La posta elettronica e i messaggi WhatsApp operano secondo modalità e procedure che soddisfano il requisito di segretezza, in funzione del quale è riconosciuta a tutti consociati la tutela di cui all’art. 15 Cost. Pertanto, anche nel caso in cui venga diffuso il contenuto di un messaggio offensivo per il datore di lavoro, ciò non legittima il licenziamento del lavoratore che lo abbia inviato ad un gruppo di altri dipendenti facenti parte della chat Whatsapp.

Nota a Cass. 6 marzo 2025, n. 5936

Flavia DurvalLa Corte di Cassazione (6 marzo 2025, n. 5936) si è pronunziata su una fattispecie concernente l’invio di un messaggio, da parte di un lavoratore, mediante una chat WathsApp denominata “Amici di lavoro”, cui partecipavano complessivamente 14 dipendenti, tra i quali il lavoratore stesso, contenente frasi offensive nei confronti di un superiore gerarchico. Il messaggio è stato successivamente diffuso a soggetti esterni alla chat, quali il datore di lavoro.

I giudici richiamano il precedente di Cass. n. 21965/2018, secondo la quale “in tema di licenziamento disciplinare, i messaggi scambiati in una chat privata, seppure contenenti commenti offensivi nei confronti della società datrice di lavoro, non costituiscono giusta causa di recesso poiché, essendo diretti unicamente agli iscritti ad un determinato gruppo e non ad una moltitudine indistinta di persone, vanno considerati come la corrispondenza privata, chiusa e inviolabile, e sono inidonei a realizzare una condotta diffamatoria in quanto, ove la comunicazione con più persone avvenga in un ambito riservato, non solo vi è un interesse contrario alla divulgazione, anche colposa, dei fatti e delle notizie ma si impone l’esigenza di tutela della libertà e segretezza delle comunicazioni stesse”.

Ritenuto, in linea con la Corte di Appello di Firenze, che i suddetti messaggi non legittimassero il licenziamento del lavoratore, in quanto la condotta contestata al dipendente è riconducibile alla libertà, costituzionalmente garantita, di comunicare riservatamente, la Cassazione ha precisato che:

– l’art. 15 Cost., co.1, definisce inviolabili “la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione” (collocando la libertà di comunicare riservatamente accanto alla libertà nella sua dimensione spaziale – art. 14 – e alla libertà personale – art. 13 -, quali presidi della dignità della persona umana – art. 2 -);

– l’elemento costitutivo della libertà di comunicare con altri soggetti consiste nella determinatezza dei destinatari “ed esige che la comunicazione, nel suo aspetto dinamico, non sia in alcun modo impedita od ostacolata”; mentre “la segretezza si rivolge all’animus del mittente, alla sua volontà che soggetti diversi dai destinatari determinati non prendano conoscenza del contenuto della comunicazione”;

– la Corte Costituzionale (n. 170/2023), premesso che quello di «corrispondenza» è concetto «ampiamente comprensivo, atto ad abbracciare ogni comunicazione di pensiero umano (idee, propositi, sentimenti, dati, notizie) tra due o più persone determinate, attuata in modo diverso dalla conversazione in presenza», ha statuito che la tutela accordata dall’art. 15 Cost. “prescinde dalle caratteristiche del mezzo tecnico utilizzato ai fini della trasmissione del pensiero, aprendo così il testo costituzionale alla possibile emersione di nuovi mezzi e forme della comunicazione riservata» (v. anche Corte Cost. n. 2/2023) e che la «garanzia si estende […] ad ogni strumento che l’evoluzione tecnologica mette a disposizione a fini comunicativi, compresi quelli elettronici e informatici, ignoti al momento del varo della Carta costituzionale”;

– sulla base di tali principi, i giudici hanno affermato che “la posta elettronica e messaggi inviati tramite l’applicazione WhatsApp (appartenente ai sistemi di cosiddetta messaggistica istantanea) rientrano a pieno titolo nella sfera di protezione dell’art. 15 Cost., apparendo del tutto assimilabili a lettere o biglietti chiusi. La riservatezza della comunicazione, che nella tradizionale corrispondenza epistolare è garantita dall’inserimento del plico cartaceo o del biglietto in una busta chiusa, è qui assicurata dal fatto che la posta elettronica viene inviata a una specifica casella di posta, accessibile solo al destinatario tramite procedure che prevedono l’utilizzo di codici personali; mentre il messaggio WhatsApp, spedito tramite tecniche che assicurano la riservatezza, è accessibile solo al soggetto che abbia la disponibilità del dispositivo elettronico di destinazione, normalmente protetto anch’esso da codici di accesso o altri meccanismi di identificazione”;

