Il patto di diminuzione del compenso intercorso tra datore di lavoro e dipendente è nullo laddove non sia formalizzato in una sede protetta e le mansioni restino invariate.

Nota a Cass. (ord.) 9 ottobre 2024, n. 26320

Sonia Gioia

L’imprenditore e il prestatore possono stipulare un accordo di diminuzione del trattamento economico rispetto a quello concordato, in deroga al principio della irriducibilità della retribuzione, in caso di assegnazione a mansioni inferiori, a condizione che vi sia un effettivo mutamento dell’attività svolta e che l’accordo sia stipulato nell’interesse del lavoratore  presso una “sede protetta” (vale a dire, nell’ambito di contesti in cui la volontà negoziale del dipendente si presume tutelata da illegittime pressioni del datore di lavoro), ex art. 2103, co. 6, c.c. (come mod. dall’art. 3, D.LGS. 15 giugno 2015, n. 81, concernente “Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni”, a norma dell’art. 1, co. 7, L. 10 dicembre 2014, n. 183).

Pertanto, un patto di reformatio in peius del compenso non accompagnato da una concreta variazione delle funzioni svolte e non effettuato nel rispetto dei limiti formali e sostanziali soprarichiamati è nullo per violazione di norma imperativa.

Lo ha ribadito la Corte di Cassazione (ord.) 9 ottobre 2024, n. 26320 (conforme ad App. Milano n. 1794/2020, annotata in q. sito da S. GIOIA), in relazione ad una fattispecie concernente un dirigente che lamentava l’illegittimità dell’accordo di diminuzione della retribuzione, sia in moneta che in natura, a seguito del quale aveva rassegnato le proprie dimissioni per giusta causa.

All’esito del giudizio di merito, la Corte distrettuale, in riforma della pronuncia del giudice di prime cure, aveva accertato la nullità dell’accordo di riduzione del compenso – che aveva fissato la remunerazione al di sotto dei minimi retributivi costituzionalmente garantiti e al Trattamento Minimo Complessivo Garantito previsto dal ccnl applicato in azienda (art. 3, ccnl Dirigenti Industria) – in quanto stipulato al di fuori di una sede assistita e in assenza di una modifica delle mansioni e, contestualmente, aveva dichiarato l’illegittimità della unilaterale decisione dell’azienda di ridurre ulteriormente il compenso addebitando al prestatore in misura maggiore rispetto a quella pattuita i costi dell’autovettura concessa in uso promiscuo (personale e aziendale), la cui modifica in peius per il dipendente è soggetta alle “medesime stringenti regole” di cui all’art. 2103 c.c., trattandosi di un “elemento indiretto della retribuzione”.

Come noto, il principio di irriducibilità della remunerazione, vigente nel nostro ordinamento, implica che  “la retribuzione concordata al momento dell’assunzione non è riducibile neppure a seguito di accordo tra il datore e il prestatore di lavoro e ogni patto contrario è nullo in ogni caso in cui il compenso pattuito anche in sede di contratto individuale venga ridotto”, fatte salve le eccezioni riguardanti gli emolumenti erogati in ragione di particolari modalità della prestazione lavorativa o collegati a specifici disagi o difficoltà, che non spettano allorché vengano meno le situazioni cui erano collegati (art. 2103, co. 5, c.c.) (Cass. n. 23205/2023, con nota in q. sito di F. GIROLAMI; Cass. n. 19092/2017; Cass. n. 4055/2008).

In deroga al principio soprarichiamato, le parti possono concordare modifiche anche peggiorative delle mansioni, della categoria legale, del livello di inquadramento e della retribuzione, purché l’accordo sia stipulato:

  • dinanzi alle commissioni di certificazione dei contratti o nelle sedi enunciate dall’art. 2113, co. 4, c.c., vale a dire durante il tentativo di conciliazione di cui all’art. 185 c.p.c., di quello svolto di fronte alla commissione di conciliazione ai sensi dell’art. 410 c.p.c. o nell’ambito di un arbitrato o conciliazione regolati dai contratti collettivi ex art. 312 terp.c. o di quello regolato dall’art. 412 quater c.p.c. (c.d. “sedi protette”);
  • in forma scritta;
  • nell’interesse del lavoratore, che può farsi assistere da un rappresentante sindacale, da un avvocato o da un consulente del lavoro, “alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita” (art. 2103, co. 6, cit.).

