I controlli c.d. difensivi sul lavoratore, attuati anche con strumenti tecnologici o tramite agenzie investigative, sono legittimi. Il datore di lavoro non è tenuto a mettere a disposizione del lavoratore, nei cui confronti abbia elevato una contestazione di addebiti di natura disciplinare, la documentazione aziendale relativa ai fatti contestati.

Nota a Cass. (ord.) 21 novembre 2024, n. 30079

Daria Pietrocarlo

La Corte di Cassazione, ord. 21 novembre 2024, n. 30079, ha respinto il ricorso di un lavoratore sanzionato per plurimi addebiti, accertati in seguito ad indagine investigativa, anche mediante controlli tecnologici, e consistenti nella falsa attestazione dell’orario di svolgimento di interventi programmati, nell’essersi dedicato ad attività diverse durante l’orario di lavoro, percependo indebitamente la relativa retribuzione, nonché nell’utilizzo abituale e costante dell’automezzo aziendale per scopi del tutto personali.

In merito ai controlli c.d. difensivi ed alla documentazione la cui visione, in seguito ad una contestazione disciplinare, possa essere richiesta dal lavoratore, i giudici hanno ribadito alcuni rilevanti principi, quali:

a) il controllo di terzi, da parte delle guardie particolari giurate così come dagli addetti di un’agenzia investigativa, non può riguardare, in nessun caso, né l’adempimento, né l’inadempimento dell’obbligazione contrattuale del lavoratore di prestare la propria opera, essendo l’inadempimento stesso riconducibile (al pari dell’adempimento) all’attività lavorativa, la quale è sottratta alla suddetta vigilanza (v., fra tante, Cass. n. 17004/2024; Cass. n. 25287/2022, in q. sito con nota di M.N. BETTINI e Cass. n. 21621/2018, annotata in q. sito da F. ALBINIANO). In particolare, il controllo delle agenzie investigative può avere ad oggetto il compimento di “atti illeciti del lavoratore non riconducibili al mero inadempimento dell’obbligazione contrattuale” (v. Cass. n. 9167/2023). Così, ad esempio, è ritenuto legittimo il controllo tramite investigatori che non abbia ad oggetto l’adempimento della prestazione lavorativa ma “sia finalizzato a verificare comportamenti che possano configurare ipotesi penalmente rilevanti od integrare attività fraudolente, come nel caso di controllo finalizzato all’accertamento dell’utilizzo legge n. 104 del 1992” (v. Cass. n. 6468/2024 e Cass. n. 4670/2019);

b) la nozione di “patrimonio aziendale” tutelabile in sede di esercizio del potere di controllo dell’attività dei lavoratori è intepretata dalla giurisprudenza di legittimità in una accezione estesa, nel senso cioè che “il diritto del datore di lavoro di tutelare il proprio patrimonio, […] costituito non solo dal complesso dei beni aziendali, ma anche dalla propria immagine esterna, così come accreditata presso il pubblico” (Cass. n. 13266/2018, annotata in q. sito da M.N. BETTINI, e Cass. n. 2722/ 2012). Pertanto, la tutela del patrimonio aziendale può riguardare la difesa datoriale “dalla lesione all’immagine e al patrimonio reputazionale dell’azienda, non meno rilevanti dell’elemento materiale che compone la medesima” (Cass. n. 23985/2024, in q. sito con nota di A. TAGLIAMONTE);

c) i divieti contenuti nello Statuto dei lavoratori non concernono i comportamenti del lavoratore lesivi del patrimonio e dell’immagine aziendale costituenti mancanze specifiche e comportamenti estranei alla normale attività lavorativa (Cass. n. 20440/2015);

d) quanto alla compatibilità dei c.d. controlli difensivi con ciò che statuisce l’art. 4 Stat. lav. (come mod. dall’art. 23, D.Lgs. n. 151/2015 e successive integrazioni; v. anche art. 8, Convenzione europea dei diritti dell’uomo come interpretato dalla giurisprudenza della Corte EDU), la Cassazione (Cass. n. 34092/2021 e Cass. n. 2573/2021) ha rilevato che i controlli ex art. 4, a difesa del patrimonio aziendale, riguardanti tutti i dipendenti (o gruppi di essi) nello svolgimento della loro prestazione di lavoro che li pone a contatto con tale patrimonio) vanno distinti da quelli che sono diretti ad “accertare specificamente condotte illecite ascrivibili – in base a concreti indizi – a singoli dipendenti, anche se questo si verifica durante la prestazione di lavoro”. Tali controlli, seppur se effettuati con strumenti tecnologici, non hanno ad oggetto la normale attività del lavoratore e si situano “all’esterno del perimetro applicativo dell’art. 4”; per non avere ad oggetto una “attività –in senso tecnico– del lavoratore”. Essi sono infatti “mirati” ed “attuati ex post”, ossia “a seguito del comportamento illecito di uno o più lavoratori del cui avvenuto compimento il datore abbia avuto il fondato sospetto, perché solo a partire “da quel momento” il datore può provvedere alla raccolta di informazioni utilizzabili;

