino alla scadenza), riguardava il mantenimento del rapporto (stante la rinuncia al recesso) fino alla data della pensione. Ergo, nel caso di specie, vi sarebbe stata una clausola c.d. di stabilità, un licenziamento certamente senza giusta causa e, come sopra dimostrato, neppure giustificato, oltre pacificamente dei danni a ciò conseguenti. 7) Violazione e falsa applicazione degli art. 91 e 92 c.p.c., avendo la sentenza integralmente compensato le spese, nonostante la soccombenza, seppur parziale della convenuta

L’appellante sostiene che nel caso di specie sono state accolte varie domande, seppur non tutte, del ricorrente e non vi era alcuna particolare o grave ragione per compensare le spese, che al più potevano essere determinate considerato il valore delle domande accolte.

Sintesi difese appellata-appellante incidentale

In data 25/01/2024 si è costituita in giudizio (…) chiedendo il rigetto del ricorso avversario in quanto infondato e la conferma della sentenza impugnata. La società ha proposto altresì appello incidentale per i seguenti motivi: 1) violazione e/o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., 2697 e 2119 c.c., in quanto la sentenza, laddove ha ritenuto sorretto da giustificatezza il licenziamento, ha erroneamente valutato le prove testimoniali e scritte assunte nel corso del giudizio

La società censura la sentenza di primo grado per il mancato riconoscimento della giusta causa del recesso.

In particolare, sostiene di aver dimostrato come l’erronea applicazione dei criteri di scelta e la decisione di non corrispondere alcun incentivo all’esodo abbia comportato la proposizione, da parte degli ex dipendenti (…) e (…) di ricorsi volti ad accertare la natura discriminatoria del licenziamento. Quanto sopra a conferma del danno economico causato dall’ing. (…), danno che poteva certamente essere evitato laddove il dirigente si fosse determinato a corrispondere, come da prassi, un incentivo all’esodo.

La sentenza risulterebbe pertanto viziata laddove, pur avendo acclarato la giustificatezza del licenziamento, ha omesso di valutare un fatto fondamentale della vicenda processuale che risulta idoneo a fondare una giusta causa di recesso.

Inoltre, per quanto riguarda il clima ostile che si sarebbe creato in azienda a causa del sig. (…), (…) rileva che la deposizione testimoniale resa dal sig. (…) unitamente alle dichiarazioni scritte acquisite al processo confermano che la sig.ra (…), particolarmente qualificata e con oltre 35 anni di servizio, abbia cessato il proprio rapporto di lavoro a causa dell’ambiente di lavoro ostile creato dal Ricorrente e abbia deciso di andare in pensione. A differenza di quanto sostenuto dal Tribunale, il ruolo del (…) nel licenziamento di (…) sarebbe stato determinante. Infatti, il sig.

(…) con riferimento alla procedura di licenziamento collettivo, ha dichiarato di non poter riferire sui criteri di scelta dei dipendenti da licenziare in quanto “non era un tema di mia responsabilità”: ebbene, se il dott. (…) non aveva la responsabilità dei dipendenti da licenziare nel 2020, ciò dovrebbe ritenersi parimenti vero anche con riferimento ai successivi licenziamenti effettuati da (…) (…), ivi incluso quello della sig.ra (…). Inoltre, il dott. (…) ha riferito che non era il capo di (…) e, conseguentemente, egli non era neanche il capo di (…) (che ha rivestito il ruolo di Responsabile HR in (…) prima del sig. (…) ): pertanto, e logicamente, la decisione di risolvere il rapporto di lavoro con la sig.ra (…) non poteva certamente provenire dal dott. (…)

Per quanto attiene al mancato rispetto delle linee-guida anti-Covid, Tribunale di Milano avrebbe erroneamente valutato la deposizione testimoniale del sig. (…)

(…), la dichiarazione scritta di quest’ultimo e del sig. (…) nonché la testimonianza del dott. (…) (…) infatti ha confermato che l’ing. (…) era contrario all’uso delle mascherine e ha provato a convincerlo di non usarle.

Al legittimo diniego di assecondare la richiesta del dirigente, quest’ultimo avrebbe risposto con una sfuriata. Sfuriata confermata dal sig. (…) il quale ha riferito che nel corso di una riunione del Personale Dirigenziale (con tutto il personale presente) il signor (…) aveva continuamente sfidato (…) sull’utilizzo delle mascherine.

(…) chiede dunque il riconoscimento della giusta causa del recesso, in quanto il sig. (…) si sarebbe servito di uno stile manageriale connotato da ripetute offese e denigrazioni rivolte a collaboratori, mortificazioni alla presenza di colleghi, atteggiamenti aggressivi e toni di voce inurbani e incivili, tali da rendere particolarmente stressogeno ed intimidatorio l’ambiente di lavoro al punto da indurre numerosi dipendenti a lasciare (…) e la Società.

2) violazione e falsa applicazione degli articoli 113, 115 e 116 c.p.c. e delle clausole 2 e 15 del Regolamento (…) per avere la sentenza riconosciuto il diritto dell’ing. (…) al pagamento di Euro 218.186,60 corrispondente al ricavato delle azioni assegnate nonostante la ricorrenza di una fattispecie di Bad Leaver

Il giudice di prime cure avrebbe erroneamente interpretato e valutato la documentazione prodotta dalla Società e, segnatamente, le previsioni contenute nel Regolamento (…) .

Il Regolamento, infatti, qualifica come Bad Leaver non solo la fattispecie di revoca del beneficiario per giusta causa, ma anche quella di revoca per giustificato motivo soggettivo.

Il Tribunale, pur escludendo la ricorrenza di una giusta causa di licenziamento, ha ritenuto comunque il recesso datoriale connotato da giustificatezza e condannato la Società a corrispondere a controparte l’indennità sostitutiva del preavviso.

Il Giudice di prime cure ha quindi, sostanzialmente, accertato che la fiducia del datore di lavoro riposta nel dirigente è stata minata, ma gli atteggiamenti aggressivi nei confronti dei collaboratori, provati all’esito del giudizio, non hanno configurato una giusta causa di recesso, bensì un giustificato motivo soggettivo, come tale idoneo a configurare una fattispecie di Bad Leaver, con conseguente revoca del beneficio.

3) violazione e falsa applicazione degli articoli 113, 115 e 116 c.p.c. e dell’art. 1460 c.c. per avere la sentenza riconosciuto il diritto dell’ing. (…) al pagamento delle spese di rientro in Italia nonostante la giustificatezza del licenziamento

Il dirigente ha chiesto il rimborso dell’importo di euro 22.727,90 per i costi sostenuti per il rientro in Italia ed ha fondato la propria richiesta sulla side letter nella quale si legge quanto segue: “dietro presentazione di fattura da società di trasporto, (…) è disponibile a corrisponderle le spese sostenute a titolo di trasloco da Milano a Columbus e da Columbus a Milano come da accordi intercorsi” (doc. avv. 5).

La Società, tuttavia, ha contestato la debenza dell’importo in quanto la risoluzione del rapporto di lavoro per giusta causa ha comportato il venir meno delle obbligazioni assunte con la lettera di distacco.

Sostiene (…), richiamando anche il disposto dell’art. 1460 c.c., che una simile obbligazione, in forza dei principi di correttezza e buona fede, debba ritenersi valida tra le parti fin tanto che il contratto abbia regolare esecuzione e non, come nel caso di specie, venga risolto da una delle parti per gravi inadempimenti. Nel caso di specie, il giudice di prime cure ha accertato la giustificatezza del licenziamento e, quindi, il venir meno della fiducia del datore di lavoro riposta nel dirigente a causa degli atteggiamenti aggressivi nei confronti dei collaboratori. L’ing. (…) sarebbe, pertanto, venuto meno agli obblighi scaturenti dal rapporto di lavoro con (…) e, conseguentemente, alla Società non doveva essere addebitato alcun costo per le spese di rientro in Italia e di trasloco, pur essendo stato il licenziamento qualificato in termini di giustificatezza e non di giusta causa.

Chiede dunque a Questa Corte di accertare il diritto della Società ad ottenere la restituzione dell’importo di Euro 22.727,90.

All’udienza di discussione la causa è stata decisa come da dispositivo in calce.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Occorre, innanzitutto, esaminare le censure proposte dalle parti appellanti (motivi 2 e 3 dell’appello principale e n. 1 dell’appello incidentale) in relazione al capo di sentenza che, non ravvisando gli estremi della “giusta causa”, ha ritenuto il licenziamento sorretto da “giustificatezza”.

Entrambi gli appelli, sul punto, sono infondati.