Pertanto, una reformatio in peius del trattamento economico del dipendente concordata in assenza dei requisiti formali e sostanziali previsti dalla normativa codicistica e in assenza di un effettivo mutamento delle mansioni è nullo per contrarietà a norma imperativa.

In attuazione di tali principi, la Cassazione, nell’accogliere le doglianze del ricorrente, ha dichiarato la nullità dell’accordo di riduzione della retribuzione per mancato rispetto delle formalità poste dalla legge a tutela dei diritti sostanziali del lavoratore e l’illegittimità della revisione del trattamento economico dell’autovettura aziendale, con conseguente condanna della società datrice al pagamento delle differenze retributive, precisando che, se il trattamento economico acquisito è irriducibile, salvo accordo in sede protetta e a determinate condizioni in caso di modifica delle funzioni svolte, “a maggior ragione la retribuzione è irriducibile se neppure un mutamento di mansioni ricorra”, come nel caso di specie, “comunque al di fuori della sede protetta”.

Ciò, sul presupposto che la disciplina di cui all’art. 2103, co. 6, cit., secondo cui patti di modifica delle mansioni, del livello di inquadramento e del relativo compenso possono essere stipulati solo nell’interesse del lavoratore nelle sedi assistite, “ricomprende tutte le ipotesi di accordo per la riduzione della retribuzione, anche senza mutamento di mansioni o di livello di inquadramento”.

Sentenza

CORTE DI CASSAZIONE ordinanza 9 ottobre 2024, n. 26320

Svolgimento del processo

1.la Corte d’Appello di Milano, in riforma di sentenza del Tribunale di Lecco (che aveva rigettato le domande di A.A. nei confronti di F.I.M.I. Spa, di cui era stato dirigente e da cui si era dimesso per allegata giusta causa), dichiarava la nullità dell’accordo tra le parti del 22.2.2016 (di riduzione della retribuzione nella misura del 10%, con rinuncia da parte del lavoratore a quanto previsto dal CCNL in materia di TMCG -Trattamento minimo complessivo garantito, e all’impugnazione della rinuncia); dichiarava l’illegittimità della revisione del trattamento economico dell’autovettura aziendale del settembre 2016, e conseguentemente non dovuta la somma addebitata a tale titolo (Euro 863,29 di cui a fattura n. 874/2016); condannava la società al pagamento di somme (Euro 5.953,86 per differenze retributive, Euro 606,39 per differenze su rateo 13a, Euro 441,03 per differenza TFR); accertava la sussistenza della giusta causa delle dimissioni rassegnate in data 22.11.2016; condannava la società a pagare all’appellante l’indennità sostitutiva del preavviso (Euro 85.999,94) e il TFR sull’indennità sostitutiva del preavviso (Euro 6.370,37); condannava la società e a restituire le somme trattenute dalla società a titolo di mancato preavviso (Euro 25.779,97, oltre Euro 95,94 a titolo di incidenza sul TFR);

2. in particolare, la Corte di merito:

– dichiarava la nullità dell’accordo di riduzione della retribuzione, perché formalizzato in violazione delle norme imperative (stabilite dall’art. 2103  c.c.) per tale riduzione, che deve essere concordata in sede protetta; ciò a maggior ragione, come nel caso di specie, ove neppure intervenga una modifica delle mansioni;

– analogamente, dichiarava illegittima l’unilaterale decisione della società di addebitare al dirigente in misura maggiore a quella pattuita, a partire da ottobre 2016, i costi della vettura aziendale concessa in uso promiscuo (personale e aziendale), quale elemento indiretto della retribuzione, la cui modifica in senso peggiorativo per il lavoratore è soggetta alle medesime stringenti regole;

– riteneva sussistente la giusta causa di dimissioni, tenuto conto della diffida alla società ad adempiere correttamente ai suoi obblighi retributivi inviata dal dipendente con lettera 14.11.2016 e della scadenza del termine ivi assegnato, senza riscontro da parte della società, anche tenuto conto che, dopo la prima riduzione della retribuzione, questa era stata ulteriormente diminuita mediante l’addebito per intero dei costi dell’autovettura;

– attribuiva natura retributiva all’indennità per mancato preavviso, con conseguente incidenza sul calcolo del TFR, stante la sussistenza di giusta causa di dimissioni;

– affermava l’obbligo della società di restituire le somme trattenute in sede di risoluzione del rapporto a titolo di mancato preavviso;

3. avverso la sentenza della Corte d’Appello (dato atto di avervi dato esecuzione) propone ricorso per cassazione la società con otto motivi; resiste con controricorso il lavoratore; entrambe le parti hanno depositato memorie; al termine della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza;

