La prova del danno non patrimoniale può essere fornita anche mediante presunzioni.

Nota a Cass. (ord.), 10 febbraio 2025, n. 3400

Fabrizio Girolami

In tema di prova del danno da demansionamento, può incidere anche la velocità dell’evoluzione tecnologica del settore cui era addetto il prestatore di lavoro.

È l’importante principio stabilito dalla Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 3400 del 10.02.2025, in relazione alla vicenda di un lavoratore dipendente da un’azienda di telecomunicazioni, quale tecnico altamente specializzato inquadrato nel V livello del CCNL di settore (con mansioni caratterizzate da elevate conoscenze specialistiche, adeguata autonomia e decisionalità da esercitarsi mediante il coordinamento e il controllo delle risorse assegnate ovvero mediante lo svolgimento di compiti specialistici a elevato contenuto tecnico). Egli era, dunque, assegnato a un settore interessato da una rapida e continua evoluzione tecnologica, con conseguente onere dell’azienda datrice di lavoro di attuare le opportune iniziative di “aggiornamento” e “formazione continua”.

Il lavoratore – lamentando di essere stato adibito a mansioni inferiori di call center (appartenente al minore inquadramento del III livello del CCNL) e di non avere ricevuto gli interventi formativi richiesti dall’evoluzione tecnologica del suo settore – aveva agito in giudizio al fine di ottenere una declaratoria di accertamento di demansionamento e dequalificazione, con conseguente richiesta, da un lato, di condanna dell’Azienda a reintegrarlo nelle mansioni precedentemente svolte o in altre equivalenti e, dall’altro, al risarcimento del danno alla professionalità.

Nel giudizio di merito, la Corte d’Appello di Milano, con sentenza n. 1615/2021, a conferma della pronuncia di primo grado del Tribunale della stessa sede, aveva dichiarato l’avvenuto demansionamento e liquidato in via equitativa il danno alla professionalità a favore del lavoratore.

La Cassazione, con l’ordinanza in commento, ha rigettato il ricorso proposto dall’azienda datrice di lavoro, confermando la sentenza impugnata, osservando, in particolare, quanto segue:

  • il giudice del merito, nelle ipotesi in cui si tratta di individuare, ai fini dell’accertamento di un eventuale dequalificazione professionale del lavoratore, la pertinenza delle mansioni svolte in concreto, rispetto a una determinata posizione funzionale, deve seguire un procedimento logico-giuridico che non può prescindere da tre fasi successive, costituite dall’accertamento in fatto delle attività lavorative in concreto svolte, dall’individuazione delle qualifiche e dei gradi previsti dal contratto collettivo di categoria, nonché dal raffronto tra il risultato della prima indagine e le previsioni della normativa contrattuale individuati nella seconda;
  • in tema di dequalificazione professionale, è risarcibile il danno non patrimoniale ogni qual volta si verifichi una grave violazione dei diritti del lavoratore (che costituiscono oggetto di tutela costituzionale) da accertarsi “in base alla persistenza del comportamento lesivo, alla durata e alla reiterazione delle situazioni di disagio professionale e personale, all’inerzia del datore di lavoro rispetto alle istanze del prestatore di lavoro, anche a prescindere da uno specifico intento di declassarlo o svilirne i compiti”. Il relativo onere probatorio grava sul lavoratore il quale può ricorrere alla prova testimoniale o anche alla prova per presunzioni, allegando “elementi indiziari gravi, precisi e concordanti, quali, ad esempio, la qualità e la quantità dell’attività lavorativa svolta, la natura e il tipo della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento e la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione”;
  • nel caso di specie, la Corte territoriale ha correttamente tratto elementi presuntivi della sussistenza del danno dalla qualità delle mansioni svolte, dalla durata del demansionamento subito, dalle modalità dell’inadempimento dell’Azienda (che aveva reiterato la condotta di dequalificazione) nonché dalla “velocità dell’evoluzione tecnologica del settore” cui il dipendente era addetto e di cui era stato in sostanza privato.

Sentenza

CORTE DI CASSAZIONE 10 febbraio 2025, n. 3400

Rilevato che

1.La Corte di appello di Milano, con la sentenza 1615/2021, ha confermato la pronuncia emessa dal Tribunale della stessa sede che, senza svolgimento di attività istruttoria, aveva accolto le domande proposte da G.F. nei confronti di T.I. spa, di cui era dipendente con inquadramento nel V livello, dichiarando l’avvenuto demansionamento dall’1.4.2018 e condannando la società a reintegrarlo nelle mansioni precedentemente svolte o in altre equivalenti e a risarcirgli il danno alla professionalità liquidato equitativamente in euro 13.500,00, oltre accessori.

