Costituisce ipotesi di falsa attestazione della presenza in servizio con modalità fraudolente non soltanto l’alterazione o la manomissione del sistema automatico di rilevazione delle presenze, ma anche la mancata registrazione delle uscite interruttive del servizio, senza che la tipizzazione della sanzione determini alcun automatismo espulsivo, rimanendo affidata al giudice di merito la verifica della proporzionalità e dell’adeguatezza del provvedimento disciplinare.
Nota a Cass. 17 ottobre 2024, n. 26938
Marco Mocella
In tema di pubblico impiego contrattualizzato, “il licenziamento disciplinare per falsa attestazione della presenza sul luogo di lavoro, concretizzatasi non già mediante materiale alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza, bensì “con altre modalità fraudolente” e cioè la mancata registrazione/timbratura dell’uscita dall’ufficio non autorizzata” è disciplinato dall’art. 55 quater, co. 1 bis, D.LGS. n. 165/2001 (introdotto con il D.LGS n. 116/2016), il quale stabilisce che “costituisce falsa attestazione della presenza in servizio qualunque modalità fraudolenta posta in essere, anche avvalendosi di terzi, per far risultare il dipendente in servizio o trarre in inganno l’amministrazione presso la quale il dipendente presta attività lavorativa circa il rispetto dell’orario di lavoro dello stesso” (Sul tema v. M. MOCELLA, I furbetti del cartellino: ma è sempre così? nota a App. Bologna 29 luglio 2015, n. 435, RIDL, 2016, II, 396).
Lo ribadisce la Corte di Cassazione 17 ottobre 2024, n. 26938 (v. anche Cass. n. 30418/2023, in q. sito con nota di S. GIOIA) in una fattispecie in cui il giudice di secondo grado, analizzando le diverse infrazioni contestate al lavoratore e la tipologia di accertamenti svolti in sede penale, ha affermato che: 1. non si era trattato di semplici pause caffè, come capitato ad altri colleghi dell’appellante (trattati con maggiore clemenza), ma di veri e propri allontanamenti dal luogo di lavoro per compiere delle commissioni extra lavorative; esigenze che avrebbero potuto essere soddisfatte chiedendo semplici permessi nel rispetto delle regole ampiamente garantiste dell’impiegato pubblico. Inoltre, in aggiunta alle volte in cui il lavoratore si assentava dal lavoro per più di 15 minuti senza timbratura in uscita, altrettante volte lo stesso era stato pedinato dagli agenti di polizia che avevano potuto constatare come tali uscite non erano avvenute per svolgere servizi esterni (come autocertificato dal lavoratore) ma “per recarsi presso familiari, a scuola dai figli o comunque svolgere altre attività extra lavorative”; 2. dalle ore imputate al lavoratore falsamente in servizio esterno e non effettuate, non si poteva detrarre la pausa pranzo, poiché la pausa pranzo, come il tempo di viaggio, rileva “se inserita nell’orario di lavoro regolarmente effettuato, fattispecie non verificatasi in questo caso”.
La Cassazione espone poi una serie di principi concernenti il licenziamento disciplinare nella fattispecie in questione:
a) “la condotta di rilievo disciplinare se, da un lato, non richiede un’attività materiale di alterazione o manomissione del sistema di rilevamento delle presenze in servizio, dall’altro, deve essere oggettivamente idonea ad indurre in errore il datore di lavoro, sicché anche l’allontanamento dall’ufficio, non accompagnato dalla necessaria timbratura, integra una modalità fraudolenta, diretta a rappresentare una situazione apparente diversa da quella reale” (v. Cass. n. 25750/2016 e Cass. n. 17367/2016);
b) l’art. 55 quater cit., per un verso, cristallizza dal punto di vista oggettivo la gravità della sanzione prevedendo ipotesi specifiche di condotte del lavoratore, dall’altro, consente di valutare se ricorrono elementi che assurgono a scriminante della condotta e dunque la verifica, caso per caso, della sussistenza dell’elemento intenzionale o colposo. Ciò in quanto, ferma restando la tipizzazione della sanzione disciplinare (ossia il licenziamento) una volta provata la condotta, è necessario valutare, con giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione, la gravità dell’inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto e a tutte le circostanze del caso (v. Cass. n.14199/2021, in q. sito con nota di F. DURVAL);