La non applicabilità ai dirigenti delle norme relative ai licenziamenti individuali (salve le eccezioni previste dall’art. 2 della legge 15 luglio 1966, n. 604 in tema di obbligo di motivazione del recesso e dell’art. 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300 in tema di obbligo di preventiva contestazione disciplinare) comporta l’inclusione di tale categoria nell’area della cd. libera recedibilità, soggetta esclusivamente alla disciplina degli artt. 2118 e 2119 c.c. e, dunque, al licenziamento senza preavviso, in presenza di giusta causa, o al licenziamento con preavviso in tutti gli altri casi.

Il principio della libera recedibilità ha trovato, però, un contrappeso nelle previsioni della contrattazione collettiva di riferimento, con l’introduzione della nozione di “giustificatezza” del licenziamento, il cui contenuto non è precisato da alcuna fonte normativa.

Tale scelta ha richiesto un intervento suppletivo da parte della giurisprudenza, che ha chiarito in via preliminare come “la nozione di giustificatezza del licenziamento del dirigente, per la particolare configurazione del rapporto di lavoro dirigenziale, non si identifica con quella di giusta causa o di giustificato motivo ex art. 1, legge n. 604/1966” (Cass. 17 febbraio 2015, n. 3121; cfr. anche Cass. 3 giugno 2013, n. 13918).

La Suprema Corte ha infatti precisato che “il dirigente, nella nozione desumibile dall’art. 2095 cod. civ. pacificamente elaborata dalla dottrina e dalla giurisprudenza, è il dipendente preposto, con autonomia e poteri decisionali, all’azienda nel suo complesso o ad un suo ramo autonomo, in rapporto di “collaborazione immediata con l’imprenditore per il coordinamento aziendale” (Cass. 28/4/2003, n. 6606) nonché per promuovere, coordinare e gestire la realizzazione degli obbietti dell’impresa. Il dirigente è l’alter ego dell’imprenditore (v. per tutte, Cass. 23/03/2018, n. 7295) e, proprio per tale rapporto di stretta inerenza delle sue mansioni rispetto agli obiettivi generali dell’impresa, le sue prestazioni si caratterizzano per un elevato grado di fiducia, la quale, si è detto, più che indice di qualificazione, costituisce l'”in sé” della figura del dirigente che, più di ogni altro elemento, dà ragione della tutela differenziata in caso di licenziamento illegittimo (Corte Cost. 8/6/1994, n. 225; Corte Cost. 16/6/1992, n. 309).

A tal riguardo, si è pure precisato (v. Cass. 30/12/2019, n. 34736) che la nozione di giustificatezza del licenziamento dei dirigenti si discosta, sia sul piano soggettivo sia su quello oggettivo, da quella di giusta causa di cui all’art. 2119 cod. civ. e di giustificato motivo di cui alla L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 3. Sul piano soggettivo, tale asimmetria trova la sua ragion d’essere proprio nel rapporto fiduciario che lega in maniera più o meno penetrante al datore di lavoro il dirigente in vista della realizzazione degli obiettivi aziendali, per cui anche la semplice inadeguatezza del dirigente rispetto ad aspettative riconoscibili ex ante o un’importante deviazione del dirigente dalla linea segnata dalle direttive generali del datore di lavoro o un comportamento extralavorativo incidente sull’immagine aziendale a causa della posizione rivestita possono, a seconda delle circostanze, costituire ragione di rottura di tale rapporto fiduciario e quindi giustificare il licenziamento sul piano della disciplina contrattuale dello stesso (Cass. 13/12/2010, n. 25145; Cass. 02/10/2018, n. 23894).

In tema di licenziamento disciplinare del dirigente, rilevando la giustificatezza del recesso che – come detto – non si identifica con la giusta causa, a differenza di quanto avviene relativamente ai rapporti con la generalità dei lavoratori, “esso non deve necessariamente costituire una extrema ratio, da attuarsi solo in presenza di situazioni così gravi da non consentire la prosecuzione neppure temporanea del rapporto (Cass. 10 aprile 2012, n. 5671), nè allorquando ogni altra misura si rivelerebbe inefficace, ma può conseguire ad ogni infrazione che incrini l’affidabilità e la fiducia che il datore di lavoro deve riporre sul dirigente (Cass. 10 gennaio 2023, n. 381)” (così Cass., 14-12-2023, n. 35020).

A tal fine, è sufficiente una valutazione globale, che escluda l’arbitrarietà del recesso, in quanto intimato con riferimento a circostanze idonee a turbare il rapporto fiduciario con il datore di lavoro, nel cui ambito rientra l’ampiezza di poteri attribuiti al dirigente (in questi termini vedi la recente Cass., 9-5-2024, n. 12727).

In particolare, la nozione di giustificatezza può essere di natura soggettiva o oggettiva.

Sotto il primo profilo (che è quello che interessa in questa sede), è stato precisato che “anche la semplice inadeguatezza del dirigente rispetto ad aspettative riconoscibili ex ante, o una importante deviazione del dirigente dalla linea segnata dalle direttive generali del datore di lavoro, o un comportamento extra lavorativo incidente sull’immagine aziendale possono, a seconda delle circostanze, costituire ragione di rottura del rapporto fiduciario e, quindi, giustificarne il licenziamento sul piano della disciplina contrattuale dello stesso” (Cass. 1 febbraio 2012, n. 1424), mentre, sotto un punto di vista oggettivo, l’ampiezza della nozione di giustificatezza comporta anche che “la concreta posizione assegnata al dirigente nella articolazione della struttura direttiva dell’azienda può inoltre divenire nel tempo non pienamente adeguata nello sviluppo delle strategie di impresa del datore di lavoro nell’esercizio della sua iniziativa economica e quindi rendere, anche solo per questa minore utilità, giustificata la sua espulsione nel quadro di scelte orientate al miglior posizionamento dell’impresa sul mercato” (Cass. 11 giugno 2008, n. 15496).

Ai nostri fini, si deve rilevare che la Suprema Corte ha ritenuto giustificato il licenziamento di un dirigente per aver espresso con toni eccessivi e coloriti il proprio dissenso rispetto ai processi organizzativi individuati dal consiglio di amministrazione della società per ripristinare l’efficienza del servizio. La legittimità del licenziamento e la sua giustificatezza sono stati confermati dai giudici in quanto l’uso di toni così aspri provenienti da un dirigente è idoneo a diffondere presso i dipendenti un discredito nelle capacità dei superiori, alimentando un clima non collaborativo e di non condivisione delle strategie adottate. Tale condotta è, pertanto, idonea a determinare l’irreversibile compromissione del rapporto fiduciario. A tal riguardo, infatti, la Suprema Corte spiega che la nozione di giustificatezza “discostandosi da quella di giustificato motivo, trova la sua ragion d’essere, da un lato, nel rapporto fiduciario che lega il dirigente al datore di lavoro in virtù delle mansioni affidate, dall’altro nello stesso sviluppo delle strategie di impresa che rendano nel tempo non pienamente adeguata la concreta posizione assegnata al dirigente nella articolazione della struttura direttiva dell’azienda” (Cass., n. 28-03-2019, n. 8659). Altro caso esaminato è quello del dirigente licenziato per aver ripetutamente offeso e denigrato i sottoposti etichettandoli come “incompetenti”, “incapaci”, “non professionali” e “lavativi”. Tale condotta integra un comportamento inurbano, lesivo della dignità dei lavoratori, che impedisce loro di operare in un ambiente sereno e, come tale, sufficiente a legittimare la lesione del vincolo di fiducia. A sostegno della legittimità del recesso, la Corte ha in questa sede ribadito che la nozione di giustificatezza del licenziamento del dirigente non si identifica nel più rigoroso concetto di giusta causa o di giustificato motivo legittimante il licenziamento dei dipendenti privi di qualifica dirigenziale (Cass., 16-02-2017 n. 4113).

Venendo ora ad esaminare nel merito le contestazioni mosse all’appellante, occorre, innanzitutto, verificare l’esito dell’istruttoria espletata ed esaminare quali condotte contestate siano state effettivamente provate.

L’istruttoria, in primo luogo, ha evidenziato la sussistenza, da parte del sig. (…) di comportamenti irrispettosi dei propri collaboratori, di comportamenti offensivi e ostili nei confronti di chi aveva espresso pareri e opinioni di lavoro discordanti, di giudizi lesivi della professionalità e rispettabilità dei dipendenti alla presenza di colleghi; di toni di voce alti.

Nello specifico, con riferimento alla vicenda contestata e relativa all’assunzione di (…) il Giudice di prime cure, pur avendo affermato che l’ing. (…) non poteva essere censurato per aver rimproverato al sig. (…) di non aver fatto una verifica adeguata della documentazione, ha legittimamente censurato i toni utilizzati dal dirigente (“Non pare quindi si possa censurare il ricorrente che ha rimproverato (…) per non aver fatto una verifica adeguata della documentazione, ma i toni con cui ciò è avvenuto”).

Inoltre, la sentenza impugnata ha correttamente accertato che il sig. (…), nel corso della riunione indetta dal sig. (…) per la ricerca del nuovo direttore finanziario, è stato umiliato.

