Respinto il ricorso di un avvocato volto ad ottenere il riconoscimento del carattere subordinato del proprio rapporto di lavoro. La Cassazione ha confermato la natura autonoma dell’attività professionale svolta dal medesimo sul presupposto che il ricorrente aveva svolto la propria attività in maniera libera e indipendente, pur in presenza: a) di regole necessarie al coordinamento con l’attività dello studio (composto da numerosi avvocati tutti peraltro tenuti a osservare le medesime regole) e non eccedenti tale coordinamento; b) di un obbligo di esclusiva; c) di un compenso fisso, ma con partecipazione ai ricavi dello Studio; d) dell’utilizzo del badge e compilazione del time sheet; e) della prefigurazione del periodo feriale.
Nota a Cass. 4 novembre 2024, n. 28274
Raffaele Fabozzi
La Corte di Cassazione (4 novembre 2024, n. 28274) ha ribadito i principi affermati dalla Corte territoriale in merito al ricorso di una professionista legale che, avendo collaborato per un lungo periodo con un studio associato, aveva chiesto in giudizio il riconoscimento della natura subordinata della sua prestazione. I giudici di merito avevano verificato che l’organizzazione in cui la ricorrente era inserita si limitava al suo coordinamento con l’attività dello studio, senza eccedere tale ambito e dunque senza conformarsi direttamente e continuativamente all’interesse dello studio stesso. Nello specifico, la Cassazione ha rilevato quanto segue.
Mancanza di eterodirezione. Nella fattispecie si trattava di un importante studio professionale multidisciplinare con un regolamento associativo ed un sistema di gestione per la sicurezza delle informazioni e di apertura delle pratiche rispondenti essenzialmente all’esigenza di coordinamento dell’attività di tutti i numerosi professionisti coinvolti. Gli incarichi di difesa e assistenza legale erano acquisiti dallo studio e da questo distribuiti ai singoli professionisti che prestavano in via esclusiva la loro opera per lo studio intrattenendo i rapporti contrattuali con i clienti ed emettendo le fatture nei confronti degli stessi. I professionisti avevano un obbligo di esclusiva, cioè non potevano gestire una propria clientela collaterale a quella dello studio, pur potendo proporre nuovi clienti. Anzi, lo sviluppo della clientela era incoraggiato e incentivato poiché il professionista partecipava ai ricavi provenienti dalle relative pratiche. Lo studio rappresentava insomma “un sistema organizzato all’interno del quale il singolo avvocato decide di prestare la propria attività professionale, accettando alcune limitazioni in cambio di altrettante agevolazioni e prerogative”; sistema le cui regole seppur decise unilateralmente dagli organi dello Studio associato rispondevano alle esigenze di coordinamento dell’attività dei professionisti vincolati alla sua osservanza.
Il lavoratore ricorrente era pertanto inserito in un’organizzazione che, dal un punto di vista funzionale, non poteva prefigurarsi come un sistema di comando imposto ai professionisti non soci, “bensì un insieme organico di regole (per la gestione delle pratiche, per l’utilizzo degli strumenti informatici, per la sicurezza delle informazioni) destinate a fissare alcuni limiti e a tracciare alcune procedure al fine di gestire la complessità connessa al numero di professionisti e alla tipologia di clientela. In tale contesto, l’obbligo di esclusiva trovava una plausibile spiegazione, all’interno della cornice del coordinamento, nello scopo di evitare conflitti di interesse che potevano sorgere solo se ciascuno dei professionisti avesse potuto gestire, in modo parallelo, una propria clientela, tenuto anche conto dell’ambito di copertura dei rischi in base alla polizza professionale sottoscritta dallo studio.
Assenza di un impegno temporale prefissato. Per quanto concerne l’impegno temporale, la Corte territoriale ha escluso che le tempistiche indicate nelle e-mail fossero espressione di un potere conformativo dello studio sulla prestazione professionale dell’avvocato ricorrente. Secondo i giudici, infatti, tali tempistiche rispondevano alla necessità, insita nell’attività forense, di rispettare i termini processuali e le cadenze temporali imposte dalle scelte e dalle richieste dei clienti.
Controllo delle presenze tramite badge e compilazione del time sheet. Quanto al badge, la Corte ha accertato, in linea con il Tribunale, che “il badge aveva la sola funzione di chiave di accesso ai locali dello studio e che la compilazione dei time sheet, richiesta a tutti i professionisti dello studio, soci compresi, rispondeva a mere esigenze di natura contabile e non nascondeva alcuna forma di controllo sui tempi dell’attività svolta”. Al contrario la compilazione dei time sheet costituiva un indice del carattere autonomo della prestazione sul rilievo che le ore di impegno erano indicate dal professionista medesimo, senza che tale compilazione fosse soggetta ad alcun controllo o verifica di merito, da parte di terzi dello studio. Il che dimostrava la mancanza di un orario di lavoro da rispettare.
Carenza di periodi feriali condizionati ad un’autorizzazione. Per quanto riguarda le ferie, i giudici di appello hanno appurato che la norma del regolamento in materia di periodo feriale non prevedeva alcuna autorizzazione del piano ferie. Tale piano era predisposto in base alle indicazioni fornite dai singoli professionisti e finalizzato soltanto a consentire a tutti di sapere chi fosse presente in studio e chi no in una certa data.
Compenso fisso e partecipazione ai ricavi dello studio. Anche la previsione di un compenso fisso mensile è stata giudicata inidonea ad incidere sull’inquadramento tipologico della fattispecie come lavoro subordinato. Ciò, sia per il rilievo pacificamente sussidiario di tale elemento sia per l’accertamento della partecipazione degli avvocati dello studio e, quindi, anche della ricorrente, “a quanto ricavato dalle pratiche relative ai clienti da ciascuno procurati, aspetto quest’ultimo proprio dell’esercizio della libera professione”.