2. La Corte territoriale, a fondamento della propria decisione, ha rilevato che: a) era pacifico che G.F. fosse inquadrato nel V livello del CCNL; b) ciò che caratterizzava tale livello erano le elevate conoscenze specialistiche, l’adeguata autonomia e decisionalità da esercitarsi o mediante il coordinamento ed il controllo delle risorse assegnate o mediante lo svolgimento di compiti specialistici ad elevato contenuto tecnico; c) raffrontando le allegazioni svolte dalla società e dal lavoratore in relazione alle mansioni svolte in concreto, si evinceva che queste non richiedevano il possesso delle caratteristiche sopra evidenziate né rientravano in quelle della figura dell’operatore specialista in customer care; d) corretta, pertanto, era la statuizione del primo giudice secondo cui i compiti svolti dall’Amadio rientravano in quelli del III livello; e) in ordine al patito danno, il lavoratore aveva soddisfatto l’onere probatorio a suo carico e, considerando vari elementi tra cui una precedente breve durata in una pregressa riassegnazione alle corrette mansioni, la lunga durata del rapporto lavorativo, la competenza professionale in possesso del lavoratore il cui ambito di assegnazione era interessato da una rapida e continua innovazione, il periodo triennale del demansionamento patito, era congrua la quantificazione operata in via equitativa dal primo giudice, pari ad euro 1.000,00 per ogni mese del periodo dequalificazione.

3. Avverso la sentenza di secondo grado T.I. spa ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi cui ha resistito con controricorso G.F.

4. Il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nei termini di legge ex art. 380 bis 1 cpc.

Considerato che

1.I motivi possono essere così sintetizzati.

2. Con il primo motivo si censura la violazione e falsa applicazione degli 2103 e 2697 cc e dell’art. 115 cpc, in relazione all’art. 360 n. 1 cpc, per avere errato la Corte territoriale nell’avere ritenuto che le mansioni svolte dall’Amodio, come descritte nell’atto introduttivo del giudizio, fossero simili a queHe emerse dalle allegazioni di essa società, quando, invece, erano diverse perché le attività espletate dall’originario ricorrente r;,on erano di semplice risposta al call center ovvero di attività svolte secondo iter definiti, bensì richiedevano conoscenze di natura tecnica di un certo spessore, e per avere errato la Corte territoriale nella individuazione dei compiti relativi alla declaratoria contrattuale del V livello caratterizzato non da una autonomia piena, ma da una autonomia di carattere operativo, così come emergeva nella descrizione dell’Operatore specialista di customer care che era stata scambiata, invece, con quella del Tecnico programmatore.

3. Il motivo non è meritevole di accoglimento presentando profili di inammissibilità e di infondatezza.

4. è infondato nella parte in cui si denuncia, in pratica, un erroneo giudizio di sussunzione del fatto (mansioni assegnate al lavoratore) nella ipotesi contrattuale collettiva (nel terzo livello e non nel quinto).

5. Invero, l’accertamento espletato dalla Corte di appello per la determinazione dell’inquadramento spettante al lavoratore risulta conforme agli insegnamenti di questa Corte che ha chiarito come il giudice del merito, allorché  si  tratti  di  individuare,  ai  fini dell’accertamento di un eventuale demansionamento, la pertinenza delle mansioni svolte in concreto, rispetto ad una determinata posizione funzionale, deve seguire un procedimento logico-giuridico che non può prescindere da tre fasi successive, costituite dall’accertamento in fatto delle attività lavorative in concreto svolte, dalla individuazione delle qualifiche e dei gradi previsti dal contratto collettivo di categoria, nonché dal raffronto tra il risultato della prima indagine e le previsioni della normativa contrattuale individuati nella seconda (Cass. n. 7123/2014; Cass. n. 20272/2010).

6. Nel caso concreto, la valutazione compiuta dal giudice di secondo grado si sottrae alle censure che le sono state mosse, atteso che la Corte distrettuale ha valutato compiutamente il contenuto professionale delle mansioni in concreto assegnate al dipendente non cogliendo (a prescindere dal richiamo non corretto alla qualifica di Operatore specialista di customer care, nelle stesse, i tratti qualificanti del V livello (id est quello dei lavoratori che«[… ] svolgono funzioni per l’espletamento delle quali è richiesta adeguata autonomia e decisionalità nei limiti dei principi, norme e procedure[ … ] esercitate attraverso [ ….] ovvero mediante lo svolgimento di compiti specialistici di elevata tecnicalità»), rispetto a quelli del III livello, in particolare, evidenziando, che tanto nelle mansioni in concreto svolte quanto nella declaratoria del predetto terzo livello erano del tutto assenti il carattere dell’autonomia e la funzione di controllo e gestione delle risorse nonché la elevata specialità e tecnicalità dei compiti e precisando che: a) le mansioni assegnate non richiedevano elevate conoscenze specialistiche tenuto conto della procedimentalizzazione della lavorazione delle chiamate dell’utenza è del preponderante utilizzo di software in grado di effettuare la individuazione dei malfunzionamenti in modo del tutto autonomo rispetto all’operatore; b) il lavoratore, senza alcuna autonomia, seguiva un protocollo rigidamente standardizzato; c) l’Amodio non era chiamato a svolgere attività di coordinamento e controllo delle risorse assegnate, non risultando che fosse a capo di un gruppo di operatori e potesse intervenire attivamente sugli apparati tecnici utilizzati.

