Nel pubblico impiego contrattualizzato, l’autorizzazione della PA è necessaria perché il dipendente possa prestare lavoro straordinario. Tuttavia, ex art. 2126 c.c., quando la prestazione straordinaria è svolta in coerenza con la volontà datoriale, la stessa va remunerata ex art. 36 Cost.

Nota a Cass. (ord.) 26 febbraio 2025, n. 4984

Daniele Magris

“In tema di pubblico impiego contrattualizzato, il dipendente ha diritto al pagamento della prestazione per lavoro straordinario, ove sia resa con il consenso, anche implicito, del datore di lavoro o di chi abbia il potere di conformarla e, comunque, non insciente o prohibente domino o in modo coerente con la volontà del soggetto preposto, ben potendo l’esecuzione di detta prestazione essere dimostrata anche tramite testi, a prescindere da quanto previsto dall’art. 3, comma 83, della legge n. 244 del 2007, in base al quale le pubbliche amministrazioni non possono erogare compensi per lavoro straordinario se non previa attivazione dei sistemi di rilevazione automatica delle presenze”. L’esecuzione della prestazione, inoltre, può essere “dimostrata anche tramite testi, a prescindere da quanto previsto dall’art. 3, comma 83, della legge n. 244 del 2007, in base al quale le pubbliche amministrazioni non possono erogare compensi per lavoro straordinario se non previa attivazione dei sistemi di rilevazione automatica delle presenze” (v. anche Cass. 21 febbraio 2025, n. 4574, secondo cui in materia di retribuzione per il lavoro straordinario, il compenso è dovuto anche senza autorizzazione formale, se svolto con il consenso implicito dell’Amministrazione. Per la Corte, “semmai il tema si sposta sul piano della responsabilità, nei confronti della PA, dei preposti che non avrebbero in ipotesi dovuto consentire quelle lavorazioni, ma non può ammettersi che il sistema giuridico, contro il disposto di norme centrali di esso, sia alla fine declinato in pregiudizio del prestatore di lavoro straordinario che abbia svolto l’attività sua propria ed alla cui tutela sono di presidio i principi costituzionali”).

Così, la Corte di Cassazione (ord. 26 febbraio 2025, n. 4984) la quale specifica che è pur vero che nell’ambito del D.Lgs. n. 165/2001, il diritto al compenso per il lavoro straordinario svolto presuppone, di necessità, la previa autorizzazione dell’amministrazione (v. art. 2108 c.c. interpretato alla luce degli artt. 2 e 40, D.LGS. n. 165/2001 e dell’art. 97 Cost.), “poiché essa implica la valutazione della sussistenza delle ragioni di interesse pubblico che impongono il ricorso a tali prestazioni e comporta, altresì, la verifica della compatibilità della spesa con le previsioni di bilancio” (Cass., n. 2509/2017). Dal che consegue che l’autorizzazione della P.A., in quanto necessaria perché il dipendente possa prestare lavoro straordinario, costituisce un elemento costitutivo della pretesa del lavoratore che agisca per il suo pagamento e, pertanto, deve essere da lui allegata e dimostrata.

Nondimeno, ai sensi dell’art. 2126 c.c., una prestazione, come quella di lavoro straordinario, quando sia svolta in modo coerente con la volontà del datore di lavoro, o comunque di chi abbia il potere di conformare la stessa, va “remunerata a prescindere dalla validità della richiesta o dal rispetto delle regole sulla spesa pubblica, dovendosi dare la prevalenza alla necessità di attribuire il corrispettivo al dipendente, in linea con il disposto dell’art. 36 Cost.” (Cass., n. 17912/2024). Più specificamente, nel pubblico impiego contrattualizzato, il diritto al compenso per il lavoro straordinario svolto (che, come detto, presuppone la previa autorizzazione dell’amministrazione) spetta al lavoratore anche laddove la richiesta autorizzazione risulti illegittima e/o contraria a disposizioni del contratto collettivo.

 Sentenza

 CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 26 febbraio 2025, n. 4984

Lavoro – Remunerazione ore spese per il tragitto casa lavoro e viceversa – Retribuzione per 20 minuti di lavoro straordinario per giornata lavorativa – Risarcimento del danno – Indennità per mancata messa a disposizione di acqua potabile, servizi igienici e rifugio a uso spogliatoio – Pubblico impiego contrattualizzato – Accoglimento parziale

Svolgimento del processo

M.S., dipendente dell’A. Puglia dal 17 maggio 2010, con qualifica di operaio specializzato IV livello CCNL di settore, ha chiesto al Tribunale di Foggia di accertare l’inadempimento dell’A. Puglia (da ora, solo A.), sua datrice di lavoro, e la condanna della stessa a pagare, per il periodo dal febbraio 2015 al giugno 2020, di € 17.244,44 a titolo di remunerazione delle ore spese per il tragitto casa lavoro e viceversa e di retribuzione per 20 minuti di lavoro straordinario per giornata lavorativa, oltre al risarcimento del danno o a un’indennità per la mancata messa a disposizione di acqua potabile, servizi igienici e rifugio a uso spogliatoio, determinati in € 1.000,00 per ogni anno di lavoro dal 2015 in poi.