In sintesi dunque l’accertamento compiuto dai giudici di merito ha escluso la natura subordinata del rapporto di lavoro dell’avvocato ricorrente basandosi sia sulla organizzazione e sulle modalità di espletamento della prestazione, che non contemplavano un potere conformativo unilaterale dello studio, sia sul contenuto prettamente professionale dell’attività svolta nonché sullo “spazio per il libero esercizio della professione, non solo nei suoi contenuti tecnici ma anche nelle sue modalità temporali e gestionali, spazio risultato non intaccato e non etero-diretto dallo studio”.
Sentenza
CORTE DI CASSAZIONE 4 novembre 2024 n. 28274
Svolgimento del processo
1.La Corte d’appello di Milano ha respinto il reclamo di A.A., confermando la sentenza di primo grado che, al pari dell’ordinanza emessa all’esito della fase sommaria, aveva rigettato le domande proposte dalla A.A. nei confronti dello Studio D.D. – Avvocati Associati e volte ad ottenere il riconoscimento della natura subordinata del rapporto intercorso con lo Studio legale, ai sensi dell’articolo 2094 cod. civ. o, comunque, l’applicazione della disciplina del lavoro subordinato ai sensi degli artt. 61 e 69 del D.Lgs. 276 del 2003 o dell’art. 2 del D.Lgs. 81 del 2015 ; la declaratoria di nullità del licenziamento intimato il 30.9.2020, con ordine di reintegra e con le altre conseguenze di legge; la condanna al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale per violazione dell’art. 2087 cod. civ. e la condanna al pagamento dei danni punitivi per discriminazione per genere ed età nonché, in caso di mancato riconoscimento della natura subordinata, i danni derivanti dall’abuso di posizione dominante consistito nell’ingiustificata interruzione del rapporto professionale in regime di monocommittenza, senza concessione di un congruo preavviso.
2. All’esito dell’istruttoria, La Corte d’appello ha concluso, in conformità al Tribunale, per la sussistenza di un genuino rapporto di lavoro autonomo nell’ambito di prestazioni a contenuto professionale.
3. L’esclusione della natura subordinata del rapporto in esame ha reso irrilevante, secondo i giudici di appello, la questione di legittimità costituzionale, prospettata dalla difesa dell’avvocata A.A., dell’articolo 3 , R.D.L. 1578 del 1933 e dell’articolo 18 , comma 1, lett. d), della legge 31 dicembre 2012 n. 247 , questione che la sentenza impugnata ha, comunque, giudicato priva del requisito della non manifesta infondatezza. Parimenti irrilevante è stata dichiarata la questione di legittimità costituzionale degli articoli 61 , comma 1, e 69, comma 1, del decreto legislativo 276 del 2003 e dell’articolo 2 , del decreto legislativo 81 del 2015 , nella parte in cui escludono dal loro ambito di applicazione rispettivamente “le professioni intellettuali per l’esercizio delle quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi professionali” e “le collaborazioni prestate nell’esercizio di professioni intellettuali per le quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi”, per la inidoneità della questione a consentire il risultato auspicato, a causa della permanente incompatibilità dell’esercizio della professione forense in regime di subordinazione, secondo il disposto della legge professionale. È risultato, di conseguenza, superfluo ogni accertamento sulla riconducibilità del rapporto in oggetto alle fattispecie di collaborazione coordinata e continuativa, di cui all’art. 409 , n. 3, cod. proc. civ. e agli artt. 61 e ss. D.Lgs. 276 del 2003 , e di etero – organizzazione di cui all’articolo 2 , del D.Lgs. 81 del 2015 . La Corte territoriale ha, infine, confermato la statuizione di primo grado in ordine alla inammissibilità in rito delle domande di risarcimento dei danni in quanto non strettamente correlate alla vicenda estintiva del rapporto bensì al suo complessivo svolgimento negli anni e, come tali esorbitanti dal perimetro di applicazione del rito cd. Fornero.
4. Avverso tale sentenza A.A. ha proposto ricorso per cassazione con quattro motivi. D.D. – AVVOCATI ASSOCIATI ha resistito con controricorso. Il Sostituto Procuratore Generale ha depositato conclusioni scritte chiedendo il rigetto del ricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Motivi della decisione
5. Con il primo motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell’art. 360 , comma 1, n. 3 cod. proc. civ., violazione o falsa applicazione dell’art. 2904 cod. civ. Si assume che la Corte d’appello, disattendendo l’orientamento giurisprudenziale che ravvisa l’indice decisivo della subordinazione attenuata nello stabile ed organico inserimento della prestazione nell’organizzazione produttiva unilateralmente decisa dal committente, sia giunta a negare la natura subordinata del rapporto di lavoro sulla base di due elementi, non solo superficialmente analizzati ma niente affatto decisivi e cioè: a) la mancata soggezione della ricorrente ad un incisivo potere di conformazione esercitato dal socio di riferimento dello Studio con riguardo al merito-contenutistico delle sue prestazioni come avvocato; b) la sussistenza di ambiti di auto-organizzazione dell’orario individuale di lavoro e delle assenze per ferie-vacanze. La Corte d’appello avrebbe, invece, svalutato il dato dirimente costituito dal radicato e profondo inserimento organico dell’attività della ricorrente nella struttura organizzativa dello Studio, accompagnato all’esercizio di un forte potere conformativo, al di là del merito contenutistico dell’attività di difesa giudiziale e di consulenza stragiudiziale prestata dalla ricorrente, e relativo alle modalità organizzative e procedurali da osservare, a partire dall’obbligo di garantire costante disponibilità per l’esecuzione del lavoro fino alla gestione del rapporto col cliente e alla determinazione del corrispettivo da questi dovuto. A parere della ricorrente, la Corte d’appello ha errato nel ricostruire il potere di direzione, di cui all’art. 2094 cod. civ., in termini di potere conformativo del contenuto dell’attività intellettuale richiesta al lavoratore subordinato, anziché come potere di conformazione unilaterale da parte del datore/committente in ordine alla organizzazione e alle modalità di espletamento della prestazione.