Motivi della decisione

1.con il primo motivo, la società ricorrente deduce, conta riferimento alla parte della sentenza che ha dichiarato la nullità dell’accordo di revisione della retribuzione, violazione o falsa applicazione (art. 360 , n. 3, c.p.c.), degli artt. 2103 e 2113 c.c., 3 CCNL Dirigenti Aziende Industriali, nonché (art. 360 , n. 5, c.p.c.) omesso esame di fatto decisivo; sostiene che la Corte di merito non avrebbe potuto dichiarare nullo l’accordo inter partes, in quanto trattavasi di una riduzione della retribuzione consensuale, e che avrebbe dovuto raffrontare il TMCG con la retribuzione annua lorda alla data del 21.12.2016 come stabilito dal CCNL;

2. con il secondo motivo, la società ricorrente deduce, con riferimento alla parte della sentenza che ha dichiarato l’illegittimità della revisione del trattamento dell’auto aziendale, violazione o falsa applicazione (art. 360 , n. 3, c.p.c.) degli artt. 2103 c.c., 51 T.U.I.R., e, in subordine (art. 360 , n. 5, c.p.c.) omesso esame di fatto decisivo; sostiene l’erroneità della qualificazione del beneficio dell’uso dell’auto aziendale a uso privato come parte della retribuzione, nonostante il lavoratore restituisse al datore il costo dell’uso personale, e che la Corte di merito non avrebbe considerato la ritenuta in busta paga per l’uso personale dell’auto;

3. con il terzo motivo deduce, con riferimento alla parte della sentenza che ha riconosciuto la ricorrenza della giusta causa di dimissioni, quanto alla statuizione di irrilevanza del lasso temporale che ha preceduto la comunicazione di dimissioni, nullità della sentenza d’appello (art. 360 , n. 4, c.p.c.), ex art. 112 c.p.c. per vizio di ultra- o extra-petizione, poiché la giusta causa avrebbe dovuto essere riferita solo alle differenze retributive e non anche al mancato ottemperamento alla diffida ad adempiere;

4. con il quarto motivo, sempre con riferimento alla parte della sentenza che ha riconosciuto la ricorrenza della giusta causa di dimissioni, quanto alla statuizione di irrilevanza del lasso temporale che ha preceduto la comunicazione di dimissioni, nullità della sentenza d’appello (art. 360, n. 4 e n. 5, c.p.c.), per motivazione meramente assertiva, contraddittoria, apparente sul punto;

5. con il quinto motivo, quanto alla riconosciuta ricorrenza della giusta causa di dimissioni, violazione o falsa applicazione (art. 360 , n. 3, c.p.c.), degli artt. 2119 e 1445 c.c.; assume che la Corte di merito ha basato la sua valutazione su standard non conformi alla giurisprudenza di legittimità in tema di accertamento della giusta causa di dimissioni;

6. con il sesto motivo, con riferimento al medesimo profilo, la società ricorrente denuncia (art. 360 , n. 5, c.p.c.) omesso esame del fatto decisivo che il lavoratore era a conoscenza delle ragioni della diminuzione retributiva;

7. con il settimo motivo, la società lamenta (art. 360 , n. 5, c.p.c.) omesso esame del fatto che al lavoratore non sarebbe mai stato addebitato alcun importo a titolo di variazione del trattamento dell’autovettura;

8. con l’ottavo motivo, viene dedotta violazione o falsa applicazione (art. 360 , n. 3, c.p.c.) dell’art. 2120 c.c., sostenendo che la Corte di Milano avrebbe erroneamente incluso l’indennità di mancato preavviso nella base di computo del TFR;

9. il primo motivo non è fondato;

10. secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità (richiamata nella sentenza impugnata), il principio dell’irriducibilità della retribuzione, dettato dall’art. 2103 c.c.,

implica che la retribuzione concordata al momento dell’assunzione non è riducibile neppure a seguito di accordo tra il datore e il prestatore di lavoro e che ogni patto contrario è nullo in ogni caso in cui il compenso pattuito anche in sede di contratto individuale venga ridotto (salve le eccezioni, che qui non rilevano, riguardanti componenti della retribuzione erogate per compensare particolari modalità della prestazione lavorativa – cfr. Cass. n. 4055/2008 , n. 19092/2017 , n. 23205/2023 );

