Il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno da stress anche nell’ipotesi in cui non si configuri il mobbing.
Nota a Trib. Rimini 5 agosto 2024, n. 203
Pamela Coti
Le condotte poste in essere dal datore di lavoro, pur non qualificandosi come mobbing e non accomunate dal medesimo fine persecutorio, possono essere considerate vessatorie e risultare lesive dei diritti fondamentali del lavoratore costituzionalmente tutelati, dando diritto al risarcimento del danno.
È quanto stabilito dal Tribunale di Rimini 5 agosto 2024, n. 203 in relazione al ricorso avanzato da un lavoratore finalizzato al pagamento delle differenze retributive e all’accertamento della responsabilità della datrice di lavoro per la sindrome depressiva causata dallo stress psico fisico derivante da situazioni conflittuali in ambiente lavorativo.
Al riguardo, il Giudice, dopo aver ricostruito il quadro giuridico e giurisprudenziale sulla questione, ha precisato che:
- il datore di lavoro non solo è contrattualmente obbligato a prestare una particolare protezione rivolta ad assicurare l’integrità psico-fisica del lavoratore, ex art. 2087 c.c., ma deve anche astenersi da iniziative, scelte o comportamenti, che possano ledere la personalità morale del lavoratore, come l’adozione di azioni stressogene, anche singole e isolate;
- “una situazione di costrittività ambientale è configurabile anche a prescindere dalla concreta individuazione di un mobbing” e, di conseguenza, “non è necessaria la presenza di un unificante comportamento vessatorio, ma è sufficiente l’adozione di comportamenti, anche colposi, che possano ledere la personalità del lavoratore, come l’adozione di condizioni di lavoro stressogene o non rispettose dei principi ergonomici”.
- nel rito del lavoro (al fine di conseguire rapidamente la pronuncia) è onere del convenuto specificare la contestazione dei conteggi elaborati dall’attore e tale onere opera anche quando il convenuto abbia contestato ab initio la sussistenza del credito, in relazione al principio. Ne discende che la mancata o generica contestazione, in primo grado, rende i conteggi accertati in via definitiva, vincolando in tal senso il giudice;
- l’utilizzo a fini difensivi di registrazioni di colloqui tra dipendenti e colleghi sul luogo di lavoro non necessita del consenso dei presenti; è pertanto legittima la condotta del lavoratore che abbia effettuato tali registrazioni per tutelare la propria posizione all’interno dell’azienda, costituendosi un mezzo di prova e rispondere alle necessità conseguenti al legittimo esercizio di un diritto (Cass. n. 11322/2018). Inoltre, la registrazione di una conversazione può costituire fonte di prova se la controparte non ne contesti la veridicità o la paternità attraverso il disconoscimento.