6. Con il secondo motivo di ricorso si ripropone l’eccezione di illegittimità costituzionale dell’articolo 3 , comma 3, R.D.L. 1578 del 1933 e dell’articolo 18 , comma 1, lett. d), della legge 31 dicembre 2012 n. 247 , per contrasto con gli artt. 3 , 4 , 35 e 117 Cost.
7. Con il terzo motivo ricorso si deduce, ai sensi dell’art. 360 , comma 1, n. 3 cod. proc. civ., in via subordinata, violazione o falsa applicazione dell’art. 409 cod. proc. civ., degli articoli 61 e 69 , del decreto legislativo 276 del 2003 , dell’articolo 2 , del decreto legislativo 81 del 2015 e dell’art. 2126 cod. civ. Si assume che la Corte d’appello avrebbe dovuto verificare la riconducibilità del rapporto in esame alla fattispecie della collaborazione coordinata e continuativa oppure del lavoro etero-organizzato e, in caso di esito positivo di tale indagine, avrebbe dovuto pronunciarsi sulla non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale delle disposizioni che escludono i professionisti per cui è prevista l’iscrizione all’albo dall’ambito di applicazione di tali discipline. Ciò sul presupposto che, in caso di pronuncia di incostituzionalità delle disposizioni appena richiamate, la ricorrente avrebbe potuto godere delle medesime protezioni legali previste per i lavoratori subordinati, senza che alcun effetto ostativo potesse derivare dall’incompatibilità di cui all’articolo 3 , comma 3, R.D.L. 1578 del 1933 e all’articolo 18 , comma 1, lett. d), della legge 31 dicembre 2012 n. 247 , operante esclusivamente per i lavoratori subordinati di cui all’art. 2094 cod. civ. ma non per i collaboratori cui sono applicate le tutele del lavoro subordinato; ove anche si volesse riconoscere l’incompatibilità estesa a queste ultime ipotesi, residuerebbe la tutela di cui all’art. 2126 cod. civ.
8. Con il quarto motivo si denuncia, ai sensi dell’art. 360 , comma 1, n. 3 cod. proc. civ., violazione o falsa applicazione dell’art. 1 , commi 47 e 48, della legge 92 del 2012 , dell’art. 2087 cod. civ. e dell’art. 3 , comma 4, della legge n. 81 del 2017 . Si sostiene che sia la domanda di risarcimento del danno per discriminatorietà del licenziamento sia quella per abusività del recesso attenevano alla qualificazione del rapporto in esame e agli stessi fatti addotti a sostegno dell’illegittimità della vicenda estintiva del rapporto e, come tali, potevano essere introdotte con il rito cd. Fornero.
9. Il primo motivo di ricorso non è fondato.
10. La questione di diritto che il motivo pone attiene alla qualificazione come autonoma o subordinata dell’attività professionale svolta da una avvocata in uno Studio legale di grandi dimensioni, in cui operano professionisti associati e altri non associati (tra questi l’attuale ricorrente).
11. Nei precedenti di legittimità che hanno affrontato il tema della qualificazione come autonoma o subordinata dell’attività resa da un professionista in uno studio professionale, si è affermato che “la sussistenza o meno della subordinazione deve essere verificata in relazione alla intensità della etero -organizzazione della prestazione, al fine di stabilire se l’organizzazione sia limitata al coordinamento dell’attività del professionista con quella dello studio, oppure ecceda le esigenze di coordinamento per dipendere direttamente e continuativamente dall’interesse dello stesso studio, responsabile nei confronti dei clienti di prestazioni assunte come proprie e non della sola assicurazione di prestazioni altrui” (Cass. n. 5389 del 1994 ; n. 9894 del 2005 ; n. 3594 del 2011 ; n. 22634 del 2019 ). In tali pronunce si è precisato che, trattandosi di prestazioni professionali che per loro natura non richiedono l’esercizio da parte del datore di lavoro di un potere gerarchico concretizzantesi in ordini specifici e nell’esercizio del potere disciplinare, non risultano significativi i criteri distintivi costituiti dall’esercizio dei poteri direttivo e disciplinare e che neppure possono considerarsi sintomatici del vincolo della subordinazione elementi come la fissazione di un orario per lo svolgimento della prestazione o eventuali controlli sull’adempimento della stessa, se non si traducono nell’espressione del potere conformativo sul contenuto della prestazione proprio del datore di lavoro. In particolare, la sentenza di questa Corte n. 3594 del 2011 ha confermato la decisione d’appello che aveva negato natura subordinata al rapporto di lavoro intercorso tra la ricorrente ed uno Studio Associato Legale Tributario, presso il quale aveva svolto attività di consulenza fiscale e revisione contabile, sul rilievo che “non si fosse in presenza di un potere del datore di lavoro di improntare “in termini vincolanti e continuativi” le modalità della prestazione lavorativa, quanto piuttosto di una organizzazione del lavoro finalizzata al mero coordinamento dell’attività del professionista con quella dello studio (…). L’incarico, quindi, veniva svolto in completa autonomia ed in assenza di indicazioni e direttive nonché controlli se non per il risultato della prestazione (…) mancando qualsiasi prova del fatto che la dott.ssa (…) dovesse attenersi ad indicazioni circa