– anche la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ha ricondotto nell’ambito della protezione dell’art. 8 CEDU – ove si fa riferimento alla «corrispondenza» tout court – i messaggi di posta elettronica (Corte EDU, grande camera, sentenza 5 settembre 2017, B. contro Romania, paragrafo 72; Corte EDU, sezione quarta, sentenza 3 aprile 2007, C. contro Regno Unito, paragrafo 41), gli SMS (Corte EDU, sezioni quinta, sentenza 17 dicembre 2020, S. contro Norvegia, paragrafo 48) e la messaggistica istantanea inviata e ricevuta tramite internet (Corte EDU, Grande Camera, sentenza B, cit., paragrafo 74;

– quanto limiti temporali finali della tutela assicurata dall’art. 15 Cost., secondo la Corte Cost. la norma costituzionale garantisce alla generalità dei cittadini la libertà e la segretezza della corrispondenza “anche dopo la ricezione da parte del destinatario, almeno fino a quando, per il decorso del tempo, essa non abbia perso ogni carattere di attualità, in rapporto all’interesse alla sua riservatezza, trasformandosi in un mero documento “storico”» (conf. la Corte europea dei diritti dell’uomo (cit.) che ha ricondotto alla nozione di «corrispondenza» tutelata dall’art. 8 CEDU anche i messaggi informatico-telematici nella loro dimensione “statica”, ossia già avvenuti (in tal senso v. anche Cass. pen. n. 25549/2024);

– in questo quadro, è indubbio che la condotta contestata in via disciplinare al prestatore. rientri nel raggio di protezione dell’art. 15 Cost., posto che il messaggio, diversamente da quanto avviene con facebook), è stato inviato a persone determinate, facenti parte della chat ristretta di taluni colleghi di lavoro, “e le caratteristiche tecniche del mezzo di comunicazione adoperato, WathsApp, riflettono in modo inequivoco la volontà della mittente di escludere terzi dalla conoscenza del messaggio e soddisfano il requisito di segretezza della corrispondenza”;

– peraltro, la violazione della segretezza della comunicazione, attraverso la rivelazione del contenuto al datore di lavoro, non è avvenuta ad opera di terzi estranei, bensì ad opera di uno dei suoi partecipanti, compreso tra i destinatari del messaggio in questione;

– la società ricorrente ha appreso il contenuto della corrispondenza, destinata a rimanere segreta, su iniziativa di uno dei destinatari della stessa ed ha contestato e qualificato come giusta causa di licenziamento esclusivamente il contenuto della comunicazione inviata dal lavoratore tramite WathsApp e col suo telefono privato ai colleghi di lavoro, partecipanti alla chat;

– la manifestazione del pensiero attuata attraverso le moderne vie di comunicazione elettronica, (assimilabili, secondo la Corte Costituzionale, a una lettera inserita in una busta chiusa) è stata considerata dal datore di lavoro come condotta riprovevole. Ed il contenuto del messaggio, inviato a persone determinate e destinato a rimanere segreto, è divenuto ragione del recesso. Ma tale potere sanzionatorio di tipo meramente morale non rientra tra le prerogative datoriali e non è tale da comprimere o limitare spazi di libertà costituzionalmente protetti, come quello concernente la corrispondenza privata. La garanzia della libertà e segretezza della corrispondenza privata e il diritto alla riservatezza nel rapporto di lavoro impediscono cioè di “elevare a giusta causa di licenziamento il contenuto in sé delle comunicazioni private del lavoratore, trasmesse col telefono personale a persone determinate e con modalità significative dell’intento di mantenere segrete le stesse, a prescindere dal mezzo e dai modi con cui il datore di lavoro ne sia venuto a conoscenza”.

Sentenza 

CORTE DI CASSAZIONE 6 marzo 2025, n. 5936

Lavoro – Licenziamento – Reintegrazione – Indennità risarcitoria – Chat di WhatsApp – Contenuti offensivi riferiti al team leader – Comunicazione privata – Articolo 15 Cost. – Numero ristretto di persone – Rigetto

Fatti di causa

La Corte di appello di Firenze aveva rigettato l’appello proposto dalla società F. S.r.l. avverso la decisione con cui il locale tribunale aveva ritenuto illegittimo il licenziamento intimato a F.C. con lettera del 4.9.2018, condannando la società a reintegrare il dipendente con il pagamento dell’indennità risarcitoria dal dì del licenziamento a quello della reintegrazione.