Il Tribunale di Foggia, nel contraddittorio delle parti, con sentenza n. 346/2023, ha accolto il ricorso limitatamente alla domanda concernente gli straordinari, quantificando la somma dovuta in € 3.380,50.

M.S. ha proposto appello, chiedendo il risarcimento del danno di cui sopra, nella misura di € 1.000,00 per anno a decorrere dal 2015.

L’A. ha pure proposto appello.

La Corte d’appello di Bari, riunite le impugnazioni, con sentenza n. 2397/2013, ha rigettato entrambe le impugnazioni.

L’A. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di due motivi e ha depositato memoria.

M.S. non ha svolto difese.

Motivi della decisione

1) Con il primo motivo la parte ricorrente lamenta la nullità della sentenza per violazione del principio iura novit curia ex art. 113 c.p.c. e dell’art. 345, comma 2, c.p.c., nonché la motivazione assente, apparente, manifestamente e irriducibilmente contraddittoria.

Contesta la circostanza che il giudice di appello abbia ritenuto tardiva e nuova la sua allegazione difensiva, avvenuta, per la prima volta, in appello, dell’assenza di autorizzazione dello straordinario riconosciuto al dipendente.

Sostiene, sul punto, che si sarebbe trattato di una mera difesa e non di un’eccezione in senso stretto, concernendo la contestazione di fatti posti da controparte a fondamento del suo diritto e il mancato rispetto dell’art. 3, comma 83, della legge n. 244 del 2007.

La censura è in parte inammissibile e in parte fondata.

Di certo, è inammissibile nella misura in cui riguarda il vizio motivazionale, considerato che la Corte d’appello di Bari ha chiaramente esplicitato le ragioni della sua decisione.

Peraltro, è fondata ove è prospettata una violazione dell’art. 345, comma 2, c.p.c.

La S.C. ha chiarito che si ha domanda nuova – inammissibile in appello – per modificazione della causa petendi quando i nuovi elementi, dedotti dinanzi al giudice di secondo grado, comportino il mutamento dei fatti costitutivi del diritto azionato, modificando l’oggetto sostanziale dell’azione e i termini della controversia, in modo da porre in essere una pretesa diversa, per la sua intrinseca essenza, da quella fatta valere in primo grado e sulla quale non si è svolto in quella sede il contraddittorio (Cass., SU, n. 15408 del 15 ottobre 2003; Cass., Sez. L, n. 15506 del 23 luglio 2015).

In particolare, nel rito del lavoro, la preclusione in appello di un’eccezione nuova sussiste nel solo caso in cui la stessa, essendo fondata su elementi e circostanze non prospettati nel giudizio di primo grado, abbia introdotto in sede di gravame un nuovo tema d’indagine, così alterando i termini sostanziali della controversia e determinando la violazione del principio del doppio grado di giurisdizione (Cass., Sez. L, n. 2271 del 2 febbraio 2021).

Pertanto, costituisce domanda nuova, non proponibile per la prima volta in appello, quella che, alterando anche uno soltanto dei presupposti della domanda iniziale, introduca una causa petendi fondata su situazioni giuridiche non prospettate in primo grado, inserendo nel processo un nuovo tema di indagine, sul quale non si sia formato in precedenza il contraddittorio (Cass., Sez. 6-L, n. 23415 del 27 settembre 2018).

Occorre accertare, quindi, se l’appello della P.A. presentasse elementi tali di novità da rendere “nuova” la sua difesa, nel senso di snaturare le allegazioni di primo grado al punto da modificare in senso “sostanziale” i termini della controversia.

Oggetto dell’azione del lavoratore, per quel che qui interessa, era la sua pretesa a ottenere il riconoscimento del lavoro straordinario svolto e il pagamento della relativa retribuzione.

L’A. ha contestato in primo grado questa domanda nel merito e, in seguito all’accoglimento della stessa, ha proposto appello, lamentando l’assenza di prova documentale dello straordinario reso e della necessaria autorizzazione.

Per stabilire se il motivo di gravame dell’A. fosse inammissibile bisogna verificare se esso esulasse dai termini della controversia.