e) “L’art. 7 della L. n. 300 del 1970 ( lav.) non prevede, nell’ambito del procedimento disciplinare, l’obbligo per il datore di lavoro di mettere a disposizione del lavoratore, nei cui confronti sia stata elevata una contestazione di addebiti di natura disciplinare, la documentazione aziendale relativa ai fatti contestati, restando salva la possibilità per il lavoratore medesimo di ottenere, nel corso del giudizio ordinario di impugnazione del licenziamento irrogato all’esito del procedimento suddetto, l’ordine di esibizione della documentazione stessa.

Il datore di lavoro è tenuto, tuttavia, ad offrire in consultazione all’incolpato i documenti aziendali solo in quanto e nei limiti in cui l’esame degli stessi sia necessario al fine di una contestazione dell’addebito idonea a permettere alla controparte un’adeguata difesa; ne consegue che, in tale ultima ipotesi, il lavoratore che lamenti la violazione di tale obbligo ha l’onere di specificare i documenti la cui messa a disposizione sarebbe stata necessaria al predetto fine” (così, Cass. n. 27093/2018; e Cass. n. 23304/ 2010).

 Sentenza:

CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 21 novembre 2024, n. 30079

Lavoro – Licenziamento disciplinare – Falsa attestazione dell’orario di interventi programmati – Percezione indebita retribuzione – Utilizzo abituale e costante automezzo aziendale per scopi del tutto personali – Indagini investigative – Rigetto

Rilevato che

1.la Corte di Appello di Napoli, con la sentenza impugnata, nell’ambito di un procedimento ex lege n. 92 del 2012, ha confermato la pronuncia di primo grado che aveva accertato la legittimità del licenziamento disciplinare intimato il 2 ottobre 2019 da I.R. Spa a R.D.B., operaio addetto all’utenza sul territorio, per plurimi addebiti, accertati in seguito ad indagine investigativa, anche mediante controlli tecnologici, e consistenti nella falsa attestazione dell’orario di interventi programmati, nell’essersi dedicato ad attività diverse durante l’orario di lavoro, percependo indebitamente la relativa retribuzione, nell’utilizzo abituale e costante dell’automezzo aziendale per scopi del tutto personali;

2. la Corte territoriale, innanzitutto, ha ritenuto la legittimità delle indagini investigative eseguite quali “controlli difensivi” volti ad accertare il compimento di atti illeciti del lavoratore non riconducibili al mero inadempimento dell’obbligazione; ha poi argomentato che il mandato all’agenzia investigativa era stato conferito a seguito di denuncia in relazione alla quale non sussistevano dubbi di autenticità e riguardante fatti addebitati al personale adibito allo svolgimento della propria attività in Comuni della Provincia di Napoli, rientranti proprio nella competenza dell’unità tecnica cui era proposto il lavoratore reclamante, ritenendo quindi che “la denuncia in atti è specifica e per i motivi esposti riguarda anche il D.B.”; la Corte ha poi respinto il motivo di gravame con cui si contestava il mancato accesso al fascicolo disciplinare, rammentando che “non è meritevole di tutela generalizzata il diritto di accesso ai documenti posti a fondamento delle contestazioni disciplinari e, nella specie, il lavoratore non ha richiesto la consultazione di un determinato specifico documento”; ha aggiunto che “è stata garantita un’idonea difesa atteso che la lettera di contestazione disciplinare, (…), muove nei confronti dell’odierno reclamante addebiti specifici inerenti circostanze di fatto ben determinate, a fronte delle quali nulla è stato contestato”; la Corte territoriale ha concluso, condividendo l’avviso già espresso in prime cure, che “nella specie, la gravità del comportamento tenuto, anche ove valutato in relazione ad uno solo dei plurimi episodi contestati – ed anche ove si valutino unicamente le condotte di falsa attestazione, peraltro non essendo meno gravi le altre – integra una giusta causa di risoluzione del rapporto facendo venire meno la fiducia circa la correttezza dei futuri adempimenti, anche considerando le modalità (partenza da casa) di espletamento della prestazione lavorativa e conseguentemente la sanzione irrogata è più che proporzionata alla condotta tenuta”;