La Corte territoriale aveva ritenuto che la contestazione – relativa all’aver il dipendente registrato su una chat di WhatsApp denominata “Amici di lavoro” alla quale partecipavano con lui altri 13 colleghi, alcuni messaggi vocali riferiti al superiore gerarchico team leader (H.Y.) con contenuti offensivi, denigratori, minatori e razzisti -, non avesse considerato che i messaggi in questione erano stati inviati ad un gruppo limitato di persone e fosse quindi da considerarsi quale comunicazione privata tutelata dall’art. 15 Cost.

Riteneva quindi tale forma di comunicazione non assimilabile ad altra ipotesi, quale la pubblicazione su bacheca “Facebook”, essendo, quest’ultimo, un sistema invece accessibile a un numero indeterminato di persone.

La Corte escludeva, inoltre, che fosse riscontrabile una condotta diffamatoria in quanto le parole utilizzate erano indirizzate ad un gruppo ristretto di persone, sicché le espressioni adoperate non erano destinate ad essere divulgate, considerato altresì il mezzo utilizzato.

Il giudice d’appello, pur consapevole della delicata situazione costituita da uno strumento di comunicazione che, pur originariamente a numero chiuso, si presti ad essere facilmente replicato ed esteso anche all’esterno del nucleo originario dei partecipanti, richiamava la specifica contestazione mossa al dipendente ritenendo che tale evenienza ulteriore non era ricompresa nell’addebito originario e dunque era circostanza estranea al contendere.

Avverso detta decisione F. S.r.l. proponeva ricorso affidato a quattro motivi coltivati anche con successiva memoria.

Il lavoratore rimaneva intimato.

La Procura Generale concludeva per il rigetto del ricorso.

All’adunanza camerale del 22.5.2024 il collegio, valutatane la opportunità, rimetteva la causa alla pubblica udienza e, in data odierna, in tale sede decideva.

Ragioni della decisione

1) – Con primo motivo è dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 15 Cost. in tema di segretezza della corrispondenza sia per carenza di attività di indagine conoscitiva da parte dell’azienda, sia per insussistenza di valida distinzione tra comunicazione mediante chat riservata e comunicazione ad un gruppo indefinito di persone.

La società lamenta l’errata valutazione circa l’avvenuta violazione dell’art. 15 Cost., posto a tutela della segretezza della corrispondenza.

In particolare, nega di aver svolto indagini attive e intrusive volte a conoscere il contenuto della chat in questione, avendone avuta conoscenza per opera di altri dipendenti e, rimarca che la contestazione disciplinare mirava a tutelare e difendere l’onore del dirigente oggetto delle frasi in questione.

Soggiunge, peraltro, che in successivi messaggi vocali inviati al responsabile delle risorse umane e al responsabile del magazzino, il C. aveva confermato di aver pronunciato le frasi in questione (pur spiegando che il senso dato alle frasi era diverso da quello a lui attribuito).

La società inoltre lamenta l’omessa considerazione di circostanze di fatto, quali l’assenza di una attività direttamente intrusiva nella chat e la diffusione dei messaggi ad opera di un destinatario, elemento, quest’ultimo, che doveva far escludere ogni violazione dell’eventuale iniziale segretezza della comunicazione.

2) – Con la seconda censura lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 15 Cost per omesso bilanciamento con l’art. 32 Cost., quale presidio della tutela della salute, e in relazione alle condizioni di lavoro ex art. 2087 c.c., quale norma di chiusura dell’ordinamento.

Lamenta altresì la nullità parziale della sentenza per omessa pronuncia sul punto.

La società rileva che la corte territoriale non aveva svolto il richiesto bilanciamento tra diritti di pari rango costituzionale e non aveva considerato che il datore di lavoro, venuto a conoscenza delle frasi pronunciate dal C., era tenuto ad intervenire, ai sensi dell’art. 2087 c.c., per tutelare il proprio dipendente dalle ingiurie mosse nella chat.

3)- Con il terzo motivo è denunciata, in via gradata, la violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. dell’art. 7 l.n. 300/70 e dell’art. 225 Ccnl terziario, in relazione all’asserita mancanza di elementi riconducibili al reato di minacce.