Sulla vicenda il sig. (…) ha dichiarato che “(l’ing. (…) ) mi ha detto che non aveva bisogno della mia opinione e mi ha umiliato davanti agli altri, mi sono sentito così, perché ciò è avvenuto nel corso della riunione, sia davanti ai miei sottoposti sia davanti ai miei superiori. Sarà avvenuto a giugno luglio 2021. Ne ho parlato con (…) e anche (…) di Milano si è scusata con me per il comportamento di (…) durante la riunione” (verbale di udienza del 18 aprile 2023).

La sentenza impugnata ha correttamente valutato tale deposizione testimoniale laddove ha accertato che ” (…) ha altresì dichiarato di essere stato altresì umiliato nel corso di una riunione a giugno luglio 2021 alla presenza di altre risorse che, poi, si sarebbero anche scusate per il comportamento irrispettoso di (…) “. Inoltre, il sig. (…) ha confermato di aver reso la dichiarazione scritta datata 14 gennaio 2023 nella quale, con riferimento alla riunione di cui sopra, ha espressamente dichiarato quanto segue: “Venni rimproverato e sminuito ingiustamente di fronte a vari livelli del nostro team di gestione, compresi due dei miei diretti collaboratori. Entrambi mi dissero in seguito che era stato estremamente spiacevole per loro assistere a quell’episodio, ed entrambi mi chiesero come stessi. All’epoca (…) lavorava con noi da circa un mese quando arrivò la telefonata. La chiamai subito dopo per farle sapere che non era il modo in cui lavoriamo di solito. Non rispose. Pochi minuti dopo mi richiamò dicendo che stava parlando con (…), che l’aveva chiamata per scusarsi del modo in cui (…) aveva trattato tutti quanti durante la telefonata e per dirle che in (…) quella non era la normalità”.

Tale atteggiamento risulta confermato dalla dichiarazione scritta rilasciata dal sig. (…) il quale ha ritenuto “inaccettabile che nei momenti di tensione scoppiasse (l’ing. (…) ) in attacchi di ira. Pertanto, con la presente, riferisco di essere stato testimone di comportamenti scorretti e poco professionali da parte del sig. (…) nel corso di questi 3 anni…(…) perdeva le staffe e urlava contro i dipendenti, rendendo la situazione molto spiacevole per tutti. Le circostanze che più mi hanno messo a disagio sono state le seguenti:. Durante una conference call riguardante il lungo iter di assunzione di un nuovo Finance Manager, il signor (…) ha nuovamente perso le staffe, questa volta prendendosela con il nostro Human Resources Manager locale, (…) “. La Società, nella prima fase del giudizio, ha prodotto copiosa documentazione proveniente non solo dal teste (…) ma da altri dipendenti ((…) (…) (…), (…) atteggiamenti e i toni inurbani dell’ing. (…) lavoro (docc. 3, 8, 9 e 12).

In relazione all’utilizzabilità delle dichiarazioni scritte, questo Collegio condivide quanto affermato dal primo Giudice, il quale si è attenuto al costante orientamento della giurisprudenza in forza del quale “nel vigente ordinamento processuale, mancando una norma di chiusura sulla tassatività tipologica dei mezzi di prova, il giudice può legittimamente porre a base del proprio convincimento anche prove cosiddette atipiche, purché idonee a fornire elementi di giudizio sufficienti, se ed in quanto non smentite dal raffronto critico – riservato al giudice di merito e non censurabile in sede di legittimità, se congruamente motivato – con le altre risultanze del processo, come in caso di dichiarazioni scritte provenienti da terzi, che, pur raccolte fuori dal processo, non comportano la violazione del principio di cui all’art. 101 c.p.c., atteso che il contraddittorio si instaura con la loro produzione in giudizio” (v. Cass. n. 9507/2023; vedi anche la recente Cass., 14 maggio 2024, n. 13176).

Le dichiarazioni scritte prodotte dalla società non risultano smentite dal raffronto con le altre risultanze istruttorie. Ad es., in relazione al processo di selezione del direttore finanziario, la deposizione del teste (…) (secondo cui “( (…) ) mi ha chiesto se ero stato io a raccomandare il precedente Manager e io ho detto di sì, lui in realtà lo sapeva. Mi ha detto che non aveva bisogno della mia opinione e mi ha umiliato davanti agli altri, mi sono sentito così, perché ciò è avvenuto nel corso della riunione, sia davanti ai miei sottoposti sia davanti ai miei superiori. Sarà avvenuto a giugno luglio 2021. Ne ho parlato con CP_8 e anche (…) di Milano si è scusata con me per il comportamento di (…) durante la riunione”) è conforme a quanto riferito per iscritto dal sig. (…) sul medesimo episodio: “Durante una conference call riguardante il lungo iter di assunzione di un nuovo Finance Manager, il signor (…) ha nuovamente perso le staffe, questa volta prendendosela con il nostro Human Resources Manager locale, (…), e con il nostro Chief Financial Officer mondiale. Il signor (…) ha cercato di fornire le spiegazioni del caso e di tranquillizzarlo, ma lui ha perso di nuovo il controllo, interrompendolo e mettendosi letteralmente a urlare. In seguito, mi è stato chiesto da altri dipendenti se andasse tutto bene. Anche in questo caso era presente (…), (…) (doc. 9).

Il teste (…), nella propria dichiarazione scritta, confermata in sede di escussione orale, ha riferito: “Ho partecipato personalmente a riunioni, sia di persona che su (…) durante le quali (…) si è rivolto in modo duro e poco professionale ad altri dipendenti a vari livelli dell’azienda” (doc. 8). Tale affermazione è riscontrata dalla dichiarazione scritta del sig. (…) “ritengo inaccettabile che nei momenti di tensione ( (…) ) scoppiasse in attacchi di ira. Pertanto, con la presente, riferisco di essere stato testimone di comportamenti scorretti e poco professionali da parte del sig. (…) …

(…) perdeva le staffe e urlava contro i dipendenti, rendendo la situazione molto spiacevole per tutti; in più occasioni gli ho fatto notare che forse si trattava di una differenza culturale, ma negli Stati Uniti le cose vanno sempre dette in modo rispettoso” (doc. 9).

Anche le dichiarazioni scritte del sig. (…) sono conformi alla testimonianza del sig. (…) : “ci sono stati tre principali punti di preoccupazione in merito alle azioni di (…) : 1) (…) non ha mostrato un adeguato rispetto per le persone nelle sue interazioni. Spesso dominava le riunioni sia formali che informali sfidando, manipolando e intimidendo in modo aggressivo gli altri. La sua capacità di reagire alle situazioni e il suo modo di comunicare mettevano spesso a disagio me e gli altri. 2) Le azioni di (…) sono state spesso poco professionali. Era molto frequente che desse ordini contrastanti direttamente ai miei collaboratori senza avvisare me o il mio superiore. Discuteva informalmente di questioni relative alle Risorse Umane in modo non professionale e con persone non appartenenti alla dirigenza. 3) Lo stile di leadership di (…) era imprevedibile. Dava feedback contrastanti sulle mie prestazioni. Inoltre, (…) cambiava spesso direzione in termini di strategia aziendale in modo inaspettato .” (doc. 13). Ciò dimostra che i modi eccessivamente aggressivi e sprezzanti del dirigente non fossero apprezzati dai suoi stretti colleghi nè autorizzati o richiesti dai vertici aziendali in quanto non idonei a creare un auspicato sereno e collaborativo ambiente di lavoro.

In relazione alle problematiche del procedimento di riduzione del personale, è emerso che le scelte operate dal dirigente, nella sua veste di A.D., non hanno soddisfatto il datore di lavoro a causa degli strascichi giudiziari determinati da tale gestione.