c) con riguardo al licenziamento per giusta causa, “ai fini della valutazione di proporzionalità è insufficiente un’indagine che si limiti a verificare se il fatto addebitato è riconducibile alle disposizioni della contrattazione collettiva che consentono l’irrogazione del licenziamento, è sempre necessario valutare in concreto se il comportamento tenuto, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la prosecuzione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, con particolare attenzione alla condotta del lavoratore che denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti e a conformarsi ai canoni di buona fede e correttezza” (v. Cass. n. 13411/2020, in q. sito con nota di P. PIZZUTI);
d) in caso di “contrasto tra legge e contrattazione collettiva prevale – in quanto imperativa – la disciplina legale, anche se meno favorevole al lavoratore”;
e) ai fini della decorrenza del termine perentorio previsto per la conclusione del procedimento disciplinare dall’acquisizione della notizia dell’infrazione (ex art. 55 bis, co. 4, D.LGS. n. 165/ 2001), in conformità con il principio del giusto procedimento (v. Corte Cost. n. 310/2010) “assume rilievo esclusivamente il momento in cui tale acquisizione, da parte dell’ufficio competente regolarmente investito del procedimento, riguardi una ‘notizia di infrazione’ di contenuto tale da consentire allo stesso di dare, in modo corretto, l’avvio al procedimento disciplinare, nelle sue tre fasi fondamentali della contestazione dell’addebito, dell’istruttoria e dell’adozione della sanzione; con la precisazione che ciò vale anche nell’ipotesi in cui il procedimento predetto abbia ad oggetto, in tutto o in parte, fatti sui quali è in corso un procedimento penale, per cui sarebbe ammessa la sospensione del primo, e che, comunque, ai fini disciplinari, vanno valutati in modo autonomo e possono portare anche al licenziamento del dipendente” (in questo senso, Cass. n. 14896/2024);
f) la contestazione dell’addebito, in quanto finalizzata a consentire al lavoratore incolpato l’immediata difesa, deve “rivestire il carattere della specificità, senza l’osservanza di schemi prestabiliti e rigidi, purché siano fornite al lavoratore le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti addebitati. Ne consegue la piena ammissibilità della contestazione “per relationem“, mediante il richiamo agli atti del procedimento penale instaurato a carico del lavoratore, per fatti e comportamenti rilevanti anche ai fini disciplinari, ove le accuse formulate in sede penale siano a conoscenza dell’interessato…” (v. Cass. nn. 29240/2017 e 10662/2014).
Sentenza
CORTE DI CASSAZIONE 17 ottobre 2024, n. 26938
Lavoro – Licenziamento senza preavviso – Assenteismo – Istruttore direttivo tecnico professionale – Videocamere e pedinamenti – Lettera di contestazione – Falsa attestazione della presenza in servizio – Alterazione del sistema automatico – Mancata timbratura uscita dall’ufficio – Rigetto
Svolgimento del processo
1.Il ricorrente ricorre per cassazione, nei confronti della Regione Toscana, avverso la sentenza con cui la Corte d’Appello di Genova ha rigettato l’appello proposto in relazione alla decisione del Tribunale di Massa che ha rigettato l’impugnazione del licenziamento senza preavviso, irrogatogli il 9 gennaio 2019, a seguito di procedimento disciplinare, nel quale gli è stata contestata la violazione dell’art. 55-quater, del d.lgs. n. 165 del 2001 lett. a) e f) -bis, nonché dell’art. 23, comma 3, lett. e), del CCCNL Enti locali del 6/7/1995, come succ. mod.
La Procura della Repubblica di Massa aveva avviato indagini su alcuni episodi di assenteismo del personale del Genio civile di Carrara, ove il lavoratore prestava servizio come Istruttore direttivo tecnico professionale. con inquadramento nel livello D.
Il lavoratore, a seguito di controlli mediante videocamere e pedinamenti è stato sottoposto in data 6 settembre 2018 alla misura cautelare degli arresti domiciliari con ordinanza GIP, che una volta comunicata all’Amministrazione datrice di lavoro, con nota informativa del 10 settembre 2018, ha dato l’impulso per avviare il procedimento disciplinare mediante lettera di contestazione dell’11 settembre 2018.
2. Dunque, il licenziamento è stato contestato dal lavoratore e con sentenza n. 68 del 2020, il Tribunale di Massa ha rigettato il ricorso.