Il motivo lamenta che la sentenza, pur avendo riconosciuto il contenuto gravemente offensivo delle chat, ne ha escluso la valenza penale in quanto la minaccia non sarebbe stata rivolta direttamente al team leader.

4)- In via ancor più gradata con la quarta censura sono riproposte le istanze istruttorie formulate in memoria e non ammesse dalla corte di merito.
I primi due motivi possono essere trattati congiuntamente in quanto diretti a contestare l’applicazione dell’art. 15 Cost. nel caso in esame.

La disposizione richiamata, al primo comma, definisce inviolabili “la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione”, così collocando la libertà di comunicare riservatamente accanto alla libertà nella sua dimensione spaziale (art. 14) e alla libertà personale (art. 13), quali presidi della dignità della persona umana (art. 2).

Come evidenziato in altra similare decisione trattata in data odierna da questo Collegio (RG n. 2268/21), la dottrina ha individuato nella libertà e nella segretezza due distinti contenuti della tutela costituzionale: la libertà di comunicare con altri soggetti ha come elemento costitutivo la determinatezza dei destinatari ed esige che la comunicazione, nel suo aspetto dinamico, non sia in alcun modo impedita od ostacolata; la segretezza si rivolge all’animus del mittente, alla sua volontà che soggetti diversi dai destinatari determinati non prendano conoscenza del contenuto della comunicazione.

La tutela costituzionale è circoscritta al rapporto comunicativo attuato con cautele e modalità idonee ad escludere terzi dalla conoscenza, attraverso cioè l’impiego di mezzi di trasmissione convenzionalmente riconoscibili come segreti, in difetto dei quali sarà configurabile solo una manifestazione del pensiero rivolta ad un destinatario determinato.

Non vi è accordo, in dottrina, sul requisito di attualità della corrispondenza; secondo alcuni autori l’art. 15 Cost. include soltanto l’atto del corrispondere, che cessa nel momento in cui il destinatario prende cognizione del messaggio; secondo altra opinione, la tutela non si esaurisce con la ricezione ma perdura finché la comunicazione conservi carattere di attualità per i corrispondenti e l’attualità viene meno solo quando, per il decorso del tempo o per altra causa, il messaggio abbia assunto le fattezze di un documento storico, di valore solo retrospettivo, affettivo, collezionistico, artistico, scientifico o probatorio.

Particolare attenzione è stata dedicata dalla dottrina e dalla giurisprudenza alla nozione di corrispondenza, per le complesse problematiche poste dall’evoluzione dei sistemi di trasmissione delle comunicazioni nell’era cd. digitale.

Uno snodo fondamentale in questa materia è rappresentato dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 170 del 2023 che, in un giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, ha esaminato la portata dell’art. 15 Cost. rispetto alle nuove forme di comunicazione.

La Corte Costituzionale, premesso che quello di «corrispondenza» è concetto «ampiamente comprensivo, atto ad abbracciare ogni comunicazione di pensiero umano (idee, propositi, sentimenti, dati, notizie) tra due o più persone determinate, attuata in modo diverso dalla conversazione in presenza», ha ribadito che la tutela accordata dall’art. 15 Cost. «prescinde dalle caratteristiche del mezzo tecnico utilizzato ai fini della trasmissione del pensiero, aprendo così il testo costituzionale alla possibile emersione di nuovi mezzi e forme della comunicazione riservata» (v. anche Corte Cost., sentenza n. 2 del 2023) e che la «garanzia si estende […] ad ogni strumento che l’evoluzione tecnologica mette a disposizione a fini comunicativi, compresi quelli elettronici e informatici, ignoti al momento del varo della Carta costituzionale».

Su tali principi la sentenza n. 170 ha fondato la statuizione per cui «posta elettronica e messaggi inviati tramite l’applicazione WhatsApp (appartenente ai sistemi di cosiddetta messaggistica istantanea) rientrano a pieno titolo nella sfera di protezione dell’art. 15 Cost., apparendo del tutto assimilabili a lettere o biglietti chiusi. La riservatezza della comunicazione, che nella tradizionale corrispondenza epistolare è garantita dall’inserimento del plico cartaceo o del biglietto in una busta chiusa, è qui assicurata dal fatto che la posta elettronica viene inviata a una specifica casella di posta, accessibile solo al destinatario tramite procedure che prevedono l’utilizzo di codici personali; mentre il messaggio WhatsApp, spedito tramite tecniche che assicurano la riservatezza, è accessibile solo al soggetto che abbia la disponibilità del dispositivo elettronico di destinazione, normalmente protetto anch’esso da codici di accesso o altri meccanismi di identificazione».