In particolare, le sig.re (…) e (…) hanno contestato il loro licenziamento, presentando una denuncia per discriminazione davanti alla (…) per le Pari Opportunità di Lavoro. Il teste (…), in sede di escussione testimoniale, ha riferito che “Sui criteri di scelta dei dipendenti da licenziare adottatati dal ricorrente, io non ero presente, ma mi è stato riferito che il legale esterno aveva suggerito di pagare questo incentivo all’esodo, anche per mantenere buoni rapporti con le risorse ma (…) non era d’accordo” (verbale di udienza del 18 aprile 2023), confermando quanto dallo stesso affermato nella dichiarazione scritta del 14 gennaio 2023 (“Sebbene non fossi presente quando erano state prese le decisioni iniziali, da quando sono entrato a far parte dell’azienda ho collaborato in due occasioni con i nostri legali alla difesa contro due azioni legali intentate da due ex dipendenti. Entrambe le cause erano state promosse da dipendenti che ritenevano di essere stati licenziati ingiustamente. L’assenza di un Severance Agreement Release (NdT: liberatoria vincolante per l’accordo di licenziamento) ha permesso ai due dipendenti di incardinare un’azione legale contro l’azienda… Entrambi gli ex dipendenti hanno presentato una denuncia all (…) (NdT: Commissione USA per le pari opportunità di lavoro), adducendo un’ingiusta cessazione del rapporto di lavoro. Uno dei casi è stato reso noto dall'(…) ed è stata emessa una “Righi to Sue Letter” (NdT: missiva che autorizza a promuovere un’azione legale). L’ex dipendente ha deciso di rivolgersi a un legale e di citare in giudizio (…) La causa in questione è ancora pendente. L’altro caso è ancora in fase di disamina da parte dell'(…) “) (doc. 8). Nella propria dichiarazione scritta (…) ha riferito che “Durante una discussione relativa alla (…) (RIF), mentre stavo spiegando come (…) aveva gestito la RIF in passato con riguardo all’offerta di un incentivo all’esodo, (…) si arrabbiò e sbatté le mani sulla scrivania. Il e il responsabile (…) erano presenti a questa discussione. Alla fine, (…) si è rifiutato di accordare l’incentivo” (doc. 12).

Il teste (…) all’udienza del 18 aprile 2023, ha dichiarato di non poter riferire “sui criteri di scelta dei dipendenti da licenziare” in quanto “non era un tema di mia responsabilità”, così confermando la tesi della società in base alla quale la gestione della riduzione del personale eccedentario era stata condotta dall’ing. (…) in totale autonomia e senza alcun coinvolgimento della sede di Milano.

In relazione alla gestione delle dell’utilizzo delle mascherine durante il Covid, il teste (…) ha dichiarato che “Durante un meeting con il mio manager e il mio team, (…) mi ha detto quando potevano essere tolte le mascherine. Abbiamo tuttavia continuato a usarle siccome vi erano delle linee guida sanitarie e (…) era contrariato e ha provato a convincermi del contrario”. Sempre il sig. (…), nella propria dichiarazione scritta, ha riferito che “Per quanto riguarda la gestione delle indicazioni del CDC sulle mascherine, in una riunione settimanale del personale tenutasi durante la pandemia, con tutti i collaboratori che riferivano direttamente a (…) presenti, tutti con indosso le mascherine e nel rispetto del distanziamento sociale, il signor (…) mi chiese quando saremmo stati in grado di togliere le mascherine. Gli dissi che, come azienda, seguivamo le linee guida del CDC e che non ci avevano ancora dato il permesso di togliere le mascherine. Inoltre, affermai che avremmo abbandonato l’uso delle mascherine quando il CDC ci avesse dato l’autorizzazione in tal senso. Questo sembrò aver offeso il signor (…), che fece una vera e propria sfuriata, affermando che gli unici luoghi in cui doveva indossare una mascherina erano le aree comuni del suo appartamento di Atlanta e quando veniva a lavorare alla (…) . Continuò dicendo che quando andava in chiesa, al supermercato, ovunque, non doveva indossare la mascherina, solo nel suo appartamento e al lavoro. Il messaggio era chiaro: voleva che io dicessi che andava bene togliere le mascherine al lavoro. Risposi dicendo che non ero stato assunto per occuparmi del rispetto delle regole nel suo appartamento, in chiesa o al supermercato. Il mio lavoro era invece presso (…) ed era questo che mi interessava. Continuai dicendogli che comprendevo che lui fosse il capo e che se avesse voluto inviarmi un’e-mail con la quale (…) chiedeva di rimuovere le mascherine, lo avrei fatto a suo nome. A quel punto disse: “No, faremo come dici tu” (doc. 8). Il sig. (…) nella propria dichiarazione scritta ha conformemente precisato che “In una riunione del Personale Dirigenziale (con tutto il personale presente) il signor (…) ha continuamente sfidato il nostro Human Resource Manager, (…), affermando: “Posso andare in chiesa, al supermercato, al centro commerciale o in qualsiasi altro posto e non ho bisogno di indossare la mascherina, ma se voglio venire nel mio ufficio, mi state dicendo che devo indossarne una?” Al che (…) ha risposto: “Mi avete assunto per fare quello che è giusto e per far rispettare la linea di condotta adottata; se Lei, in qualità di Presidente, mi dice di cambiare rotta, allora è quello che farò” (doc. 9). Il dott. (…) all’udienza del 18 aprile 2023, si è limitato a riferire che “durante le riunioni online (…) si lamentava che non si poteva chiedere alle persone in modo impositivo come in Italia di indossare le mascherine. Io gli ho suggerito di chiedere un supporto a un legale, questo anche perché in Usa abbiamo avuto così tanti casi covid da chiudere la fabbrica” (verbale di udienza del 18 aprile 2023).

Alla luce di tali univoci riscontri probatori, questo Collegio ritiene di ravvisare, nella specie, la giustificatezza del licenziamento intimato.

In effetti, dovendo attuare una valutazione globale delle condotte tenute dal sig. (…) nella sua qualità di amministratore della società americana, deve escludersi l’arbitrarietà delle ragioni sottese al recesso.

In assenza di evidenti ragioni discriminatorie e/o ritorsive (non emerse dall’istruttoria) deve ritenersi giustificato il recesso dell’appellante che ha tenuto un atteggiamento demotivante, prevaricatore di ruoli e competenze, instaurando un clima in azienda tutt’altro che sereno e costruttivo e inutilmente autoritario. Di fronte a tali comportamenti, passano in secondo piano le comprovate capacità e il conseguimento di ottimi risultati economici e lusinghieri posizionamenti di mercato. Tale atteggiamento, unito alla insoddisfacente gestione dei licenziamenti (che, a causa dell’atteggiamento intransigente del dirigente, ha lasciato uno strascico giudiziario (evitabile, con grande probabilità, col pagamento dell’incentivo all’esodo)), nonché alla palese contestazione delle direttive societarie in merito all’utilizzo delle mascherine nel corso della pandemia, è in grado di incidere sul vincolo fiduciario (particolarmente delicato nel rapporto di lavoro dirigenziale) e, quindi, integra i presupposti caratterizzanti la non arbitrarietà del recesso, senza, per questo, sconfinare nella giusta causa, la quale – come detto – è ravvisabile solamente in presenza di situazioni talmente gravi da non consentire la prosecuzione neppure temporanea del rapporto.

In relazione all’eccezione di tardività della contestazione disciplinare (primo motivo dell’appello principale), si osserva che, per consolidata giurisprudenza, il principio di tempestività dell’azione disciplinare va messo in relazione con il tempo necessario al datore per acquisire una compiuta e meditata conoscenza dei fatti oggetto di addebito, nonché della loro riconducibilità al lavoratore. Conseguentemente, il ritardo nella contestazione può costituire un vizio del procedimento disciplinare solo ove sia tale da determinare un ostacolo alla difesa effettiva del lavoratore, tenendo anche conto che il prudente indugio del datore di lavoro, ossia la ponderata e responsabile valutazione dei fatti, può e deve precedere la contestazione anche nell’interesse del prestatore di lavoro, che sarebbe palesemente colpito da incolpazioni avventate o comunque non sorrette da una sufficiente certezza da parte del datore di lavoro (Cass., sez. lav., 16/11/2018, n. 29627).

L’appellante, nel formulare la censura in esame, ha valorizzato solamente l’aspetto temporale (ritenendo di per sé eccessivo lo spatium deliberandi del datore di lavoro che ha fatto trascorrere diversi mesi tra l’effettiva conoscenza dei fatti e la contestazione disciplinare), omettendo di precisare, però, se l’asserito ritardo abbia causato una effettiva lesione del diritto di difesa.

L’appellante si è limitato, invero, ad invocare, genericamente, l’insorgenza nel lavoratore di un ragionevole affidamento circa l’irrilevanza della condotta contestata, omettendo, anche in questo caso, di indicare quali fossero gli elementi sintomatici di tale convinzione, nonchè i comportamenti concludenti posti in essere dal datore di lavoro in forza dei quali il dipendente abbia potuto maturare un simile affidamento.

La censura dell’appellante appare, quindi, infondata laddove connette giuridica rilevanza, al fine della verifica della legittimità del licenziamento, al mero ritardo nella effettuazione della contestazione, pur nella accertata insussistenza di lesioni al diritto di difesa del lavoratore ed al suo affidamento circa la irrilevanza disciplinare della condotta contestata.