i criteri (si a pure di massima) per l’elaborazione della consulenza, parimenti è indimostrato che vi fosse una verifica, durante l’espletamento dell’incarico, sulle modalità di espletamento medesimo” (per una fattispecie analoga v. Cass. n. 9894 del 2005 ). In altri casi, è stato riconosciuto il vincolo della subordinazione dei professionisti in ragione dell’obbligo dei medesimi di attenersi ad una organizzazione, comprensiva di turni e ferie, unilateralmente predisposta da parte datoriale e ad essi imposta. La sentenza n. 10043 del 2004 ha giudicato esente da vizi la decisione di appello che aveva qualificato come rapporto di lavoro subordinato quello svolto da due medici all’interno di una clinica privata sulla base di indici quali il loro inserimento in turni predisposti dalla clinica, la sottoposizione a direttive circa lo svolgimento dell’attività, l’obbligo di rimettersi alla pianificazione dell’amministrazione in ordine alla fruizione delle ferie. Più recentemente, l’ordinanza n. 26558 del 2024 ha confermato la natura subordinata del lavoro svolto da due medici veterinari presso un ambulatorio essendo le loro “prestazioni (…) inserite in una organizzazione etero decisa ed etero diretta, funzionali a una continuità di servizio: i professionisti mettevano a disposizione del (titolare dell’ambulatorio) l’attività lavorativa secondo le disposizioni organizzative di quest’ultimo (…) erano inseriti nell’organizzazione aziendale unilateralmente decisa e gestita dal (predetto), in maniera da garantire la (loro) presenza nelle giornate e negli orari e secondo i turni di reperibilità dallo stesso stabiliti”. Si è valorizzata, in quest’ultima pronuncia, ai fini dell’art. 2094 cod. civ., la “predisposizione unilaterale dell’organizzazione e delle esigenze dello studio veterinario in funzione delle quali è acquisita la disponibilità del tempo e delle prestazioni dei medici veterinari” (v. anche Cass. n. 22634 del 2019 , che ha confermato la natura subordinata del lavoro svolto all’interno di uno studio legale da persona priva del titolo di avvocato).
12. La censura mossa col motivo in esame attiene ad una asserita erronea applicazione dell’art. 2094 cod. civ., nella forma della subordinazione attenuata, per avere la Corte d’appello, in contrasto con i precedenti richiamati, dato esclusivo o preminente rilievo all’assenza di potere conformativo (del committente) sul contenuto della prestazione professionale dell’avvocata, trascurando o sminuendo il potere di conformazione unilaterale riguardo all’organizzazione e alle modalità esterne di espletamento dell’attività, che si assume, invece, dimostrato.
13. Contrariamente a quanto sostiene parte ricorrente, la Corte di merito si è attenuta alle linee direttrici indicate da questa S.C. ed ha approfonditamente indagato, esaminando il complesso materiale istruttorio, non solo sul potere di conformazione esercitato dal socio o dai soci di riferimento sul contenuto prettamente professionale dell’attività svolta dalla ricorrente, escludendone l’esistenza, ma anche sull’inserimento organico dell’avvocata nello Studio, vale a dire sul modo in cui l’attività della stessa era inserita e regolata all’interno dello Studio legale, ed eventualmente sottoposta a controlli, prescrizioni, limiti o direttive tali da surclassare le strette necessità di coordinamento.
14. La Corte di merito ha accertato (in relazione al periodo temporale dall’1.12.2007, data in cui la attuale ricorrente ha iniziato a collaborare con lo Studio D.D., fino al 30.9.2020) che, nel corso di oltre tredici anni di durata del rapporto, la A.A. ha svolto l’attività di avvocata in modo libero, autonomo e indipendente, pur in presenza di regole necessarie al coordinamento della sua attività con quella dello Studio.
15. Sotto il profilo contenutistico dell’attività professionale, la Corte d’appello ha valutato la documentazione prodotta dall’appellante (numerose e-mail scambiate con l’avv. B.B. e l’avv. C.C.) e appurato come la stessa “non era vincolata dalle determinazioni di B.B. o C.C. e poteva dissentire dalle stesse”; che tali colleghi, interpellati per lo più su iniziativa della stessa A.A., hanno di volta in volta espresso suggerimenti e consigli (“invitando la A.A. alla riconsiderazione, magari attraverso una nuova discussione fra loro, dei punti segnalati”); che la ricorrente “nel confronto con i colleghi dello Studio, assumeva iniziative personali ed esprimeva proprie considerazioni sulle questioni trattate”; inoltre, che era “interpellata personalmente, e a volte anche esclusivamente, sia dai clienti e sia dai procuratori delle controparti”; che i pareri trasmessi ai colleghi erano sottoscritti unicamente dalla predetta.
16. Sotto il secondo profilo, del potere conformativo della prestazione, la sentenza impugnata ha partitamente analizzato: le regole organizzative dello Studio, l’obbligo di esclusiva, il rapporto con i clienti, l’utilizzo degli strumenti informatici, dell e risorse umane e materiali dello Studio, la previsione di un compenso fisso, l’impegno temporale richiesto all’avv. A.A. e gli eventuali controlli sullo stesso.