La posta elettronica e i messaggi WhatsApp operano secondo modalità e procedure che soddisfano il requisito di segretezza, in funzione del quale è riconosciuta a tutti consociati la tutela di cui all’art. 15 Cost.

Ciò in armonia con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che, senza incertezze, ha ricondotto sotto il cono di protezione dell’art. 8 CEDU – ove pure si fa riferimento alla «corrispondenza» tout court – i messaggi di posta elettronica (Corte EDU, grande camera, sentenza 5 settembre 2017, B. contro Romania, paragrafo 72; Corte EDU, sezione quarta, sentenza 3 aprile 2007, C. contro Regno Unito, paragrafo 41), gli SMS (Corte EDU, sezioni quinta, sentenza 17 dicembre 2020, S. contro Norvegia, paragrafo 48) e la messaggistica istantanea inviata e ricevuta tramite internet (Corte EDU, Grande Camera, sentenza B., paragrafo 74.

Nella sentenza n. 170 del 2023 la Corte cost. ha richiamato il dibattito, anche giurisprudenziale, sui limiti temporali finali della tutela assicurata dall’art. 15 Cost. ed ha concluso che tale disposizione garantisce alla generalità dei cittadini, così come l’art. 68 Cost. ai membri del Parlamento, la libertà e la segretezza della corrispondenza «anche dopo la ricezione da parte del destinatario, almeno fino a quando, per il decorso del tempo, essa non abbia perso ogni carattere di attualità, in rapporto all’interesse alla sua riservatezza, trasformandosi in un mero documento “storico”»; ciò sempre in accordo con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (sopra citata) che ha ricondotto alla nozione di «corrispondenza» tutelata dall’art. 8 CEDU anche i messaggi informatico-telematici nella loro dimensione “statica”, ossia già avvenuti (in tal senso v. anche Cass. pen., n. 25549 del 2024).

Nel precedente di questa Corte n. 21965 del 2018, si è affermato che, in tema di licenziamento disciplinare, i messaggi scambiati in una chat privata, seppure contenenti commenti offensivi nei confronti della società datrice di lavoro, non costituiscono giusta causa di recesso poiché, essendo diretti unicamente agli iscritti ad un determinato gruppo e non ad una moltitudine indistinta di persone, vanno considerati come la corrispondenza privata, chiusa e inviolabile, e sono inidonei a realizzare una condotta diffamatoria in quanto, ove la comunicazione con più persone avvenga in un ambito riservato, non solo vi è un interesse contrario alla divulgazione, anche colposa, dei fatti e delle notizie ma si impone l’esigenza di tutela della libertà e segretezza delle comunicazioni stesse.

Si è quindi escluso il carattere illecito – da un punto di vista oggettivo e soggettivo – della condotta contestata al dipendente in quanto riconducibile alla libertà, costituzionalmente garantita, di comunicare riservatamente.

All’interno della cornice costituzionale del diritto alla libertà e segretezza della corrispondenza, occorre ora esaminare la fattispecie oggetto di causa partendo dai dati pacifici, come accertati dalla Corte d’appello, e concernenti: l’esistenza di una chat WathsApp denominata “Amici di lavoro” , cui partecipavano complessivamente 14 dipendenti, tra i quali l’attuale intimato, l’invio di un messaggio, da parte di quest’ultimo, contenente frasi offensive nei confronti di un superiore gerarchico, la successiva diffusione di tali messaggi a soggetti esterni alla chat, quale il datore di lavoro.

È indubbio che la condotta contestata in via disciplinare al C. rientri nel raggio di protezione dell’art. 15 Cost., atteso che il messaggio è stato inviato a persone determinate, facenti parte della chat ristretta di taluni colleghi di lavoro, e le caratteristiche tecniche del mezzo di comunicazione adoperato, WathsApp, riflettono in modo inequivoco la volontà della mittente di escludere terzi dalla conoscenza del messaggio e soddisfano il requisito di segretezza della corrispondenza.

È altrettanto pacifico, in fatto, che la violazione della segretezza della comunicazione, attraverso la rivelazione del contenuto al datore di lavoro, è avvenuta ad opera, non di terzi estranei alla, bensì ad opera di uno dei suoi partecipanti, quindi compreso tra i destinatari del messaggio per cui è causa.