3. per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso il soccombente con tre motivi; ha resistito l’intimata società con controricorso, illustrato anche da memoria; all’esito della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nel termine di sessanta giorni;

Considerato che

1.i motivi di ricorso possono essere come di seguito sintetizzati:

1.1. il primo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione degli articoli 2, 3 e 4 St. lav., in relazione all’art. 360 c.c., comma 1, n. 3, c.p.c., per avere il Giudice di Appello ritenuto legittime le indagini investigative attivate sulla sola base di meri sospetti sollecitati da generici esposti;

1.2. il secondo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 7 St. lav., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. per avere la Corte territoriale ritenuto legittima la mancata esibizione al lavoratore della documentazione investigativa in sede di procedimento disciplinare;

1.3. il terzo mezzo deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 2119 e 1455 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., per essere stata ritenuta la condotta del ricorrente grave ed in grado di incidere in maniera decisiva sulla prosecuzione del rapporto;

2. il ricorso non può trovare accoglimento;

2.1. il Collegio giudica il primo motivo infondato;

2.1.1. fermo restando che il controllo di terzi, sia quello di guardie particolari giurate così come di addetti di un’agenzia investigativa, non può riguardare, in nessun caso, né l’adempimento, né l’inadempimento dell’obbligazione contrattuale del lavoratore di prestare la propria opera, essendo l’inadempimento stesso riconducibile, come l’adempimento, all’attività lavorativa, che è sottratta alla suddetta vigilanza (tra le recenti, v. Cass. n. 17004 del 2024; in precedenza Cass. n. 9167 del 2003; Cass. n. 15094 del 2018; Cass. n. 21621 del 2018; Cass. n. 25287 del 2022), secondo le medesime pronunce si afferma reiteratamente che il controllo delle agenzie investigative può avere ad oggetto il compimento di “atti illeciti del lavoratore non riconducibili al mero inadempimento dell’obbligazione contrattuale” (così ancora Cass. n. 9167 del 2023, che cita la giurisprudenza precedente); ad esempio, è costantemente ritenuto legittimo il controllo tramite investigatori che non abbia ad oggetto l’adempimento della prestazione lavorativa ma “sia finalizzato a verificare comportamenti che possano configurare ipotesi penalmente rilevanti od integrare attività fraudolente, come nel caso di controllo finalizzato all’accertamento dell’utilizzo legge n. 104 del 1992” (v. Cass. n. 4984 del 2014; Cass. n. 9217 del 2016; Cass. n. 15094 del 2018; Cass. n. 4670 del 2019; da ultimo, Cass. n. 6468 del 2024);

recentemente questa Corte (Cass. n. 23985 del 2024) ha anche sottolineato come la nozione di “patrimonio aziendale” tutelabile in sede di esercizio del potere di controllo dell’attività dei lavoratori è stata intesa, dalla giurisprudenza di legittimità, in una accezione estesa; si è così riconosciuto “il diritto del datore di lavoro di tutelare il proprio patrimonio, […] costituito non solo dal complesso dei beni aziendali, ma anche dalla propria immagine esterna, così come accreditata presso il pubblico” (Cass. n. 2722 del 2012; sulla tutela dell’immagine aziendale v. pure Cass. n. 13266 del 2018); si è quindi affermato che la tutela del patrimonio aziendale può riguardare la difesa datoriale “dalla lesione all’immagine e al patrimonio reputazionale dell’azienda, non meno rilevanti dell’elemento materiale che compone la medesima” (Cass. n. 23985/2024 cit.);