17. Sulla struttura organizzativa in cui era inserita l’attività della ricorrente, la Corte d’appello ha premesso che lo Studio D.D. è un’associazione professionale composta da 50 soci e 296 professionisti, iscritti all’albo degli avvocati o a quello dei dottori commercialisti o al registro dei praticanti avvocati, con 95 dipendenti a supporto dell’attività professionale e con sedi a Milano, Roma, Londra e New York. Si tratta di uno studio legale multidisciplinare, che ha come clienti in prevalenza società di medie o grandi dimensioni e fornisce assistenza in molteplici rami del diritto, cui corrispondono singoli dipartimenti. I giudici di appello hanno preso in esame i documenti che disciplinano i vari aspetti della vita dello Studio, in particolare il regolamento associativo, il sistema di gestione per la sicurezza delle informazioni e quello di apertura delle pratiche, ed hanno ritenuto come essi rispondessero essenzialmente all’esigenza di coordinamento dell’attività dei numerosi professionisti coinvolti, conclusione avvalorata dal fatto che le regole imposte con i citati documenti valessero per tutti i professionisti dello Studio, compresi i soci, non rilevando, in senso eccedente rispetto alle esigenze di coordinamento, il fatto che la predisposizione del regolamento e degli altri documenti, così come l’esercizio dei poteri decisionali e di gestione, facesse capo esclusivamente ai soci.
18. Sull’obbligo di esclusiva o condizione di monocommittenza, la Corte d’appello ha dato atto di come tutti gli incarichi di difesa e assistenza legale fossero acquisiti dallo Studio e da questo distribuiti ai singoli professionisti. Tutti i professionisti, compresi i soci, lavorano per lo Studio, che in via esclusiva intrattiene i rapporti contrattuali con i clienti ed emette le fatture nei confronti degli stessi. Tutti i professionisti hanno un obbligo di esclusiva, nel senso che non possono gestire una propria clientela collaterale a quella dello Studio, ma possono certamente proporre nuovi clienti ed anzi lo sviluppo della clientela è incoraggiato e incentivato ed ha riflessi positivi anche in termini economici poiché il professionista partecipa ai ricavi provenienti dalle relative pratiche. Queste regole compongono – insieme ad una serie di altri dati, come l’utilizzo da parte dei professionisti delle risorse (locali, strumenti informatici, dipendenti) dello Studio – un sistema organizzato all’interno del quale il singolo avvocato decide di prestare la propria attività professionale, accettando alcune limitazioni in cambio di altrettante agevolazioni e prerogative. Le regole sul funzionamento del rapporto con i clienti e il connesso obbligo di esclusiva sono sì decise unilateralmente dagli organi dello Studio associato ma, come accertato dai giudici di appello, rispondono alle esigenze di coordinamento dell’attività dei tanti professionisti che vi operano, nessuno dei quali è svincolato dalla loro osservanza. Ed è proprio quest’ultimo aspetto che pone in risalto il lato oggettivo e funzionale dell’organizzazione in cui la stessa ricorrente era inserita: non un sistema di comando imposto ai professionisti non soci, bensì un insieme organico di regole (per la gestione delle pratiche, per l’utilizzo degli strumenti informatici, per la sicurezza delle informazioni) destinate a fissare alcuni limiti e a tracciare alcune procedure al fine di gestire la complessità connessa al numero di professionisti e alla tipologia di clientela. In tale contesto, l’obbligo di esclusiva trova una plausibile spiegazione, all’interno della cornice del coordinamento, nello scopo di evitare conflitti di interesse che potrebbero sorgere se ciascuno dei professionisti potesse gestire, in modo parallelo, una propria clientela, tenuto anche conto dell’ambito di copertura dei rischi in base alla polizza professionale sottoscritta dallo Studio.
19. Sull’impegno temporale, la Corte territoriale ha escluso che le tempistiche indicate nelle e-mail, in base al tenore delle stesse complessivamente interpretate, fossero espressione di un potere conformativo dello Studio sulla prestazione professionale dell’avv. A.A., rispondendo quelle tempistiche alla necessità, insita nell’attività di avvocato, di rispettare i termini processuali e le cadenze temporali imposte dalle scelte e dalle richieste dei clienti (“dalle e-mail .. emerge infatti che in generale le tempistiche nonché le esigenze di urgenza, anche nel periodo natalizio ovvero nel giorno di ferragosto, trovano origine in scelte del cliente in relazione a complesse operazioni che coinvolgono contemporaneamente una pluralità di professionisti…ovvero in precise richieste di un cliente”). Ha accertato, in sintonia col tribunale, che il badge aveva la sola funzione di chiave di accesso ai locali dello Studio e che la compilazione dei ntime sheet”, richiesta a tutti i professionisti dello Studio, soci compresi, rispondesse a mere esigenze di natura contabile e non nascondesse alcuna forma di controllo sui tempi dell’attività svolta. La Corte territoriale ha condiviso la valutazione del tribunale sulla compilazione dei time sheet come indice essa stessa del carattere autonomo della prestazione sul rilievo che “in assenza di un orario di lavoro da rispettare, le ore . erano quelle indicate nei time sheet dal professionista stesso, senza che tale compilazione fosse soggetta ad alcun controllo o verifica di merito, da parte di terzi dello Studio, sull’effettività di quanto dichiarato dal professionista”. I giudici di appello hanno ancora appurato che la disposizione del regolamento in punto di ferie non prevedeva alcuna autorizzazione del piano ferie, predisposto in base alle indicazioni fornite dai singoli professionisti per consentire a tutti di sapere chi fosse presente in studio e chi no in una certa data. In tale assetto, la previsione di un compenso fisso mensile è stata correttamente giudicata inidonea ad incidere sull’inquadramento tipologico della fattispecie sia per il rilievo pacificamente sussidiario di tale elemento nell’indagine sulla natura subordinata o autonoma di un rapporto e sia per l’accertamento, compiuto dal tribunale e fatto proprio dai giudici di appello, sulla partecipazione degli avvocati dello Studio quindi anche della attuale ricorrente, a quanto ricavato dalle pratiche relative ai clienti da ciascuno procurati, aspetto quest’ultimo proprio dell’esercizio della libera professione.