Tale conclusione è coerente con la soluzione propugnata da Cass., sez. lav., 17/02/2020, n. 3904, la quale (nel riformare proprio una sentenza di questa Corte territoriale che, in ipotesi analoga a quella in esame, aveva collegato la illegittimità del licenziamento al difetto di immediatezza della contestazione la cui verifica era stata ancorata al dato, per così dire oggettivo, rappresentato dalla circostanza che la società già all’epoca in cui aveva estratto copia degli atti del fascicolo delle indagini preliminari era in possesso di elementi che le consentivano di ricostruire, “in termini di ragionevole certezza”, la responsabilità disciplinare del lavoratore) ha sostenuto che “il ragionamento della Corte di merito è viziato da errore di diritto laddove connette giuridica rilevanza, al fine della verifica della legittimità del licenziamento, al mero ritardo nella effettuazione della contestazione, pur nella accertata insussistenza di lesioni al diritto di difesa del lavoratore ed al suo affidamento circa la irrilevanza disciplinare della condotta contestata”, escludendo, quindi, che la prudente attesa dell’emissione del decreto di citazione a giudizio potesse integrare una illecita condotta datoriale. Alla stregua, infatti, della consolidata giurisprudenza della Suprema Corte, il disvalore della violazione deve essere, infatti, apprezzato in relazione alle funzioni che sono riconosciute al principio di immediatezza della contestazione nonchè alle finalità al cui perseguimento il principio in questione è preordinato: garanzia del diritto di difesa del lavoratore e tutela del suo affidamento.

Sotto il primo profilo l’immediatezza della contestazione viene in rilievo quale strumento che, in un’ottica di effettività del diritto di difesa, è finalizzato a consentire al lavoratore di poter esercitare compiutamente le sue difese, reperendo, ad esempio, in tempo utile, prima che possa andare disperso, il materiale probatorio idoneo a contrastare gli elementi accusatori in possesso del datore di lavoro. Esigenza, questa, che verrebbe inevitabilmente pregiudicata qualora il datore procrastinasse oltre misura il momento della contestazione, giacchè, come appare intuitivo, lo scorrere del tempo non giova all’approntamento dei mezzi difensivi da parte del prestatore.

Sotto il secondo profilo la necessità di una contestazione tempestiva muove dalla riconosciuta esigenza del lavoratore di veder definita in tempi ragionevoli la vicenda disciplinare che lo riguarda; in questa prospettiva una contestazione tardiva potrebbe concretare violazione della regola della buona fede in quanto capace di far sorgere un legittimo affidamento del lavoratore sulla valenza non disciplinare della condotta, oppure sulla rinunzia da parte del datore di lavoro all’esercizio del potere disciplinare oppure, ancora, sulla valutazione datoriale di compatibilità della persistenza del rapporto, con conseguente inconfigurabilità della irrimediabile lesione del vincolo fiduciario ai sensi dell’art. 2119 c.c.. In quest’ultimo caso, tuttavia, l’inerzia della parte datoriale, oltre a rilevare sul piano della contrarietà a buona fede in funzione di tutela dell’affidamento del lavoratore, potrebbe assumere autonoma valenza quale elemento in astratto idoneo ad escludere i necessari caratteri di gravità dell’inadempimento destinati a sorreggere il recesso senza preavviso.

Le richiamate esigenze, connesse alla funzione acceleratoria del procedimento assegnata al requisito della tempestività, sono state ripetutamente evidenziate dalla giurisprudenza della Suprema Corte, rappresentando espressione di un orientamento minoritario e risalente nel tempo quelle pronunce che connettono al difetto di tempestività della contestazione una ricaduta destinata ad operare esclusivamente sul piano della verifica della conformità della condotta datoriale a correttezza e buon fede venendo in rilievo il decorso del tempo non quale violazione procedimentale ma come indice di un non corretto uso del potere disciplinare (Cass. 14/6/1999, n. 5891).

La giurisprudenza di legittimità si è consolidata, infatti, nel senso di ritenere che “In tema di esercizio del potere disciplinare, regolato dalla L. n. 300 del 1970, art. 7 e fondato sull’obbligo del datore di lavoro di comportarsi secondo buona fede, la contestazione deve essere caratterizzata da immediatezza, per consentire al lavoratore incolpato l’effettivo esercizio del diritto di difesa mediante l’allestimento del materiale difensivo, dovendosi anche considerare il “giusto affidamento” del prestatore, nel caso di ritardo nella contestazione, che il fatto incriminabile possa non avere rivestito una connotazione disciplinare, dato che l’esercizio del potere disciplinare non è un obbligo per il datore di lavoro, bensì una facoltà. L’applicazione in cd “senso relativo” del principio dell’immediatezza della contestazione comporta, pertanto, che tra l’interesse del datore di lavoro a prolungare le indagini senza uno specifico motivo obiettivamente valido (da accertarsi e valutarsi rigorosamente) e il diritto del lavoratore ad una pronta ed effettiva difesa, deve prevalere la posizione (ex lege tutelata) del lavoratore.” (Cass. 07/11/2003, n. 16754) con affermazioni riprese da pronunzie successive secondo le quali “… il principio dell’immediatezza della contestazione, che trova fondamento nella L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 7, commi 3 e 4, mira, da un lato, ad assicurare al lavoratore incolpato il diritto di difesa nella sua effettività, così da consentirgli il pronto allestimento del materiale difensivo per poter contrastare più efficacemente il contenuto degli addebiti, e, dall’altro, nel caso di ritardo della contestazione, a tutelare il legittimo affidamento del prestatore – in relazione al carattere facoltativo dell’esercizio del potere disciplinare, nella cui esplicazione il datore di lavoro deve comportarsi in conformità ai canoni della buona fede – sulla mancanza di connotazioni disciplinari del fatto incriminabile, con la conseguenza che, ove la contestazione sia tardiva, si realizza una preclusione all’esercizio del relativo potere e l’invalidità della sanzione irrogata. Nè può ritenersi che l’applicazione in senso relativo del principio di immediatezza possa svuotare di efficacia il principio medesimo, dovendosi reputare che, tra l’interesse del datore di lavoro a prolungare le indagini in assenza di una obbiettiva ragione e il diritto del lavoratore ad una pronta ed effettiva difesa, prevalga la posizione di quest’ultimo, tutelata “ex lege”, senza che abbia valore giustificativo, a tale fine, la complessità dell’organizzazione aziendale.” (Cass. 08/06/2009, n. 13167 e, in termini, tra le altre, Cass. 11/08/2015, n. 16683, Cass. 27/02/2014, n. 4724, Cass. 20/07/2004, n. 13482).

In stretta consequenzialità con la riconosciuta finalità del requisito della immediatezza della contestazione L. n. 300 del 1970, ex art. 7 si pongono, poi, quelle pronunzie secondo le quali “il ritardo nella contestazione può costituire un vizio del procedimento disciplinare solo ove sia tale da determinare un ostacolo alla difesa effettiva del lavoratore, tenendo anche conto che il prudente indugio del datore di lavoro, ossia la ponderata e responsabile valutazione dei fatti, può e deve precedere la contestazione anche nell’interesse del prestatore di lavoro, che sarebbe palesemente colpito da incolpazioni avventate o comunque non sorrette da una sufficiente certezza da parte del datore di lavoro” (Cass. 03/05 2017, n. 10688; v. anche Cass. 18/01/2007 n. 1101; Cass. 241 del 11/01/2006, n. 241). Per questi motivi, quindi, non si ravvisa, nella specie, alcun vizio della contestazione che, sotto il profilo della tardività, possa determinare ex se l’illegittimità del licenziamento.

Il quarto motivo dell’appello principale, relativo alla natura retributiva dell’indennità estero e delle stock option, è fondato.

Il sig. (…), sin dal primo grado, ha dedotto che quanto percepito negli anni in relazione all’esercizio delle stock option, avendo tali somme natura di retribuzione e non essendo occasionali, stante la cadenza predeterminata in piani tri/quadriennali, avrebbe dovuto incidere sul TFR e sull’indennità sostitutiva del preavviso, per la quale si deve tener conto della media dell’ultimo triennio, che in base allo Stock Option Plan 2019-2022 e alla lettera di distacco, portavano ad una media annua di Euro 107.518,00 (cfr. doc. 17, 41bis e 43).

Per le indennità estero, il ricorrente aveva precisato che erano costitute da varie voci annuali, ovvero da una retribuzione versata direttamente da (…) pari ad Euro 80.920,18 annui, da un’indennità alloggio pari ad Euro 60.690,13 per una abitazione ad Atlanta e un alloggio a Columbus, da un’autovettura in dotazione al costo annuo aziendale pari ad Euro 16.183,68) (cfr. doc. 5 e 6 fasc. di primo grado), per il complessivo importo annuo di Euro 157.794,00.

Considerato che dette indennità sono state erogate dal 1 luglio 2019 al 16 maggio 2022, per un totale di Euro 453.657,46, il ricorrente ha chiesto l’incidenza di tale importo sul calcolo del TFR, pari ad Euro 36.200,70 (doc. H46 in appello), oltre che, quale media del triennio, per Euro 157.794,00 sugli istituti indiretti, quantificando, quindi, la retribuzione mensile di riferimento, da prendere a base del computo dell’indennità sostitutiva del preavviso, in Euro 65.368,65 come da conteggio prodotto (sub doc. 66 fasc. di primo grado e schema riassuntivo sub nota 47 appello).