Dunque, la società ricorrente ha appreso il contenuto della corrispondenza, destinata a rimanere segreta, su iniziativa di uno dei destinatari della stessa; nondimeno, tale iniziativa costituisce violazione del diritto alla segretezza e riservatezza della corrispondenza (v. citato art. 15 Cost.) avvenuta in danno dell’odierno intimato.

Nel caso in esame, ciò che la società ha contestato e qualificato come giusta causa di licenziamento è rappresentato esclusivamente dal contenuto della comunicazione inviata dal lavoratore tramite WathsApp e col suo telefono privato ai colleghi di lavoro, partecipanti alla chat.

Il contenuto del messaggio, inviato a persone determinate e destinato a rimanere segreto, è divenuto esso stesso ragione del recesso.

La manifestazione del pensiero attuata attraverso le moderne vie di comunicazione elettronica, assimilabili, secondo le parole della Corte Costituzionale, a una lettera inserita in una busta chiusa, è stata considerata dal datore di lavoro come condotta riprovevole.

Deve rammentarsi che la nozione di giusta causa di licenziamento è collegata a comportamenti che si concretano nella violazione degli obblighi facenti capo al lavoratore, individuati come obblighi di conformazione, diligenza e fedeltà, strettamente connessi all’osservanza delle prescrizioni attinenti all’organizzazione aziendale e ai modi di produzione e agli interessi dell’impresa.

Anche il rilievo disciplinare di condotte extralavorative dei dipendenti è, comunque, subordinato alla idoneità delle stesse a riflettersi, in senso negativo, sul rapporto fiduciario e sulla prospettiva di regolare esecuzione della prestazione (v. Cass. 8390 del 2019; n. 428 del 2019; n. 12994 del 2018).

Invece, non rientra tra le prerogative datoriali un potere sanzionatorio di tipo meramente morale nei confronti dei dipendenti, tale da comprimere o limitare spazi di libertà costituzionalmente protetti, come quello concernente la corrispondenza privata.

Da ciò discende che la garanzia della libertà e segretezza della corrispondenza privata e il diritto alla riservatezza nel rapporto di lavoro, presidi della dignità del lavoratore, impediscono di elevare a giusta causa di licenziamento il contenuto in sé delle comunicazioni private del lavoratore, trasmesse col telefono personale a persone determinate e con modalità significative dell’intento di mantenere segrete le stesse, a prescindere dal mezzo e dai modi con cui il datore di lavoro ne sia venuto a conoscenza.

In relazione allo specifico fatto contestato, la Corte d’appello, nella valutazione adottata, si è attenuta ai principi sopra enunciati poiché ha colto la portata e le implicazioni del diritto fondamentale alla segretezza della corrispondenza ed ha considerato che l’avere la società appreso del messaggio ad opera di uno dei relativi destinatari non determina il venir meno dello statuto protettivo dell’art. 15 Cost.

L’informazione così acquisita, infatti, può, al più, far attivare forme di attenzione per possibili eventi successivi, ma, certamente, non può costituire giusta causa di recesso datoriale.

Le censure poste nei primi due motivi del ricorso devono pertanto essere rigettate.

Anche il terzo motivo, relativo alla valenza penale del contenuto dei messaggi in questione, in quanto contenenti minacce, deve ritenersi assorbito da quanto sopra rilevato rispetto alla assenza di una comunicazione diretta al soggetto asseritamente minacciato.

Peraltro, come evidenziato dalla corte d’appello, nessuna contestazione aveva riguardato eventuali altre condotte diffamatorie o minacciose, essendo addebitato solo l’invio di messaggi “con contenuti offensivi, denigratori, minatori e razzisti”.

È appena il caso di richiamare il principio secondo cui “in tema di diffamazione (..militare), la diffusione di un messaggio offensivo in una “chat” dell’applicazione “whatsapp” non configura l’aggravante dell’uso di un “mezzo di pubblicità”, trattandosi di strumento di comunicazione destinato a un numero ristretto di persone e privo della necessaria diffusività” (Cass pen. n. 37818/2023).

L’ultimo motivo relativo alle istanze istruttorie richieste, alla luce di quanto detto, deve ritenersi assorbito.

Il ricorso deve essere rigettato.

Nulla per le spese poiché l’intimato non ha svolto attività difensiva.

Si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato, ove dovuto.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Ai sensi dell’art. 13 comma quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, ove dovuto.

La divulgazione di un messaggio whatsapp, offensivo per il datore di lavoro, non legittima il licenziamento
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