Con sentenza n. 99 del 7 aprile 2021 la Corte di Appello di Genova ha respinto l’appello, confermando la sentenza impugnata.
La sentenza di secondo grado ha statuito, in sintesi: la insussistenza dei vizi della tardività e della genericità della contestazione degli addebiti disciplinari; la sussumibilità della fattispecie concreta nell’alveo del disposto dell’art. 55 quater, comma 1 lett. a) del d.lgs. 165 del 2001; la mancanza di scriminanti delle condotte illecite tenute dal lavoratore.
3. Il lavoratore ha proposto otto motivi di ricorso per cassazione.
4. Resiste con controricorso, assistito da memoria, l’Amministrazione regionale.
5. Il Procuratore Generale ha depositato requisitoria scritta con cui ha concluso per il rigetto del ricorso, come confermato in udienza pubblica.
Ragioni della decisione
1.Con il primo motivo di ricorso è prospettata, ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., la violazione dell’art. 55-bis del d.lgs. n. 165 del 2001, sotto il profilo della tardività della contestazione disciplinare.
Deduce il ricorrente che l’Amministrazione non ha fornito la prova di aver avuto piena conoscenza dei fatti solo con la comunicazione del 10 settembre 2028, atteso che aveva avuto, in precedenza, conoscenza delle indagini penali, e non aveva provveduto a svolgere alcuna indagine interna.
Il motivo è inammissibile. Come questa Corte ha già avuto modo di affermare (Cass., n. 14896 del 2024), in tema di pubblico impiego contrattualizzato, ai fini della decorrenza del termine perentorio previsto per la conclusione del procedimento disciplinare dall’acquisizione della notizia dell’infrazione (ex art. 55- bis, comma 4, del d.lgs. n. 165 del 2001), in conformità con il principio del giusto procedimento, come inteso dalla Corte costituzionale (sentenza n. 310 del 2010), assume rilievo esclusivamente il momento in cui tale acquisizione, da parte dell’ufficio competente regolarmente investito del procedimento, riguardi una “notizia di infrazione” di contenuto tale da consentire allo stesso di dare, in modo corretto, l’avvio al procedimento disciplinare, nelle sue tre fasi fondamentali della contestazione dell’addebito, dell’istruttoria e dell’adozione della sanzione; con la precisazione che ciò vale anche nell’ipotesi in cui il procedimento predetto abbia ad oggetto, in tutto o in parte, fatti sui quali è in corso un procedimento penale, per cui sarebbe ammessa la sospensione del primo, e che, comunque, ai fini disciplinari, vanno valutati in modo autonomo e possono portare anche al licenziamento del dipendente.
Tanto premesso, evidenziato, quindi, che il termine a quo decorre dall’acquisizione della “notizia di infrazione” nei termini innanzi indicati, va verificato il rispetto di detto principio nel caso in esame.
Nella specie, la Corte d’Appello ha fatto corretta applicazione del suddetto principio, atteso che la Procura aveva provveduto autonomamente a fare i controlli sugli spostamenti dei dipendenti, e la richiesta del giugno 2017 da parte dell’A.G., se avesse messo l’Amministrazione in condizioni di sapere che erano in corso indagini penali su tutti i dipendenti dell’Ufficio, non sarebbe stata idonea a consentire la formulazione di precise contestazioni, non conoscendosi l’esito delle attività di controllo poste in essere.
Le indagini di P.G. si sono svolte funzionalmente in forma riservata, e gli esiti delle stesse, come ha accertato la Corte d’Appello, sono stati resi noti alla Regione a seguito della ricezione della PEC del 10 settembre 2018, in conseguenza della quale veniva dato avvio al procedimento disciplinare.
Pertanto, correttamente la Corte d’Appello ha affermato che sino alla comunicazione del settembre 2018 i dirigenti regionali non avevano ancora elementi precisi per potere inviare una relazione circostanziata a fini disciplinari.
2. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta, ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., la violazione dell’art. 55-bis del d.lgs. n. 165 del 2001, sotto i profili della genericità della contestazione disciplinare.
Prospetta il ricorrente che la contestazione disciplinare, in cui vi era l’elenco di date e orari, rinviava per relationem alla sintetica notadella Procura della Repubblica e non conteneva alcun elemento che potesse far desumere la fraudolenta condotta del ricorrente e l’intento ingannatorio e doloso con danno all’Amministrazione.