Al riguardo, deve tenersi conto che, tradizionalmente, si è affermato, sino a pochi anni fa, che, in tema di pubblico impiego contrattualizzato (non sono più in discussione la natura di P.A., a sensi del d.lgs. n. 165 del 2001, della parte ricorrente e il carattere privatistico del rapporto di lavoro), il diritto al compenso per il lavoro straordinario svolto presuppone, di necessità, la previa autorizzazione dell’amministrazione, poiché essa implica la valutazione della sussistenza delle ragioni di interesse pubblico che impongono il ricorso a tali prestazioni e comporta, altresì, la verifica della compatibilità della spesa con le previsioni di bilancio (Cass., Sez. L, n. 2509 del 31 gennaio 2017).

Peraltro, la S.C. ha precisato, in tempi più recenti, il suo precedente orientamento, chiarendo che, in tema di pubblico impiego privatizzato, il disposto dell’art. 2126 c.c. non si pone in contrasto con le previsioni della contrattazione collettiva che prevedono autorizzazioni o con le regole normative sui vincoli di spesa, ma è integrativo di esse nel senso che, quando una prestazione, come quella di lavoro straordinario, è stata svolta in modo coerente con la volontà del datore di lavoro o comunque di chi abbia il potere di conformare la stessa, essa va remunerata a prescindere dalla validità della richiesta o dal rispetto delle regole sulla spesa pubblica, dovendosi dare la prevalenza alla necessità di attribuire il corrispettivo al dipendente, in linea con il disposto dell’art. 36 Cost. (Cass., Sez. L, n. 17912 del 28 giugno 2024).

Ciò perché, in tema di pubblico impiego contrattualizzato, il diritto al compenso per il lavoro straordinario svolto, che presuppone la previa autorizzazione dell’amministrazione, spetta al lavoratore anche laddove la richiesta autorizzazione risulti illegittima e/o contraria a disposizioni del contratto collettivo, atteso che l’art. 2108 c.c., applicabile anche al pubblico impiego contrattualizzato, interpretato alla luce degli artt. 2 e 40 del d.lgs. n. 165 del 2001 e dell’art. 97 Cost., prevede il diritto al compenso per lavoro straordinario se debitamente autorizzato e che, dunque, rispetto ai vincoli previsti dalla disciplina collettiva, la presenza dell’autorizzazione è il solo elemento che condiziona l’applicabilità dell’art. 2126 c.c. (Cass., Sez. L, n. 23506 del 27 luglio 2022).

Dalla giurisprudenza menzionata, emerge come, nel pubblico impiego contrattualizzato, l’autorizzazione della P.A. sia necessaria perché il dipendente possa prestare lavoro straordinario.

Si tratta, quindi, di un elemento costitutivo della pretesa del lavoratore che agisca per il suo pagamento e che, pertanto, deve essere da lui allegato e dimostrato.

Non può sostenersi, allora, che la P.A. non potesse contestare in appello l’assenza di prova dell’autorizzazione, in quanto si trattava di un elemento che avrebbe dovuto essere allegato e provato dal ricorrente originario e la cui sussistenza avrebbe dovuto essere verificata d’ufficio dal giudice.

Non avendo il Tribunale di Foggia operato il necessario accertamento, ben poteva l’A. chiedere alla Corte d’appello di Bari di compierlo.

D’altronde, la P.A. ha sempre negato, anche in appello, la spettanza all’intimato del diritto allo straordinario, il che comporta che il tema della sua autorizzazione non era certo nuovo in appello, tanto che, in ordine all’an della pretesa del dipendente, non si era ancora formato il giudicato.

Ne consegue l’accoglimento parziale del motivo.

2) Con il secondo motivo la P.A. ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2 e 40 del d.lgs. n. 165 del 2001 e dell’art. 3, comma 83, della legge n 244 del 2007 e dell’art. 97 Cost., perché la corte territoriale avrebbe considerato prova valida del lavoro straordinario le risultanze di alcune testimonianze, senza rilevare che non vi erano agli atti i tabulati estratti dalle rilevazioni dei cartellini marcatempo o dei fogli di presenza debitamente controfirmati ai sensi dell’art. 3, comma 83, della legge n. 244 del 2007.

Inoltre, contesta l’assenza di ogni provvedimento di autorizzazione del lavoro straordinario.

La censura è assorbita dall’accoglimento parziale del primo motivo di ricorso in ordine alla questione dell’autorizzazione.

Per il resto è, invece, infondata.

L’art. 3, comma 83, della legge n. 244 del 2007 prescrive, in effetti, che “Le pubbliche amministrazioni non possono erogare compensi per lavoro straordinario se non previa attivazione dei sistemi di rilevazione automatica delle presenze”.