20. L’accertamento compiuto dai giudici di merito non ha trascurato nessuno degli indici significativi che, complessivamente letti, hanno portato ad escludere l’esercizio di un potere conformativo unilaterale dello Studio sia sul contenuto prettamente professionale dell’attività svolta e sia sulla organizzazione e sulle modalità di espletamento della stessa, sia pure nell’accezione attenuata propria del lavoro intellettuale. L’esclusione della natura subordinata del rapporto in esame si basa su una razionale analisi dei dati probatori raccolti, svolta secondo il punto focale dello spazio per il libero esercizio della professione, non solo nei suoi contenuti tecnici ma anche nelle sue modalità temporali e gestionali, spazio risultato non intaccato e non etero-diretto dallo Studio. Né, d’altra parte, le critiche possono validamente spingersi fino a degradare nella contrapposizione sull’apprezzamento di merito dei singoli dati di giudizio, come noto preclusa in questa sede di legittimità, specie in una ipotesi, come quella in esame, di cd. doppia conforme (v. art. 348 ter c.p.c., ora art. 360, comma 4 c.p.c.).
21. Il rigetto del primo motivo di ricorso e la conferma della natura autonoma dell’attività professionale svolta dalla avvocata ricorrente presso lo Studio legale rende irrilevante la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 3, comma 3, R.D.L. 1578 del 1933 e dell’articolo 18, comma 1, lett. d), della legge 31 dicembre 2012 n. 247, oggetto del secondo motivo di ricorso.
22. In proposito, deve darsi atto di come il disegno legislativo tradottosi nel regime di incompatibilità dell’esercizio delle professioni di avvocato e di procuratore “con ogni altro impiego retribuito, anche se consistente nella prestazione di opera di assistenza o consulenza legale, che non abbia carattere scientifico o letterario”, secondo la formula dell’art. 3, R.D.L. 1578 del 1923, e “con qualsiasi attività di lavoro subordinato anche se con orario di lavoro limitato”, in base all’art. 18 della legge n. 247 del 2012, ha trovato conforto in diverse pronunce della Corte Costituzionale e della Corte di cassazione che hanno ribadito, anche recentemente, il carattere di norma eccezionale dell’art. 3, quarto comma, lettera b), del regio decreto-legge citato (ora dell’art. 18 cit.), che riguarda gli avvocati addetti agli uffici legali degli enti pubblici, stante appunto la sua natura derogatoria rispetto al principio generale di incompatibilità dell’attività professionale con la qualità di impiegato (v. Corte Cost. n. 91 del 2013; Cass., S.U. n. 3733 del 2002; S.U. n. 21164 del 2021; v. anche Corte Cost. n. 390 del 2006 sulla legge n. 339 del 2003 che ha ripristinato l’incompatibilità della professione di avvocato con il lavoro a tempo parziale alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, venuta meno per effetto della legge n. 662 del 1996, art. 1, comma 56; sulla medesima questione v. Corte Cost. n. 166 del 2012; Cass., S.U. n. 21949 del 2015; v. anche Cass., S.U. n. 15208 del 2016 che, pronunciandosi sulla incompatibilità della iscrizione nell’albo degli avvocati con l’iscrizione in altri albi professionali diversi da quelli per i quali l’iscrizione è espressamente consentita ai sensi dell’art. 18, legge 247 del 2012, ha escluso che la previsione di specifiche ipotesi di incompatibilità potesse apparire lesiva di precetti costituzionali e delle esigenze di compatibilità comunitaria). Anche recentemente, l’incompatibilità è stata riaffermata per il personale assunto alle dipendenze dell’amministrazione della giustizia e da destinare all’ufficio per il processo. L’art. 11, comma 2 bis, del decreto-legge n. 80 del 2021, convertito dalla legge n. 113 del 2021, ha sancito che “L’assunzione di cui al presente articolo configura causa di incompatibilità con l’esercizio della professione forense e comporta la sospensione dall’esercizio dell’attività professionale per tutta la durata del rapporto di lavoro con l’amministrazione pubblica”. Il susseguirsi delle pronunce richiamate si basa sul principio di ordine sistematico della irrinunciabilità delle garanzie di autonomia e indipendenza dell’avvocato, a tutela sia del corretto esercizio della professione nei confronti del cliente e sia del ruolo insostituibile al medesimo spettante per la tutela dei diritti fondamentali e, in ultima analisi, per la garanzia dello stato di diritto nel suo complesso (v. Corte Cost. n. 18 del 2022, n. 4.4.2. del Considerato in diritto).