2.1. Il motivo è inammissibile.
Va premesso che questa Corte ha già avuto modo di affermare che “la contestazione dell’addebito ha lo scopo di consentire al lavoratore incolpato l’immediata difesa e deve, conseguentemente, rivestire il carattere della specificità, senza l’osservanza di schemi prestabiliti e rigidi, purché siano fornite al lavoratore le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti addebitati.
Ne consegue la piena ammissibilità della contestazione “per relationem”, mediante il richiamo agli atti del procedimento penale instaurato a carico del lavoratore, per fatti e comportamenti rilevanti anche ai fini disciplinari, ove le accuse formulate in sede penale siano a conoscenza dell’interessato – nella specie non è dedotta la mancata conoscenza- risultando rispettati, anche in tale ipotesi, i principi di correttezza e garanzia del contraddittorio (cfr. Cass., n. 10662 del 2014, n. 29240 del 2017, peraltro richiamate nella sentenza di appello).
La Corte d’Appello, con accertamento di fatto rimesso al giudice di merito, ha rilevato che la nota della Procura della Repubblica, materialmente allegata alla lettera, conteneva la specifica indicazione dei capi di imputazione e cioè 52 episodi commessi dal lavoratore nel periodo temporaneo di un anno dal 1° giugno 2016 al 31 maggio 2017, in cui lo stesso si era sistematicamente allontanato dall’Ufficio senza timbrare il cartellino in uscita, oltre a due episodi in cui aveva utilizzato la vettura di servizio per motivi personali.
Tali ultimi due episodi non risultano aver costituito oggetto della contestazione disciplinare per cui è causa.
Di talché la censura, pur rubricata come violazione di legge, tende ad una revisione dell’accertamento in fatto, riservato al giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità se sorretto da argomentata motivazione, come nella specie.
3. Con il terzo motivo di ricorso è dedotta la violazione dell’art. 55-quater, comma 1, del d.lgs. 165 del 2001, con riferimento all’applicabilità del c.d. procedimento accelerato di cui al citato art. 55-quater, comma 3-bis, atteso che nella specie sarebbe mancata nella fattispecie concreta l’accertamento “in flagranza” o “mediante strumenti di sorveglianza o di registrazione degli accessi o delle presenze”.
Inoltre, l’infrazione non era stata rilevata con sistemi di rilevazione automatica degli accessi e delle presenze installati dal datore di lavoro.
Diversa procedura era stata seguita per altro lavoratore in relazione ad analoghe infrazioni.
3.1. Il motivo non è fondato.
Nella specie viene in rilievo il licenziamento disciplinare per falsa attestazione della presenza sul luogo di lavoro, concretizzatasi non già mediante materiale alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza, bensì “con altre modalità fraudolente” e cioè la mancata registrazione/timbratura dell’uscita dall’ufficio, non autorizzata.
Questa Corte, nell’interpretare il d.lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, lett. a), ha affermato che la condotta di rilievo disciplinare se, da un lato, non richiede un’attività materiale di alterazione o manomissione del sistema di rilevamento delle presenze in servizio, dall’altro deve essere oggettivamente idonea ad indurre in errore il datore di lavoro, sicché anche l’allontanamento dall’ufficio, non accompagnato dalla necessaria timbratura, integra una modalità fraudolenta, diretta a rappresentare una situazione apparente diversa da quella reale (Cass. n. 17367 del 2016 e Cass. n. 25750 del 2016).
Il comma 1 bis dell’art. 55 quater – introdotto con il decreto n. 116 del 2016, stabilisce che “costituisce falsa attestazione della presenza in servizio qualunque modalità fraudolenta posta in essere, anche avvalendosi di terzi, per far risultare il dipendente in servizio o trarre in inganno l’amministrazione presso la quale il dipendente presta attività lavorativa circa il rispetto dell’orario di lavoro dello stesso”.
La giurisprudenza di legittimità ha già avuto modo di affermare (Cass. n. 17600 del 2021) che il legislatore del 2009, con il d.lgs. n. 165 del 2001, art. 55-quater, fermi gli istituti più generali del licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo, ha introdotto e tipizzato alcune ipotesi di infrazione particolarmente gravi e, come tali, ritenute idonee a fondare un licenziamento.
La disposizione ha, dunque, introdotto una tipizzazione di illecito disciplinare da sanzionare con il licenziamento.