11. a norma del vigente art. 2103 c.c., comma 6 (modificato dall’art. 3 D.Lgs. n. 81/2015 ): “Nelle sedi di cui all’articolo 2113, quarto comma, o avanti alle commissioni di certificazione, possono essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni, della categoria legale e del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita. Il lavoratore può farsi assistere da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato o da un avvocato o da un consulente del lavoro. (… ult. comma…) ogni patto contrario è nullo”;

12. dunque, in forza di tale modifica normativa, modifiche peggiorative della retribuzione sono possibili in caso di modifica di mansioni, qualora concordate, con determinati presupposti, e formalizzate esclusivamente in sede protetta, a pena di nullità;

13. nella fattispecie concreta, non risultano né modifica di mansioni, né formalizzazione in sede protetta; quest’ultima è una garanzia a presidio del ricordato principio di irriducibilità della retribuzione, che quindi opera secondo lo schema, letterale e logico, dell’eccezione rispetto alla regola, e infatti è sanzionata, in caso di violazione, da nullità;

14. deve quindi essere condivisa l’interpretazione sistematica seguita dalla Corte, che, rovesciando l’ottica del primo grado, che aveva ritenuto il principio di irriducibilità operante solo in caso di mutamento di mansioni, ha invece correttamente inquadrato la fattispecie nell’ambito dei principi generali, specificando che, se la retribuzione è irriducibile, salvo accordo in sede protetta e a determinate condizioni in caso di mutamento di mansioni, a maggior ragione la retribuzione è irriducibile se neppure un mutamento di mansioni ricorra, comunque al di fuori della sede protetta;

15. in sostanza, l’accordo di riduzione della retribuzione in esame è nullo per mancato rispetto delle formalità, poste dalla legge a tutela dei diritti sostanziali del lavoratore dall’art. 2103 c.c., come chiarito dalla sentenza gravata; deve, quindi, in questa sede confermarsi il principio per cui la disciplina di cui all’art. 2103 c.c. (come modificato dall’art. 3  D.Lgs. n. 81/2015 ), secondo la quale possono essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni, del livello di inquadramento o della retribuzione nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità, o al miglioramento delle condizioni di vita nelle sedi di cui all’art. 2113  c.c., ricomprende tutte le ipotesi di accordo per la riduzione della retribuzione, anche senza mutamento di mansioni o di livello di inquadramento;

16. rimangono di conseguenza assorbite le questioni relative a calcolo e comparazione del TMCG nel caso concreto;

17. per ragioni parallele è infondato il secondo motivo di gravame;

18. quanto alla dedotta violazione dell’art. 2103 c.c., la Corte di merito ha esaminato in fatto l’accordo iniziale sull’uso

promiscuo dell’autovettura aziendale e ha censurato la variazione unilaterale di tale accordo;

19. infatti, il valore dell’uso e della disponibilità, anche a fini personali, di un’autovettura concessa contrattualmente dal datore di lavoro al lavoratore come beneficio in natura rappresenta il contenuto di un’obbligazione che, anche ove non ricollegabile ad una specifica prestazione, è suscettibile di essere considerata di natura retributiva, con tutte le relative conseguenze, se pattiziamente inserita nella struttura sinallagmatica del contratto di lavoro cui essa accede (v. Cass. n. 16129/2002 , n. 19616/2003, n. 20938/2024 ); l’uso promiscuo della vettura aziendale rappresenta comunque per il dipendente un significativo risparmio di spesa (acquisto, manutenzione, e simili), in questo senso del tutto assimilabile a retribuzione in natura, con specifico trattamento fiscale;

20. ne consegue che le modifiche peggiorative del relativo trattamento sono soggette alle regole di garanzia sopra richiamate; e, in questa sede, la normativa fiscale, che attiene al rapporto dell’azienda con l’Agenzia delle Entrate e non a quello tra azienda e lavoratore, non incide sulla regola generale di garanzia dell’irriducibilità della retribuzione, salve specifiche condizioni e procedure;

21. del resto, il mancato esame da parte del giudice del merito di elementi contrastanti con quelli posti a fondamento della decisione adottata, ovvero la mancata pronuncia su una istanza istruttoria, non integrano, di per sé, il vizio di omessa o insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, occorrendo che la risultanza processuale ovvero l’istanza istruttoria non esaminate attengano a circostanze che, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, avrebbero potuto condurre ad una decisione diversa da quella adottata (cfr. Cass. n. 1875/2006 e successive conformi);

22. il terzo e quarto motivo, da trattare congiuntamente per connessione, sono inammissibili;