7. Sono, invece, inammissibili le doglianze, ancorché proposte in termini di violazione di legge, che si sostanziano, almeno per ciò che riguarda i profili sviluppati in ordine alla natura e consistenza dei compiti svolti dal lavoratore, nella critica della ricostruzione fattuale operata dalla Corte territoriale, censurandosi la valutazione del materiale probatorio; in parte qua, dunque, le censure configurano vizi di motivazione. Tuttavia, seppure diversamente qualificate, non indicano, nei termini rigorosi richiesti dal vigente testo del predetto art. 360 nr. 5 cod. proc. civ. (applicabile alla fattispecie), il «fatto storico», non esaminato, che abbia costituito oggetto di discussione e che abbia carattere decisivo (Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053), sicché si arrestano al rilievo di inammissibilità.

8. Con il secondo motivo si censura la violazione e falsa applicazione degli artt. 1223, 2103, 2697 cc e dell’art. 115 cpc criticando la quantificazione del danno alla professionalità riconosciuto all’Amadio in relazione alle sue conoscenze e nozioni tecniche, andate asseritamente distrutte per effetto dell’adibizione a mansioni diverse ed inferiori e con riguardo al parametro di liquidazione individuato in modo irragionevole e superiore al parametro solitamente riconosciuto pari ad una percentuale ben più ridotta della retribuzione mensile prevista per il livello contrattuale di appartenenza.

9. Anche tale motivo non è fondato.

10. In tema di dequalificazione professionale, è risarcibile il danno non patrimoniale ogni qual volta si verifichi una grave violazione dei diritti del lavoratore, che costituiscono oggetto di tutela costituzionale, da accertarsi in base alla persistenza del comportamento lesivo, alla durata e alla reiterazione delle situazioni di disagio professionale e personale, all’inerzia del datore di lavoro rispetto alle istanze del prestatore di lavòro, anche a prescindere da uno specifico intento di declassarlo o svilirne i compiti. La relativa prova spetta al lavoratore, il quale tuttavia non deve necessariamente fornirla per testimoni, potendo anche allegare elementi indiziari gravi, precisi e concordanti, quali, ad esempio, la qualità e la quantità dell’attività lavorativa svolta, la natura e il tipo della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento e la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione (Cass. n. 24585/2019; Cass. n. 21/2019).

11. Nel caso in esame, le statuizioni della Corte territoriale sono in linea con i principi di legittimità sopra menzionati, avendo i giudici di seconde cure correttamente tratto elementi presuntivi della sussistenza del danno dalla qualità delle mansioni svolte, dalla durata del demansionamento subito, dalle modalità dell’inadempimento della società (che aveva reiterato la condotta di dequalificazione) nonché dalla velocità dell’evoluzione tecnologica del settore cui il dipendente era addetto e di cui era stato in sostanza privato.

12. Quanto alle censure sul criterio di quantificazione del danno, determinato dai giudici di merito in euro 1.000,00 per ogni mese del periodo di dequalificazione, va osservato che si tratta di liquidazione equitativa che è suscettibile di rilievi in sede di legittimità sotto il profilo del vizio di motivazione, solo se difetti totalmente di giustificazione o si discosti sensibilmente  dai  dati  di  comune esperienza, o sia fondata su criteri incongrui rispetto al caso concreto o radicalmente contraddittori, ovvero se l’esito della loro applicazione risulti particolarmente sproporzionato per eccesso o per difetto: ipotesi, queste, non ravvisabili nella fattispecie ove la misura dell’importo mensile è stato ancorato alla oggettiva differenza tra le mansioni cui il lavoratore era stato adibito prima dell’aprile del 2018 con quelle successive, in un contesto in cui si trattava di una nuova riassegnazione a mansioni di livello inferiore dopo un adempimento di un ordine giudiziale di riassegnazione alle corrette mansioni.

13. Alla stregua di quanto esposto, il ricorso deve essere rigettato.

14. Al rigetto segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano come da dispositivo, con distrazione.

15. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti processuali, sempre come da dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro 3.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge, con distrazione in favore dei Difensori del controricorrente. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Danno da demansionamento, velocità dell’evoluzione tecnologica del settore e formazione
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