In particolare, questa Corte ha affermato che (Cass. n. 22075 del 2018) l’introduzione del d.lgs. n. 165 del 2001, art. 55-quater, comma 1-bis (avvenuta con il d.lgs. n. 116 del 2016) non ha portata innovativa, ma vale come interpretazione chiarificatrice del concetto di “falsa attestazione di presenza”.
È falsa attestazione (prima e dopo la riforma) non solo la alterazione/manomissione del sistema automatico di rilevazione delle presenze, ma anche il non registrare le uscite interruttive del servizio.
Nell’eventuale contrasto tra legge e contrattazione collettiva prevale – in quanto imperativa – la disciplina legale, anche se meno favorevole al lavoratore.
A fronte di una fattispecie legale, si pone, quindi, il problema di verificare i principi che il giudice deve applicare nel valutare la legittimità della sanzione irrogata dall’Amministrazione, una volta accertato che il lavoratore abbia commesso una delle mancanze previste dalla norma, e pertanto se il licenziamento sia una conseguenza automatica e necessaria, ovvero se l’Amministrazione conservi il potere-dovere di valutare l’effettiva portata dell’illecito tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto e, quindi, di graduare la sanzione da irrogare, potendo ricorrere a quella espulsiva solamente nell’ipotesi in cui il fatto presenti i caratteri propri del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa di licenziamento.
Sul punto si è affermato (Cass., n. 18326 del 2016), con statuizione alla quale si intende dare continuità, che la norma cristallizza, dal punto di vista oggettivo, la gravità della sanzione prevedendo ipotesi specifiche di condotte del lavoratore, mentre consente la verifica, caso per caso, della sussistenza dell’elemento intenzionale o colposo, ossia la valutazione se ricorrono elementi che assurgono a scriminante della condotta.
Ferma la tipizzazione della sanzione disciplinare (licenziamento) una volta che risulti provata la condotta, permane la necessità della verifica del giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione che si sostanzia nella valutazione della gravità dell’inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto e a tutte le circostanze del caso.
La disposizione normativa è stata, dunque, interpretata (si v., Cass., n. 14199 del 2021) alla luce dello sfavore manifestato dalla giurisprudenza costituzionale rispetto agli automatismi espulsivi e, pertanto, si è valorizzato il richiamo testuale all’art. 2106, cod. civ., per limitare l’imperatività assoluta espressa dalla norma al rapporto fra legge e contratto collettivo e per affermare che l’esercizio del potere datoriale resta comunque sindacabile da parte del giudice quanto alla necessaria proporzionalità della sanzione espulsiva (nella citata sentenza si rimanda alla giurisprudenza richiamata da Corte cost. n. 123 del 2020 che, ponendo l’accento su questa interpretazione costituzionalmente orientata, ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 55 quater, prospettata dal Tribunale di Vibo Valentia).
Dunque, costituisce ipotesi di falsa attestazione della presenza in servizio con modalità fraudolente non soltanto l’alterazione o la manomissione del sistema automatico di rilevazione delle presenze, ma anche la mancata registrazione delle uscite interruttive del servizio, senza che la tipizzazione della sanzione determini alcun automatismo espulsivo, rimanendo affidata al giudice di merito la verifica della proporzionalità e dell’adeguatezza del provvedimento disciplinare (Cass., n. 30418 del 2023).
Ai suddetti principi di diritto, si è data corretta attuazione da parte della Corte territoriale che, nel ritenere integrata la fattispecie legale con riguardo alla specifica vicenda del lavoratore, di talché è priva di rilevanza il profilo di censura che richiama vicende altrui, ha rilevato che la contestazione riguardava 36 episodi in cui il lavoratore si era allontanato dall’Ufficio senza timbrare il cartellino, o registrare comunque l’interruzione del servizio, per poi farvi ritorno dopo un certo lasso di tempo, in molte occasioni superiore al limite di tolleranza di 15 minuti dedotto dal lavoratore, e 16 episodi in cui aveva sottoscritto una falsa dichiarazione relativa a servizi esterni che avrebbe dovuto svolgere mentre dalle indagini era risultato che aveva fatto tutt’altro.
.
4. Con il quarto motivo di ricorso è denunciato il vizio di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, art. 360, n. 5, cpc, in relazione alle cd. pause brevi e ai cd. servizi esterni.