Individuata, quindi, la suddetta retribuzione mensile di riferimento, considerata l’anzianità dell’ing. (…), pari ad oltre 18 anni, per cui è previsto un preavviso di 12 mesi, l’appellante ha quantificato tale indennità in Euro 784.423,80, oltre ad Euro 58.105,50 quale incidenza del predetto importo sul TFR (cfr. doc. 66 fasc. di primo grado).

La società – anche in sede di appello – non ha contestato specificamente i predetti conteggi, adducendo solamente che l’indennità estero e le stock option non potessero incidere sugli istituti legali e contrattuali: la prima in quanto esclusa dalla lettera di assegnazione e le seconde in base a quanto previsto nel relativo Regolamento (cfr. memoria pag. da 49 a 53), considerando solo gli MBO e, quindi, quantificando la retribuzione di riferimento nel minor importo di Euro 43.259,32 (cfr. memoria pag. da 49 a 53).

La sentenza impugnata ha aderito a tale ultima tesi, ritenendo che “La mensilità deve essere quantificata in euro 43.259,32 dovendosi condividere il calcolo della parte resistente, la quale non vi include né l’importo percepito per le stock options né l’indennità estero. Ciò in quanto nella side letter del 5 luglio del 2019, sottoscritta dal ricorrente al momento del distacco in USA, si prevede espressamente che l’indennità estero non costituisce “retribuzione aggiuntiva” (v. doc.ti 5 e 8 ric.). Inoltre, nel regolamento epta 2019 2022 si prevede che il piano di stock options ha “carattere straordinario e non potrà essere considerato quale parte integrante della retribuzione”.

Ad avviso di questo Collegio, la sentenza non ha correttamente considerato il combinato disposto degli artt. 2099, 2118, 2020 e 2021 cod. civ., nonchè i principi elaborati dalla Suprema Corte in materia.

In base all’art. 2099, 3 comma c.c. “il prestatore di lavoro può anche essere retribuito in tutto o in parte con partecipazione agli utili o ai prodotti, con provvigione o con prestazioni in natura”.

Il preavviso è regolato dall’art. 2118 c.c., che rinvia, per la determinazione, alla disciplina del CCNL di settore, e dall’art. 2121 c.c., che, al primo comma, sancisce: “L’indennità di cui all’articolo 2118 deve calcolarsi computando le provvigioni, i premi di produzione, le partecipazioni agli utili o ai prodotti ed ogni altro compenso di carattere continuativo, con esclusione di quanto è corrisposto a titolo di rimborso spese.

Se il prestatore di lavoro è retribuito in tutto o in parte con provvigioni, con premi di produzione o con partecipazioni, l’indennità suddetta è determinata sulla media degli emolumenti degli ultimi tre anni di servizio o del minor tempo di servizio prestato”.

In relazione al TFR, l’art. 2120 c.c., prevede che “Salvo diversa previsione dei contratti collettivi la retribuzione annua, ai fini del comma precedente, comprende tutte le somme, compreso l’equivalente delle prestazioni in natura, corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro, a titolo non occasionale e con esclusione di quanto è corrisposto a titolo di rimborso spese”.

Nella specie, l’art. 24 del CCNL di settore (doc. 64, fasc. di primo grado) non effettua alcuna deroga, stabilendo che “per il computo del trattamento di fine rapporto, si considerano, oltre allo stipendio, tutti gli elementi costitutivi della retribuzione aventi carattere continuativo, ivi compresi le provvigioni, i premi di produzione ed ogni altro compenso ed indennità anche se non di ammontare fisso, con esclusione di quanto corrisposto a titolo di rimborso spese e di emolumenti di carattere occasionale. Fanno altresì parte della retribuzione l’equivalente del vitto e dell’alloggio eventualmente dovuti al dirigente nella misura convenzionalmente concordata, nonché le partecipazioni agli utili e le gratifiche non consuetudinarie e gli aumenti di gratifica pure non consuetudinari, corrisposti in funzione del favorevole andamento aziendale”.

In base alle predette norme, quindi, deve ritenersi che ogni elemento della retribuzione non occasionale e non erogato a titolo di puro rimborso spese, debba incidere nel computo del TFR e debba altresì essere considerato, quale media nel triennio precedente, per il calcolo dell’indennità sostitutiva del preavviso. Una deroga al predetto principio generale, in tema di TFR, è, infatti, ammessa solo nel caso di diversa previsione della contrattazione collettiva di settore, mentre per il calcolo dell’indennità sostitutiva del preavviso valgono solo i principi dell’art. 2121 c.c., senza possibilità di deroga delle parti.

Sul punto, la giurisprudenza è, infatti, univoca nel ritenere che “Ai fini del calcolo del t.f.r. i criteri di quantificazione della retribuzione annua fissati dall’art. 2120 c.c. nuovo testo possono essere derogati solo dalla normativa collettiva intervenuta successivamente all’entrata in vigore della norma di legge” (Cass. sez. lav. – 25/09/2019, n. 23932; conf. Cass. sez. lav. – 24/10/2012, n. 18207). Inoltre: “Il concetto di retribuzione recepito dagli art. 2118, comma 2, c.c. (ai fini del calcolo dell’indennità di preavviso in caso di licenziamento) e 2120 c.c. (ai fini del calcolo del t.f.r.) è ispirato al criterio dell’onnicomprensività, nel senso che in detti calcoli vanno compresi tutti gli emolumenti che trovano la loro causa tipica e normale nel rapporto di lavoro cui sono istituzionalmente connessi, anche se non strettamente correlati alla effettiva prestazione lavorativa, mentre ne vanno escluse solo quelle somme rispetto alle quali il rapporto di lavoro costituisce una mera occasione contingente per la relativa fruizione, quand’anche essa trovi la sua radice in un rapporto obbligatorio diverso ancorché collaterale e collegato al rapporto di lavoro” (Cass. sez. lav. – 01/10/2012, n. 16636).

I suddetti principi sono affermati con particolare riferimento alla c.d. indennità estero: “Ai fini della determinazione della base di computo del trattamento di fine rapporto, ai sensi dell’art. 2120, comma 2 c.c., ed in assenza di una espressa deroga contenuta nella contrattazione collettiva, la natura di retribuzione di un emolumento aggiuntivo corrisposto al lavoratore per lo svolgimento di lavoro all’estero o in altra sede lavorativa è desumibile da indici sintomatici (compresi quelli che emergono in sede di conclusione del contratto individuale) che denotino la non occasionalità dell’emolumento. … Perciò deve attribuirsi natura retributiva all’elargizione per abitazione corrisposta a un funzionario bancario trasferito con familiari conviventi” (Cass., 3/6/2019, n. 15124; conf. Cass., 22/07/2016, n. 15217).

Per costante giurisprudenza, “detta attribuzione patrimoniale può essere prevista da pattuizioni collettive e/o individuali, per cui natura e funzione non sono identificabili in astratto nè sulla base della mera qualificazione nominalistica offerta dalle parti, ma devono essere di volta in volta individuate sulla base delle circostanze del caso concreto.

Occorre sottolineare che la natura retributiva dell’erogazione va riconosciuta tanto in presenza di una funzione compensativa della maggiore gravosità e del disagio morale ed ambientale della prestazione all’estero, che nel caso in cui si correli invece all’insieme delle qualità e condizioni personali che concorrono a formare la professionalità eventualmente indispensabile per prestare lavoro fuori dei confini nazionali (per tutte v. Cass. n. 2255 del 1993; conformi: Cass. n. 15414 del 2000; Cass. n. 15656 del 2001).

Infatti, il discrimen tra compenso del disagio e compenso della professionalità è rilevante non per disconoscere la natura retributiva dell’erogazione quanto piuttosto ai soli fini della “definitività” o non dell’attribuzione patrimoniale allorchè cessi la dislocazione all’estero (cfr., oltre a Cass. n. 2255/1993 cit., Cass. n. 5157 del 1988; Cass. n. 475 del 1989; Cass. n. 3278 del 2004). Di contro l’emolumento può essere ascrivibile alla categoria del rimborso spese, eccettuato dall’art. 2120 c.c., comma 2, dal computo nella base di calcolo del TFR, ove abbia natura meramente riparatoria e costituisca una reintegrazione di una diminuzione patrimoniale, conseguente ad una spesa che il lavoratore sopporta nell’esclusivo interesse del datore di lavoro, tenuto perciò a riparare la lesione subita, ed è normalmente collegato ad una modalità della prestazione lavorativa, richiesta per esigenze straordinarie, che trova fondamento in una causa autonoma rispetto a quella della retribuzione: le erogazioni effettuate dal datore di lavoro hanno la natura di rimborso di spesa precisamente quando, non rivestendo i caratteri della continuità e determinatezza (o determinabilità), consistono nella reintegrazione di somme effettivamente spese dal dipendente medesimo nell’interesse dell’imprenditore e non attinenti, perciò, all’adempimento degli obblighi impliciti nella prestazione lavorativa, cui egli è contrattualmente tenuto (Cass. n. 6563 del 2009; Cass. n. 2015 del 1987)” (Cass., 21/04/2016, n.8086).