è stato anche precisato (Cass. n. 20440 del 2015) che, ribadito come i divieti contenuti nello Statuto dei lavoratori non riguardino “comportamenti del lavoratore lesivi del patrimonio e dell’immagine aziendale” ovvero “intesi a rilevare mancanze specifiche e comportamenti estranei alla normale attività lavorativa nonché illeciti”, effettuati anche mediante agenzie investigative private, “ciò tanto più vale quando il lavoro dev’essere eseguito, […], al di fuori dei locali aziendali, ossia in luoghi in cui è più facile la lesione dell’interesse all’esatta esecuzione della prestazione lavorativa e dell’immagine dell’impresa, all’insaputa dell’imprenditore”; in ogni caso, si è statuito che “l’accertamento circa la riferibilità (o meno) del controllo investigativo allo svolgimento dell’attività lavorativa rappresenta una indagine che compete al giudice del merito, involgendo inevitabilmente apprezzamenti di fatto” (in termini, da ultimo: Cass. n. 22051 e n. 27610 del 2024);

2.1.2. per altro verso si giustifica l’intervento in questione “per l’avvenuta perpetrazione di illeciti e l’esigenza di verificarne il contenuto, anche laddove vi sia un sospetto o la mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione” (v. Cass. n. 3590 del 2011; Cass. n. 15867 del 2017);

come noto, più recentemente, questa Corte, chiamata a pronunciarsi sulla questione di rilievo nomofilattico circa la compatibilità dei c.d. “controlli difensivi” con la modifica dell’art. 4 dello Statuto dei lavoratori recata dall’art. 23 del d.lgs. n. 151 del 2015 e successive integrazioni, ha affermato (cfr. Cass. n. 25732 del 2021; successiva conf. Cass. n. 34092 del 2021) i seguenti principi: occorre distinguere, anche per comodità di sintesi verbale, “tra i controlli a difesa del patrimonio aziendale che riguardano tutti i dipendenti (o gruppi di dipendenti) nello svolgimento della loro prestazione di lavoro che li pone a contatto con tale patrimonio, controlli che dovranno necessariamente essere realizzati nel rispetto delle previsioni dell’art. 4 novellato in tutti i suoi aspetti e ‘controlli difensivi’ in senso stretto, diretti ad accertare specificamente condotte illecite ascrivibili – in base a concreti indizi – a singoli dipendenti, anche se questo si verifica durante la prestazione di lavoro”; questi ultimi “controlli, anche se effettuati con strumenti tecnologici, non avendo ad oggetto la normale attività del lavoratore”, si situano, ancora oggi, “all’esterno del perimetro applicativo dell’art. 4”; per non avere ad oggetto una “attività –in senso tecnico– del lavoratore”, il controllo “difensivo in senso stretto” deve essere “mirato” ed “attuato ex post”, ossia “a seguito del comportamento illecito di uno o più lavoratori del cui avvenuto compimento il datore abbia avuto il fondato sospetto”, perché solo a partire “da quel momento” il datore può provvedere alla raccolta di informazioni utilizzabili; anche “in presenza di un sospetto di attività illecita”, occorrerà, nell’osservanza della disciplina a tutela della riservatezza del lavoratore, e segnatamente dell’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo come interpretato dalla giurisprudenza della Corte EDU, “assicurare un corretto bilanciamento tra le esigenze di protezione di interessi e beni aziendali, correlate alla libertà di iniziativa economica, rispetto alle imprescindibili tutele della dignità e della riservatezza del lavoratore, con un contemperamento che non può prescindere dalle circostanze del caso concreto”;

ancor più di recente (v. Cass. n. 18168 del 2023), ribaditi i richiamati principi, è stato anche stabilito che se incombe sul datore di lavoro l’onere di allegare prima e provare poi le specifiche circostanze che lo hanno indotto ad attivare il controllo tecnologico ex post, tuttavia, una volta “consegnati al contraddittorio gli elementi che la parte datoriale adduce a fondamento dell’iniziativa di controllo tecnologico, spetterà al giudice valutare, mediante l’apprezzamento delle circostanze del caso, se gli stessi fossero indizi, materiali e riconoscibili, non espressione di un puro convincimento soggettivo, idonei a concretare il fondato sospetto della commissione di comportamenti illeciti”;

2.1.3. rispetto a tale cornice giurisprudenziale, parte ricorrente non individua realmente l’error in iudicando in cui sarebbe incorsa la Corte napoletana, ma piuttosto propone un diverso apprezzamento di merito sia in ordine alla riconducibilità del controllo alla verifica del mero adempimento della prestazione lavorativa, sia avuto riguardo alla concretizzazione nella specie del “fondato sospetto” che, ex post, ha determinato l’attivazione dell’indagine investigativa;