La sentenza di appello è censurata in relazione alla sentenza di primo grado, con riguardo alla valutazione della consapevolezza di un sistema di rilevamento delle pause o delle missioni.
4.1. Il motivo è inammissibile. In ragione dell’effetto devolutivo dell’appello, la decisione del giudice di secondo grado non può essere censurata facendo riferimento alle statuizioni del giudice di primo grado.
5. Con il quinto motivo di ricorso è dedotta la violazione dell’art. 115, c.p.c., e dell’art. 2697, cc, con riguardo alla prova dei fatti costitutivi dell’incolpazione.
Prospetta il lavoratore che il Giudice di seconde cure avrebbe emesso la propria pronuncia in assenza di qualsivoglia prova dei fatti costitutivi dell’illecito disciplinare che aveva comportato il licenziamento senza preavviso.
5.1. Il motivo è inammissibile in quanto non considera la ratio decidendi della sentenza di appello.
Va osservato che (Cass., n. 26769 del 2018) in tema di ricorso per cassazione, la violazione dell’art. 2697, cc, si configura soltanto nell’ipotesi in cui si prospetti che il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella su cui esso avrebbe dovuto gravare secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni, mentre nella specie, le doglianze della ricorrente vertono sulla valutazione dei risultati probatori e sull’accertamento di fatto svolto dal giudice di appello.
Nella specie la questione del riparto dell’onere della prova non ha costituito oggetto di statuizione da parte della Corte d’Appello, né è stata dedotta, riportando la relativa censura, la introduzione del tema con il ricorso introduttivo del giudizio e in appello, in relazione alla sentenza di primo grado.
Neppure il ricorrente, pur invocando l’art.115, cpc, denunzia che il giudice, contraddicendo espressamente o implicitamente la regola posta da tale disposizione, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (Cass., n. 26769 del 2018), ciò anche considerando che nel valutare le prove proposte dalle parti, è consentito al giudice di merito attribuire maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dall’art. 116, cpc.
6. Con il sesto motivo di ricorso è denunciato il vizio di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, art. 360, n. 5, cpc, in relazione alle cd. pause brevi e ai cd. servizi esterni.
Il ricorrente ribadisce la violazione degli artt. 115, cpc, e 2697, cc, deducendo che la fattispecie disciplinare avrebbe dovuto dar luogo a una sanzione conservativa, attesa la prassi delle uscite brevi “pausa caffè”.
6.1. Il motivo è inammissibile.
L’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv. in l. n. 134 del 2012, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia); pertanto, l’omesso esame di elementi istruttori, non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass., n. 17005 del 2024), né rientra nel paradigma del vizio la valutazione delle risultanze probatorie.
Va inoltre considerato che in tema licenziamento disciplinare del pubblico dipendente, venuta meno la cd. pregiudiziale penale e regolato per legge il possibile conflitto tra gli esiti dei procedimenti giusta l’art. 55-ter del d.lgs. n. 165 del 2001, l’Amministrazione è libera di valutare autonomamente gli atti del procedimento penale, ai fini della contestazione, senza necessità di una ulteriore ed autonoma istruttoria, e di avvalersi dei medesimi atti, in sede d’impugnativa giudiziale, per dimostrare la fondatezza degli addebiti (Cass., n. 5284 del 2017).
7. Con il settimo motivo di ricorso e dedotto ai sensi dell’art. 360, n.3, cpc la violazione dell’art. 1362, cc, con riferimento all’applicabilità della fattispecie di cui all’art. 23, lettera e), del CCNL di Comparto.
Il ricorrente, ribadendo che nella specie non è configurabile l’illecito disciplinare di cui all’art. 55-quater, comma 1, lett. a), per difetto degli elementi del dolo e del carattere fraudolento delle missioni e dei servizi esterni, assume che si è trattato di mere sviste o errori di rendicontazione in ragione del complesso sistema delle missioni, e della non univocità del rilevamento delle celle telefoniche.
Si tratta di un tema non specificamente esaminato dalla Corte territoriale che peraltro ha precisato la timbratura non era richiesta in ragione del sistema on line di autorizzatorio delle missioni. Il ricorrente, contesta inoltre il calcolo orario quanto alla pausa pranzo e delle ore di viaggio, da escludere dal debito orario.
Il motivo è inammissibile in quanto si sostanzia nella richiesta di un riesame della valutazione delle risultanze istruttorie, effettuata e motivata dalla Corte d’Appello con coerenza logico-giuridica.