23. il potere-dovere del giudice di inquadrare nell’esatta disciplina giuridica i fatti e gli atti che formano oggetto della contestazione incontra il limite del rispetto del petitum e della causa petendi, sostanziandosi nel divieto di introduzione di nuovi elementi di fatto nel tema controverso, sicché il vizio di “ultra” o “extra” petizione ricorre quando il giudice di merito, alterando gli elementi obiettivi dell’azione (petitum o causa petendi), emetta un provvedimento diverso da quello richiesto (petitum immediato), oppure attribuisca o neghi un bene della vita diverso da quello conteso (petitum mediato), così pronunciando oltre i limiti delle pretese o delle eccezioni fatte valere dai contraddittori (così Cass. n. 8048/2019 );

24. inoltre, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, ricorre il vizio di omessa o apparente motivazione della sentenza allorquando il giudice di merito ometta ivi di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero li indichi senza un’approfondita loro disamina logica e giuridica, rendendo, in tal modo, impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento (Cass. n. 9105/2017 ; conf. Cass, n. 20921/2019 ), restando il sindacato di legittimità sulla motivazione circoscritto alla sola verifica della violazione del cd. minimo costituzionale richiesto dall’art. 111 , sesto comma, Cost. (Cass. S.U. n. 8053/2014 , n. 23940/2017 , n. 16595/2019 );

25. nel caso di specie, la Corte di Milano ha esplicitato chiaramente e adeguatamente il percorso logico-argomentativo che l’ha portata a ritenere fondate le domande del dirigente dimessosi, per accertata giusta causa, e ne ha tratto le conseguenze di legge, nel perimetro delle domande azionate in giudizio;

26. il quinto motivo non è fondato;

27. l’attività di riempimento di contenuto, per così dire, della clausola generale di cui all’art. 2119 c.c. rientra nell’attività sussuntiva e valutativa del giudice di merito, avuto riguardo agli elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie; il sindacato di questa Corte in proposito non può essere sostitutivo di quello del giudice del merito nell’attività di riempimento di concetti giuridici indeterminati, ma è limitato alla valutazione di ragionevolezza; tale sindacato sulla ragionevolezza non è relativo alla motivazione del fatto storico, ma alla sussunzione dell’ipotesi specifica nella norma generale, quale sua concretizzazione;

28. nel caso in esame non ricorre il denunciato vizio di sussunzione per difformità dagli standard normativo-giuridici in materia, perché la Corte di merito, analizzata in fatto la vicenda, ha valutato, logicamente e nell’ambito del sindacato devolutole, che l’azzeramento del benefit dell’uso dell’autovettura aziendale, unitamente alla precedente riduzione della retribuzione, oggetto di diffida ad adempiere non riscontrata, integrassero il parametro della giusta causa di dimissioni del dirigente; rispetto a tale valutazione il motivo di ricorso si prospetta come mero dissenso motivazionale, considerato che anche la valutazione della tempestività della reazione attiene tipicamente al merito;

29. il sesto motivo, con cui si lamenta la mancata valutazione del fatto che il lavoratore fosse a conoscenza delle ragioni della diminuzione retributiva, non è ammissibile;

30. invero, la doglianza non si confronta con la ratio della sentenza gravata, che non ha omesso l’esame della circostanza della conoscenza, da parte del dirigente poi dimessosi, delle ragioni di crisi aziendale poste a fondamento della riduzione retributiva, ma ha ritenuto tale circostanza soggettiva ininfluente al fine di paralizzare la domanda di accertamento in concreto dell’illegittimità di tale riduzione (e quindi della giusta causa di dimissioni, unitamente all’azzeramento del benefit autovettura aziendale), riconducendo la sottoscrizione dell’accordo a metus, piuttosto che a condivisione della scelta aziendale;

31. il settimo motivo è inammissibile, in quanto sollecita un riesame nel merito di circostanze fattuali (fattura in atti);

32. l’ottavo motivo è inammissibile, perché la motivazione della statuizione contestata si basa su specifica norma contrattuale collettiva, e con tale argomentazione la censura non si confronta;

33. il ricorso deve pertanto essere respinto, con regolazione secondo il regime della soccombenza delle spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo;

34. al rigetto dell’impugnazione consegue il raddoppio del contributo unificato, ove spettante nella ricorrenza dei presupposti processuali;

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 7.000 per compensi, Euro 200 per esborsi, spese generali al 15%, accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13  comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002 , dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Riduzione della retribuzione e principio di irriducibilità
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