Ai fini della individuazione della natura di retribuzione ovvero di rimborso spese del trattamento corrisposto per lo svolgimento di lavoro all’estero, “deve aversi riguardo ad indici sintomatici, che consentano una valutazione della suddetta natura in via induttiva, senza trascurare, in tale indagine, anche elementi che emergano in sede di stipulazione del contratto individuale, che assumono, per quanto detto, valore orientativo ai fini considerati;

così, ai fini dell’identificazione dei caratteri propri della retribuzione, rilevano sicuramente: a) la continuità, periodicità ed obbligatorietà della somma corrisposta o del beneficio riconosciuto, b) l’assenza di giustificativi di spesa, c) la natura compensativa del disagio o della penosità della prestazione resa, d) il rapporto di necessaria funzionalità con la prestazione lavorativa, e) la sottesa garanzia di salvaguardia del livello retributivo e di adeguamento ai maggiori oneri derivanti dal nuovo ambiente di lavoro, f) il prelievo contributivo effettuato (la cui mancanza non può, tuttavia, deporre necessariamente nel senso della connotazione quale esborso della indennità riconosciuta e della esclusione della natura retributiva);

diversamente, la finalità di tenere indenne il lavoratore da spese che quest’ultimo non avrebbe incontrato se non fosse stato trasferito e che ha sostenuto nell’interesse dell’imprenditore (non attinenti, perciò, all’adempimento degli obblighi impliciti nella prestazione lavorativa, cui egli è contrattualmente tenuto) è indice della natura non retributiva dell’emolumento, normalmente collegato ad una modalità della prestazione lavorativa richiesta per esigenze straordinarie, priva dei caratteri della continuità e determinatezza (o determinabilità) e fondata su una causa autonoma rispetto a quella retributiva, con tendenziale esclusione, per volontà collettiva, dalla base di computo del t.f.r., che, tuttavia, non può estendersi al di là dell’espressa previsione derogatoria rispetto alla generale previsione codicistica;

i suddetti principi vanno, poi, coniugati con quello più strettamente attinente all’onere della prova, considerato che, per l’art. 2120 c.c., ove i contratti collettivi non contengano diversa previsione, la retribuzione annua comprende tutte le somme corrisposte a titolo non occasionale e non di rimborso spese e che l’esclusione di una o più voci dalla base retributiva, costituendo deroga all’indicato principio, presuppone in primo luogo una volontà della norma collettiva che neghi espressamente l’inclusione, ed esige, poi, una specifica prova di questa negazione da parte di colui che l’invochi” (Cass., 03/08/2018, n.20505).

Nella specie, l’indennità estero percepita dal sig. (…), in assenza di una specifica esclusione stabilita dal CCNL, deve certamente ritenersi di natura retributiva in quanto risulta erogata in modo continuativo ed obbligatorio, in assenza di giustificativi di spesa, con l’evidente funzione di compensare il disagio della prestazione resa, in rapporto di necessaria funzionalità con la prestazione lavorativa e con la sottesa garanzia di salvaguardia del livello retributivo e di adeguamento ai maggiori oneri derivanti dal nuovo ambiente di lavoro. L’indennità estero, pertanto, concorre al computo degli istituti legali, quali TFR e indennità sostitutiva del preavviso, “a prescindere dall’assetto riconducibile alla qualificazione delle parti”, dovendo ritenersi la disciplina legale “prevalente sulla concreta previsione delle stesse quanto alla inclusione nel trattamento di fine rapporto, in mancanza di deroga espressa da parte della contrattazione collettiva ai sensi dell’art. 2120, comma 2, c.c.” (Cass. sez. lav. – 05/10/2018, n. 24594; conf. Cass. sez. lav. – 31/08/2018, n. 21519; Cass. sez. lav. – 22/07/2016, n. 15217).

Lo stesso discorso vale per il ricavato delle stock option.

Sul punto, infatti, si rileva che, secondo la Suprema Corte, “l’utilizzo delle stock option costituisce una particolare forma di distribuzione di azioni ai dipendenti. Mentre grazie all’art. 2349 c.c. una società può, con delibera dell’assemblea straordinaria, assegnare utili ai propri dipendenti emettendo per lo stesso importo speciali categorie di azioni da assegnare loro individualmente, con l’art. 2441 c.c., comma 8, si consente che l’assemblea straordinaria deliberi un aumento di capitale e contestualmente conferisca ai lavoratori il diritto di sottoscrivere le corrispondenti azioni (solitamente ad un prezzo più basso). In quest’ultimo ambito si inserisce quella forma atipica di distribuzione delle azioni che va sotto il nome di stock option: la società predispone piani nei quali riserva ai dipendenti (o anche soltanto ad una loro determinata categoria, oppure a singoli) la facoltà di esercitare un’opzione di acquisto di azioni della società medesima ad un prezzo bloccato ed entro una determinata scadenza. In tal modo il lavoratore ha la possibilità di sottoscrivere azioni della società nel termine indicato dal piano (termine che non può essere modificato fino alla scadenza dell’opzione) e ad un prezzo fissato al momento dell’offerta. La finalità è quella di incentivare la produttività e di fidelizzare i dipendenti, i quali a loro volta hanno la possibilità di realizzare una plusvalenza (che costituisce reddito da lavoro dipendente: cfr. Cass. n. 11214/11), che consiste nella differenza tra il valore di mercato che le azioni hanno maturato nel periodo in cui l’opzione era valida e il prezzo fissato al momento dell’offerta.

Si tratta, dunque, d’una diffusa forma di retribuzione mediante partecipazione agli utili, il che è consentito dall’art. 2099 c.c..

Dunque, avendo le stock option natura retributiva, ogni controversia (fra la società e il suo dipendente) in ordine alla loro spettanza rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, secondo il rito speciale (del lavoro)” (così Cass. sez. lav. -22/07/2016, n. 15217).

Occorre, poi, rilevare che sono considerati reddito da lavoro dipendente, in base all’art. 51 (già 48) del TUIR (DPR n. 917/1986) “tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo d’imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro” e che da tempo sono venute meno le agevolazioni riferite alla “differenza tra il valore delle azioni al momento dell’assegnazione e l’ammontare corrisposto dal dipendente”.

L’Amministrazione finanziaria (vedi, ad es., la circolare n. 326 del 23 dicembre 1997) ha avuto modo di chiarire che nella categoria dei redditi di lavoro dipendente debbano rientrare tutte le attribuzioni in qualche modo riconducibili al rapporto di lavoro, “anche se non provenienti direttamente dal datore di lavoro” (come potrebbe essere il caso dell’erogazione effettuata da parte di un’altra società del gruppo) e “indipendentemente dal nesso sinallagmatico tra effettività della prestazione di lavoro reso e le somme e i valori percepiti”, comprese “le somme e i valori percepiti sotto forma di partecipazione agli utili”.

Proprio in virtù dell’ampiezza di tale definizione, sono considerate produttive di redditi di lavoro dipendente le stock options ovvero, più in particolare, la differenza tra il valore normale delle azioni e il prezzo di esercizio pagato dai dipendenti per il loro acquisto. Il manager ha, infatti, la possibilità, senza assumere alcun rischio, di beneficiare del maggior valore acquisito dalla società emittente, derivante dal pagamento di uno strike price inferiore al valore di mercato delle azioni.

Dopo un periodo di rilevanti agevolazioni fiscali è stato eliminato ogni regime fiscale di favore per le stock option, prevedendo la tassazione integrale progressiva, come ogni altro reddito da lavoro. E’ stata mantenuta, però, l’esenzione contributiva, in quanto il D.L. 112/2008, all’art. 82, comma 24 – bis, ha introdotto una espressa deroga ai principi di armonizzazione ed ha escluso dalla base imponibile contributiva, di cui all’art. 27, 4 co. del D.P.R. 30 maggio 1955 n. 79750, la lett. g-bis), concernente “i redditi da lavoro dipendente derivanti dall’esercizio di piani di stock option”.

In definitiva, quindi, in relazione agli istituti legali del TFR e dell’indennità di preavviso, la cui disciplina non è derogabile dalle parti, deve ritenersi irrilevante nella specie quanto previsto nella side letter del 5 luglio 2019, che, peraltro, fa riferimento solo alla “retribuzione aggiuntiva” e non a tutte le altre indennità (alloggio, auto, ecc.) previste nella lettera di distacco (cfr. doc. 5 fasc. di primo grado), né nel Regolamento del piano di stock option (cfr. doc. 2bis e 16 fasc. di primo grado), potendo al più valere per istituti solo contrattuali, come la 13A, ma non con riferimento al TFR o all’indennità sostitutiva del preavviso.