Il giudice di secondo grado (si v., in particolare pagg. 12-18 della sentenza di appello) ha analizzato le risultanze probatorie in modo specifico, con riguardo alle diverse infrazioni contestate e alla tipologia di accertamenti svolti in sede penale, e ha affermato che nella specie: “non si è trattato di semplici pause caffè, come può essere capitato ad altri colleghi dell’odierno appellante che sono stati trattati con maggiore clemenza, ma di veri e propri allontanamenti per compiere delle commissioni extra lavorative; esigenze che avrebbero potuto essere soddisfatte chiedendo semplici permessi nel rispetto delle regole ampiamente garantiste dell’impiegato pubblico.
Non solo, ed è questo che l’aspetto dirimente della controversia , oltre alla volte in cui il lavoratore si assentava dal lavoro per più di 15 minuti senza timbratura in uscita, assumono particolare rilievo le altrettante volte in cui lo stesso è stato pedinato dagli agenti di polizia che hanno potuto constatare come tali uscite non avvennero per svolgere servizi esterni (come autocertificato dal lavoratore) ma per recarsi presso familiari, a scuola dai figli o comunque svolgere altre attività extra lavorative.
Trattasi di tutti quegli episodi individuati dalla Regione Toscana nel proprio atto difensivo di appello che non sono stati contestati dal lavoratore …
La gravità di questi fatti è incontestabile: trattasi di comportamenti che non possono essere tollerati e devono essere sanzionati con la massima sanzione espulsiva”.
Dunque, costituisce punto centrale della statuizione di appello l’accertamento, peraltro intervenuto de visu a seguito di pedinamento (si v., pag. 13 della sentenza di appello), dello svolgimento invece che dei servizi esterni, come autocertificato, di attività extra lavorative.
Con riguardo al calcolo complessivo del debito orario, la Corte d’Appello correttamente ha escluso che dalle ore imputate dal lavoratore falsamente a servizio esterno e non effettuate, si potesse detrarre la pausa pranzo, e cioè perché la pausa pranzo, ma lo stesso si può dire per il tempo di viaggio, rileva se inserita nell’orario di lavoro regolarmente effettuato, fattispecie non verificatasi in questo caso.
Infine va considerato che la censura relativa all’inadeguatezza dei rilevamenti tramite telefono è del tutto generica.
8. Con l’ottavo motivo di ricorso, il ricorrente lamenta, deducendo il vizio di omesso esame di un fatto decisivo, ex art. 360, n. 5, cpc, la mancata applicazione del principio di proporzionalità della sanzione espulsiva, facendo riferimento a vicende analoghe che avevano interessato altri lavoratori e richiamando le cd. pause caffè che avrebbero essere dovuto detratte dal debito orario.
8.1. Il motivo è inammissibile in quanto si pone al di fuori dell’ambito del vizio di omesso esame, ai sensi dell’art. 360, n. 5, come già sopra richiamato.
Va inoltre osservato che in tema di licenziamento per giusta causa, ai fini della valutazione di proporzionalità è insufficiente un’indagine che si limiti a verificare se il fatto addebitato è riconducibile alle disposizioni della contrattazione collettiva che consentono l’irrogazione del licenziamento, essendo sempre necessario valutare in concreto se il comportamento tenuto, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la prosecuzione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, con particolare attenzione alla condotta del lavoratore che denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti e a conformarsi ai canoni di buona fede e correttezza (Cass., n. 13411 del 2020).
Nella specie, la Corte d’Appello ha effettuato tale valutazione di proporzionalità e all’esito dell’ accertamento di fatto, convenendo su analoga indicazione della Corte dei conti, ha affermato in particolare che la confusione nel sistema di rilevazione delle uscite dal lavoro anche per missioni esterne e l’assenza di controllo delle presenze, lungi dal poter essere interpretati come indizi di tolleranza dell’amministrazione al contrario hanno reso le infrazioni commesse più deplorevoli essendosi il personale approfittato di una simile situazione per infrangere le regole di fedeltà e correttezza nello svolgimento dell’attività lavorativa da parte del dipendente pubblico.
9. Il ricorso deve essere rigettato.
10. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in euro 5.000,00 per compensi professionali, euro 200,00 per esborsi, spese generali in misura del 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13, se dovuto.