Peraltro, a prescindere dalla circostanza che non risulta allegato che, per il periodo oggetto di causa (dal 2015 al 2020) detti sistemi fossero stati installati, si evidenzia che la giurisprudenza è ormai orientata nel senso che, in tema di pubblico impiego privatizzato, il riconoscimento del diritto a prestazioni “aggiuntive” – ai sensi dell’art. 1 d.l. n. 402 del 2001, conv., con mod., dalla legge n. 1 del 2002 – è subordinato al ricorrere dei presupposti dell’autorizzazione regionale, della presenza in capo ai lavoratori di requisiti soggettivi e della determinazione tariffaria; tuttavia, pur in mancanza dei menzionati presupposti, l’attività lavorativa oltre il debito orario comporta il diritto al compenso per lavoro straordinario nella misura prevista dalla contrattazione collettiva, purché sussista il consenso datoriale che, comunque espresso, è il solo elemento che condiziona l’applicabilità dell’art. 2126 c.c., in relazione all’art. 2108 c.c., a nulla rilevando il superamento dei limiti e delle regole riguardanti la spesa pubblica, che determina, però, la responsabilità dei funzionari verso la pubblica amministrazione (Cass., Sez. L, n. 18063 del 23 giugno 2023).

Ciò è confermato dalla giurisprudenza per la quale, in tema di pubblico impiego privatizzato, il disposto dell’art. 2126 c.c. non si pone in contrasto con le previsioni della contrattazione collettiva che prevedono autorizzazioni o con le regole normative sui vincoli di spesa, ma è integrativo di esse nel senso che, quando una prestazione, come quella di lavoro straordinario, è stata svolta in modo coerente con la volontà del datore di lavoro o comunque di chi abbia il potere di conformare la stessa, essa va remunerata a prescindere dalla validità della richiesta o dal rispetto delle regole sulla spesa pubblica, dovendosi dare la prevalenza alla necessità di attribuire il corrispettivo al dipendente, in linea con il disposto dell’art. 36 Cost. (Cass., Sez. L, n. 17912 del 28 giugno 2024).

Da quanto sopra, si evince che, purché vi sia un consenso del datore di lavoro, anche se prestato in maniera non formalmente corretta, il lavoro straordinario va pagato.

L’eventuale violazione di normativa concernente la regolarità della richiesta o i limiti di spesa pubblica si può tradurre in una responsabilità contabile di chi lo straordinario abbia consentito, ma non in un danno per il lavoratore che la sua prestazione abbia reso.

Ne deriva che l’eventuale mancato rispetto del disposto dell’art. 3, comma 83, della legge n. 244 del 2007 non assume rilievo, così come la prova del lavoro straordinario poteva ben essere data a mezzo testi.

3) Il ricorso è accolto quanto al primo motivo, nei termini di cui in motivazione, mentre il secondo è assorbito in ordine al problema dell’autorizzazione e rigettato per il resto.

La sentenza impugnata è cassata, con rinvio alla Corte d’appello di Bari, in diversa composizione, la quale deciderà la causa nel merito, anche in ordine alle spese di lite, in applicazione dei seguenti principi di diritto:

“In tema di pubblico impiego contrattualizzato, il lavoratore ha diritto al pagamento della prestazione resa per lavoro straordinario nella misura prevista dalla contrattazione collettiva, ove sia eseguita con il consenso, anche implicito, del datore di lavoro o di chi abbia il potere di conformare la relativa prestazione e, comunque, non insciente o prohibente domino o in modo coerente con la volontà del soggetto preposto, a prescindere dalla validità della richiesta o dal rispetto dei limiti e delle regole sulla spesa pubblica, che possono incidere, eventualmente, sulla responsabilità dei funzionari verso la pubblica amministrazione, atteso che tale consenso è il solo elemento che condiziona l’applicabilità dell’art. 2126 c.c., in relazione all’art. 2108 c.c.”;

“In tema di pubblico impiego contrattualizzato, il dipendente ha diritto al pagamento della prestazione per lavoro straordinario, ove sia resa con il consenso, anche implicito, del datore di lavoro o di chi abbia il potere di conformarla e, comunque, non insciente o prohibente domino o in modo coerente con la volontà del soggetto preposto, ben potendo l’esecuzione di detta prestazione essere dimostrata anche tramite testi, a prescindere da quanto previsto dall’art. 3, comma 83, della legge n. 244 del 2007, in base al quale le pubbliche amministrazioni non possono erogare compensi per lavoro straordinario se non previa attivazione dei sistemi di rilevazione automatica delle presenze”.

P.Q.M.

– Accoglie il ricorso per quanto di ragione;

– Cassa la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’appello di Bari, in diversa composizione, la quale deciderà la causa nel merito, anche quanto alle spese di legittimità.

Lavoro straordinario e autorizzazione della pubblica amministrazione
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