23. Sul terzo motivo di ricorso, occorre premettere che il rapporto tra l’avv. A.A. e lo Studio D.D. si è svolto dal 2007 al 2020. L’art. 61 del D.Lgs. n. 273 del 2003, nella originaria versione, prevedeva che “i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, prevalentemente personale e senza vincolo di subordinazione, di cui all’articolo 409, n. 3, del codice di procedura civile devono essere riconducibili a uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato, nel rispetto del coordinamento con la organizzazione del committente e indipendentemente dal tempo impiegato per l’esecuzione dell’attività lavorativa” (comma 1). Inoltre, che “Sono escluse dal campo di applicazione del presente capo le professioni intellettuali per l’esercizio delle quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi professionali, esistenti alla data di entrata in vigore del presente decreto legislativo ..” (comma 3). Il primo comma è poi stato sostituito, ad opera dell’art. 1, comma 23, lett. a) della legge 92 del 2012, dal seguente: “…i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa prevalentemente personale e senza vincolo di subordinazione, di cui all’articolo 409, numero 3), del Codice di procedura civile, devono essere riconducibili a uno o più progetti specifici determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore. Il progetto deve essere funzionalmente collegato a un determinato risultato finale e non può consistere in una mera riproposizione dell’oggetto sociale del committente, avuto riguardo al coordinamento con l’organizzazione del committente e indipendentemente dal tempo impiegato per l’esecuzione dell’attività lavorativa.”. Ai sensi dell’art. 69, comma 1, nel testo originario, “I rapporti di collaborazione coordinata e continuativa instaurati senza l’individuazione di uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso ai sensi dell’articolo 61, comma 1, sono considerati rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dalla data di costituzione del rapporto”. Tale disposizione è stata oggetto di interpretazione autentica ad opera dell’art. 1, comma 24, della legge 92 del 2012 “nel senso che l’individuazione di uno specifico progetto costituisce elemento essenziale di validità del rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, la cui mancanza determina la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
24. In base al disposto dell’art. 2, D.Lgs. n. 81 del 2015: “A far data dal 1 gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro prevalentemente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente. Le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche qualora le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante piattaforme anche digitali” (comma 1). Inoltre, “La disposizione di cui al comma 1 non trova applicazione con riferimento: … b) alle collaborazioni prestate nell’esercizio di professioni intellettuali per le quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi professionali (comma 2).
25. L’univoco significato letterale della normativa appena riportata preclude la possibilità di ritenere integrata una violazione di legge, considerata l’espressa inapplicabilità di dette disposizioni alla professione forense, per il cui esercizio è richiesta l’iscrizione nell’apposito albo.
26.La difesa della ricorrente ha prospettato una questione di legittimità costituzionale delle citate disposizioni, in riferimento agli artt. 3, 4 e 35 e 117 Cost., ed ha argomentato che, pur considerando l’incompatibilità dell’esercizio della professione forense in regime di subordinazione, tale incompatibilità opererebbe rispetto ai lavoratori qualificati come subordinati ai sensi dell’art. 2094 cod. civ. ma non anche per i collaboratori coordinati e continuativi che godono delle medesime tutele del lavoro subordinato.
27. La questione di legittimità costituzionale posta in riferimento agli artt. 61 e 69 del D.Lgs. 276 del 2003 è irrilevante poiché in nessun modo è dedotta dalla ricorrente né è astrattamente configurabile, rispetto all’esercizio della professione forense, la riconducibilità “a uno o più progetti specifici determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore”. E se è vero che “l’individuazione di uno specifico progetto costituisce elemento essenziale di validità del rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, la cui mancanza determina la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato”, secondo l’interpretazione autentica dell’art. 69, comma 1 cit. ad opera dell’art. 1, comma 24 della legge 92 del 2012 (sull’originario testo dell’art. 69, comma 1, cit. v. Cass. n. 27543 del 2020; n. 17707 del 2020; n. 17127 del 2016), è altrettanto vero che in tanto possono farsi derivare dalla mancanza del requisito di validità le conseguenze normativamente previste in quanto quel requisito sia astrattamente compatibile col tipo di rapporto cui si vorrebbe estenderlo. Tale compatibilità difetta, dal punto di vista logico e giuridico, tra l’esercizio della professione forense e la realizzazione di uno specifico progetto determinato dal committente, per l’intrinseca autonomia e indipendenza che costituisce la cifra insostituibile di tale professione nell’assetto legislativo esistente. Posto quindi che per le attività autonome coordinate e continuative l’ordinamento predispone un particolare statuto protettivo ove manchino determinati requisiti, nella specie espressi dalla riconducibilità ad uno specifico progetto, non è consentito invocare il meccanismo di cui all’art. 69 cit. ove non siano allegati e comprovati, e addirittura neanche astrattamente configurabili, tutti gli elementi della fattispecie normativa.
28. La questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 D.Lgs. n.81 del 2015 è manifestamente infondata.
29. Ai fini di un corretto inquadramento sistematico della disposizione citata occorre partire dal principio d’indisponibilità del tipo negoziale, ribadito a più riprese dal giudice delle leggi. In virtù di tale principio è precluso al legislatore negare la qualificazione giuridica di lavoro subordinato a rapporti che oggettivamente abbiano tale natura, ove da ciò derivi l’inapplicabilità delle norme inderogabili previste dall’ordinamento per dare attuazione ai principi, alle garanzie e ai diritti dettati dalla Costituzione a tutela del lavoro subordinato (Corte Cost. n. 121 del 1993; n. 115 del 1995; da ultimo sentenza n. 76 del 2015). Tale principio obbedisce all’esigenza, imposta dalla Carta fondamentale, di “vagliare in modo critico le scelte del legislatore, volte a sottrarre arbitrariamente taluni rapporti di lavoro subordinato alla sfera delle norme inderogabili, espressione di principi costituzionali” e presidia “(l)o statuto protettivo, che alla subordinazione si accompagna” (sentenza n. 76 del 2015, punto 8 del “Considerato in diritto”).
30. L’indisponibilità del tipo contrattuale opera rispetto a rapporti ontologicamente di natura subordinata ed esige, anche nei confronti del legislatore, che essi siano assistiti dallo statuto protettivo che alla subordinazione s’accompagna.
31. Su un piano diverso, che non interferisce col principio di indisponibilità del tipo negoziale, si collocano le scelte legislative volte ad estendere le tutele del lavoro subordinato a rapporti che si collocano al di fuori della cornice tipologica delineata dall’art. 2094 cod. civ. È certamente consentito al legislatore di estendere le tutele, che la Costituzione e il diritto unionale riservano al lavoro subordinato, a rapporti che non abbiano tale natura, e quindi anche a rapporti di lavoro autonomo che si realizzano attraverso forme di collaborazione. In tal caso, tuttavia, la selezione degli ambiti destinati a beneficiare delle maggiori garanzie è rimessa al potere discrezionale del legislatore, che dovrà essere esercitato in conformità ai canoni di ragionevolezza ed uguaglianza.