Alla luce di tali argomentazioni, atteso che i conteggi dell’appellante principale non sono stati specificamente contestati, la retribuzione mensile lorda percepita dal sig. (…) dev’essere quantificata nella misura di Euro 65.368,65 con la conseguenza che tale importo dovrà formare la base di calcolo dell’indennità sostitutiva del preavviso come riconosciuta dal Giudice di primo grado. Inoltre, (…) è tenuta a corrispondere all’appellante principale l’ulteriore importo di Euro 126.322,93 a titolo di incidenza sul TFR (di cui Euro 36.200,70 per le indennità estero ed Euro 90.122,23 per le stock option) oltre rivalutazione e interessi legali dal dovuto al saldo.

In relazione alla pretesa di ottenere il pagamento del Premio la censura dell’appellante principale è infondata.

A prescindere dalla considerazione della mancata prova dell’accordo tra le parti sull’individuazione degli obiettivi pluriennali, appare decisivo nella specie quanto stabilito nella lettera di incarico (sub doc 5) laddove si afferma che “nessun importo verrà erogato a titolo di bonus qualora il rapporto cessi prima del 31 dicembre di ciascun anno di competenze”.

Nella specie, quindi, il pagamento non poteva essere eseguito in quanto, essendo stato il licenziamento intimato in data 16 maggio 2022, il dirigente non era più in servizio al 31 dicembre 2022 e, quindi, non avrebbe potuto percepire il premio unico relativo al quadriennio “2019-2022”.

L’ing. (…) ha censurato altresì la sentenza nella parte in cui ha rigettato la domanda risarcitoria connessa all’esborso per conseguire la pensione, quantificato nell’importo di Euro 273.283,85.

Secondo l’appellante, il Tribunale avrebbe erroneamente richiamato una previsione della lettera del 5 luglio 2019 contenente la complessiva regolamentazione del distacco e non la side letter del 5 luglio 2019 su cui si fonderebbe la domanda.

L’appellante principale – sostenendo che (…) avrebbe dovuto garantirgli una posizione di lavoro nell’ambito del gruppo sino al conseguimento dei requisiti per accedere alla pensione – ha richiamato la predetta side letter ove si legge che la società appellata “si riserva la facoltà di interrompere il periodo di distacco prima della scadenza stabilita, dandoLe opportune motivazioni. In tale eventualità, il rientro dovrà esserle comunicato con un preavviso di almeno tre mesi di anticipo. Al verificarsi di tale evenienza cesserà del presente contratto e lei riprenderà a lavorare come lavoratore in servizio secondo le leggi italiane”. La censura non merita accoglimento.

Il Tribunale ha correttamente statuito che “La clausola non appare applicabile al caso di specie ma piuttosto a quello in cui il rapporto prosegua in Italia con (…) e non sia interrotto per licenziamento”.

Già nella lettera del 5 luglio 2019, infatti, viene sancito il diritto dell’ing. (…), al termine del distacco, di riprendere a lavorare come lavoratore in servizio secondo le leggi italiane; nella side letter del 2019 viene poi ulteriormente specificata la garanzia di una posizione di lavoro nel gruppo alle condizioni economiche concordate fino alla data in cui il Ricorrente avrebbe raggiunto i requisiti per accedere alle prestazioni pensionistiche.

Ebbene, il presupposto che legittima l’obbligo datoriale di garantire un posto di lavoro è la cessazione dell’incarico presso (…) e il rientro nell’organizzazione di (…)

Il licenziamento sorretto da giustificatezza rende pacificamente non più applicabile l’obbligo datoriale specificato nei documenti sopra menzionati, non essendosi verificato alcun rientro in Italia né ripresa dell’attività lavorativa in seno a (…).

Come correttamente evidenziato dal Tribunale, “difetta il nesso di causalità tra l’allegato inadempimento (che nella specie nemmeno sussiste) e il preteso danno”: (…), invero, non ha violato alcuna delle obbligazioni assunte nella lettera di distacco né nella side letter: il danno rivendicato dall’appellante non può in alcun modo essere ascritto al comportamento datoriale, essendo stata accertata la giustificatezza del licenziamento irrogato.

Con l’appello incidentale, la società ha censurato la sentenza impugnata laddove ha riconosciuto al dirigente il diritto di vedersi corrispondere la somma di euro 218.186,60 corrispondente al ricavato delle azioni assegnate e in relazioni alle quali non è stato consentito al ricorrente l’esercizio del diritto di opzione in quanto classificato bad leaver).

Il primo Giudice ha ritenuto che l’esercizio del diritto fosse precluso al dirigente solamente nel caso di cessazione del rapporto per giusta causa. La censura è infondata.

In via generale, l’ipotesi di c.d. bad leaver si differenzia da quella di c.d. good leaver quando il rapporto si interrompa per cause addebitabili al beneficiario e non per altri eventi oggettivi.

Nella specie, però, il regolamento (doc 19) stabilisce espressamente che, per Bad leaver “si intende la cessazione del Rapporto per (i) revoca del Beneficiario per giusta causa o giustificato motivo soggettivo o (ii) dimissioni senza giusta causa del Beneficiario”.

Non può farsi rientrare la “giustificatezza” (istituto contrattuale e giurisprudenziale) nel concetto legale di giustificato motivo soggettivo. Il regolamento, infatti, stabilisce espressamente che il dirigente, per essere definito bad leaver debba essere responsabile di gravi inadempienti tali da giustificare un recesso per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo. Deve ritenersi, pertanto, corretta la sentenza impugnata che ha concesso al dirigente di esercitare le options in presenza di una cessazione del rapporto non fondata su gravi inadempienze.

E’ fondata invece la censura dell’appellante incidentale con riferimento al capo di sentenza che ha accordato al dirigente il rimborso spese per il rientro in Italia. Appare, infatti, evidente che tale impegno era direttamente subordinato alla cessazione del distacco (finalizzato, cioè, a far rientrare il dipendente in Italia per la ripresa del lavoro) e non alla cessazione definitiva del rapporto di lavoro. In questo secondo caso, l’impegno dell’azienda deve ritenersi cessato nel momento in cui il rapporto di lavoro è stato legittimamente risolto. Nella lettera di distacco è specificato che la società si impegnava a garantire annualmente un’indennità di viaggio per massimo n. 2 biglietti annui a/r per persona dagli Stati Uniti all’Italia (classe business) per l’ing. (…) e per il suo partner oltre alle spese del trasloco.

Nel caso di specie, essendo stata accertata la giustificatezza del licenziamento e, quindi, il venir meno della fiducia del datore di lavoro riposta nel dirigente, alla società non può essere addebitato alcun costo per le spese di rientro in Italia e di trasloco, neppure a titolo risarcitorio.

In conclusione, quindi, in parziale riforma della sentenza impugnata, si ridetermina il tallone mensile per il calcolo del preavviso nella maggior somma di euro 65.368,65 con condanna, inoltre, di (…) a corrispondere

all’appellante principale l’ulteriore importo di Euro 126.322,93 a titolo di incidenza sul TFR delle indennità estero e delle stock option, oltre rivalutazione e interessi legali dal dovuto al saldo.

Infine, deve dichiararsi non dovuto da (…) l’importo di euro 22.727,90 a titolo di rimborso dei costi di rientro.

Stante la parziale reciproca soccombenza, le spese del grado sono poste a carico di (…) nella misura di 2/3, con compensazione tra le parti del residuo, e liquidate come da dispositivo, in ragione della controversia e delle tabelle dei compensi professionali di cui al DM n. 55 del 10 marzo 2014, come modificato dal decreto 13-8-2022, n. 147.

P.Q.M.

In parziale riforma della sentenza n. 2183/2023 del Tribunale di Milano, quantifica il tallone mensile per il calcolo del preavviso nella maggior somma di euro 65.368,65;

condanna, inoltre, (…) a corrispondere all’appellante l’ulteriore importo di Euro 126.322,93 a titolo di incidenza sul TFR (di cui Euro 36.200,70 per le indennità estero ed Euro 90.122,23 per le stock option) oltre rivalutazione e interessi legali dal dovuto al saldo;

dichiara non dovuto da (…) l’importo di euro 22.727,90 a titolo di rimborso dei costi di rientro;

conferma le restanti statuizioni di merito;

condanna, infine, (…) a rifondere le spese di entrambi i gradi nella misura di 2/3, liquidate in tale quota in complessivi euro 22.000,00 oltre spese generali ed oneri di legge, con compensazione del residuo.

 

Stock option e retribuzione
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