2.2. il secondo motivo è infondato in quanto la sentenza impugnata sul punto è conforme alla giurisprudenza di legittimità, secondo cui: “L’art. 7 della l. n. 300 del 1970 non prevede, nell’ambito del procedimento disciplinare, l’obbligo per il datore di lavoro di mettere a disposizione del lavoratore, nei cui confronti sia stata elevata una contestazione di addebiti di natura disciplinare, la documentazione aziendale relativa ai fatti contestati, restando salva la possibilità per il lavoratore medesimo di ottenere, nel corso del giudizio ordinario di impugnazione del licenziamento irrogato all’esito del procedimento suddetto, l’ordine di esibizione della documentazione stessa.

Il datore di lavoro è tenuto, tuttavia, ad offrire in consultazione all’incolpato i documenti aziendali solo in quanto e nei limiti in cui l’esame degli stessi sia necessario al fine di una contestazione dell’addebito idonea a permettere alla controparte un’adeguata difesa; ne consegue che, in tale ultima ipotesi, il lavoratore che lamenti la violazione di tale obbligo ha l’onere di specificare i documenti la cui messa a disposizione sarebbe stata necessaria al predetto fine” (Cass. n. 27093 del 2018; Cass. n. 23304 del 2010);

2.3. il terzo motivo è inammissibile;

infatti, secondo un risalente e costante insegnamento, il giudizio di proporzionalità tra licenziamento disciplinare e addebito contestato è devoluto al giudice di merito (ex pluribus: Cass. n. 10621 del 2021; Cass. n. 8293 del 2012; Cass. n. 7948 del 2011; Cass. n. 24349 del 2006; Cass. n. 3944 del 2005; Cass. n. 444 del 2003; da ultimo: Cass n. 107 e 8642 del 2024); la valutazione in ordine alla suddetta proporzionalità, implicante inevitabilmente un apprezzamento dei fatti storici che hanno dato origine alla controversia, è ora sindacabile in sede di legittimità soltanto quando la motivazione della sentenza impugnata sul punto manchi del tutto, ovvero sia affetta da vizi giuridici consistenti nell’essere stata essa articolata su espressioni od argomenti tra loro inconciliabili, oppure perplessi ovvero manifestamente ed obiettivamente incomprensibili (in termini v. Cass. n. 14811 del 2020); tale pronuncia ribadisce, poi, che in caso di contestazione circa la valutazione sulla proporzionalità della condotta addebitata – che è il frutto di selezione e di valutazione di una pluralità di elementi – la parte ricorrente, per ottenere la cassazione della sentenza impugnata, non solo non può limitarsi ad invocare una diversa combinazione di detti elementi o un diverso peso specifico di ciascuno di essi, ma con la nuova formulazione del n. 5 dell’art. 360, deve denunciare l’omesso esame di un fatto avente, ai fini del giudizio di proporzionalità, valore decisivo, nel senso che l’elemento trascurato avrebbe condotto ad un diverso esito della controversia con certezza e non con grado di mera probabilità (cfr. Cass. n. 18715 del 2016; Cass. n. 20817 del 2016);

nel caso all’attenzione del Collegio, la sostanza della censura mira a contestare il giudizio di proporzionalità, senza enucleare il fatto decisivo omesso che sarebbe stato trascurato dalla Corte territoriale, nonché a criticare l’apprezzamento della gravità della condotta tenuta in concreto dal lavoratore, ma così si sollecita un sindacato che esonda dai confini del giudizio di legittimità perché spettano inevitabilmente al giudice di merito le connotazioni valutative dei fatti accertati nella loro materialità, nella misura necessaria ai fini della loro riconducibilità – in termini positivi o negativi – all’ipotesi normativa (sui limiti del sindacato di legittimità nelle ipotesi di giusta causa e di giustificato motivo soggettivo di licenziamento si rinvia, ai sensi dell’art. 118, comma 1, disp. att. c.p.c., a Cass. n. 13064 del 2022 ed alla giurisprudenza ivi citata; conf. v. Cass. n. 20780 del 2022);

3. pertanto, il ricorso deve essere respinto nel suo complesso; le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo; ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre altresì dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1- bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020);

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 4.500,00, oltre euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e rimborso spese generali nella misura del 15%.

Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.

 

 

Controlli sui lavoratori e documentazione alla base della contestazione disciplinare
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