32. L’art. 2, comma 1, del D.Lgs. n. 81 del 2015 ha esteso la disciplina del lavoro subordinato a fattispecie estranee alla cornice dell’art. 2094 cod. civ., esattamente alle collaborazioni etero-organizzate, riconducibili a forme di lavoro autonomo.
L’opzione legislativa, di escludere da tale beneficio le collaborazioni prestate nell’esercizio di professioni intellettuali per le quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi professionali, non appare manifestamente irragionevole in quanto fondata sul presupposto, assolutamente plausibile, del possesso da parte del professionista di un potere contrattuale che lo rende immune dalle pratiche elusive e di sfruttamento cui il legislatore ha voluto porre rimedio. La scelta normativa non appare neanche in contrasto con il principio di uguaglianza, posto che l’esclusione dal comma 1 interessa figure rientranti nel campo delle professioni “protette”, facenti capo ad un ordine professionale, quindi una categoria disomogenea rispetto a quelle prive di un simile statuto professionale ed anzi suscettibili, finanche, di modalità di esecuzione della prestazione “organizzate mediante piattaforme anche digitali”.
33.E’ utile ricordare, come si legge nella relazione illustrativa al D.Lgs. 81 del 2015, che la norma in esame (art. 2) “interviene in materia di collaborazioni coordinate e continuative e di lavoro autonomo, al fine di estendere le tutele del lavoro subordinato ad alcuni tipi di collaborazione, morfologicamente contigue al lavoro subordinato, e di sopprimere l’istituto del lavoro a progetto e dell’associazione in partecipazione con apporto di lavoro, sovente abusati a fini elusivi” e ancora che dal novero dei rapporti etero-organizzati “sono esclusi alcuni particolari tipi di collaborazione, vuoi per esigenze legate al settore produttivo cui ineriscono, vuoi per ragioni soggettive”. In modo piano si evidenzia la ratio “soggettiva” della non estensione della disciplina antielusiva agli esercenti le professioni intellettuali che richiedono l’iscrizione in appositi albi e, alla luce di quanto sopra detto, non pare possibile ritenere costituzionalmente necessitata l’inclusione dei medesimi tra le categorie beneficiate dall’estensione delle tutele proprie del lavoro dipendente.
34. Ad analoga conclusione si giunge quanto alla dedotta contrarietà con gli artt. 4 e 35 Cost. perché il solo dato della dipendenza economica, affermata in ragione della condizione di mono – committenza dell’avv. A.A., non può di per sé rappresentare una lesione del diritto al lavoro. In nessun modo sono illustrate nel ricorso le ragioni di contrasto della disposizione in esame con l’art. 117 Cost., non essendo pertinenti le considerazioni svolte dalla difesa della ricorrente sul contrasto, con l’art. 117 cit., del regime di incompatibilità di cui al regio decreto-legge n. 1578 del 1933 e alla legge n. 247 del 2012, questione giudicata da questo Collegio non rilevante ai fini del decidere. Comunque, l’ambito del lavoro autonomo in cui si colloca, in base all’accertamento svolto in appello, l’attività professionale della ricorrente esclude che possa profilarsi qualche ragione di contrasto con i principi di diritto unionale (sulla nozione di “lavoratore” v. da ultimo le plurime decisioni sui giudici di pace: CGUE C – 41/23; n. 236/20; C – 658/18).
35. La confermata natura autonoma del rapporto professionale della ricorrente di per sé esclude la denunciata violazione dell’art. 2126 cod. civ., norma – appunto – inapplicabile ai rapporti di lavoro autonomo.
36. Il quarto motivo di ricorso, ancor prima che infondato è inammissibile per il rilievo, di per sé assorbente, che l’ipotetica erronea scelta d’un rito anziché d’un altro non importerebbe omessa pronuncia, bensì – a tutto voler astrattamente concedere – un mero errore procedurale non implicante nullità della sentenza o del procedimento e, quindi, non censurabile ex art. 360 n. 4 c.p.c.; è noto, infatti, che la trattazione della controversia, da parte del giudice adito, con un rito diverso da quello previsto dalla legge non determina alcuna nullità del procedimento e della sentenza successivamente emessa, ove la parte non deduca e dimostri che dall’erronea adozione del rito le sia derivata una lesione del diritto di difesa (v., ex aliis, Cass. n. 23682/17, nonché, in motivazione e più di recente, Cass. S.U. n. 365/21).
37. A sua volta la statuizione (emessa in sede di merito) di inammissibilità della domanda dell’odierna ricorrente relativa all’abusivo recesso dal rapporto di lavoro autonomo in violazione dell’art. 3, comma 4, della legge n. 81 del 2017, e alla mancata osservanza del termine di preavviso in violazione dell’art. 3, comma 1, della stessa legge, ha natura meramente processuale e, come tutte le pronunce di mero rito, non pregiudica un nuovo esercizio dell’azione e non modifica in alcun modo la situazione giuridica soggettiva fatta valere in giudizio: in proposito la giurisprudenza di questa S.C. è costante (v., ex aliis, Cass. n. 983/22; Cass. 15860/2013).
38. Per le ragioni finora esposte, il ricorso deve essere respinto.
39. La regolazione delle spese del giudizio di legittimità segue il criterio di soccombenza, con liquidazione come in dispositivo.
40. Il rigetto del ricorso costituisce presupposto processuale per il raddoppio del contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. n. 115 del 2002 (cfr. Cass. S.U. n. 4315 del 2020).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 5.500,00 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15 per cento e accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.