È possibile il prolungamento del periodo di prova nel rispetto del limite massimo di durata previsto dal c.c.n.l.
Nota a App. Venezia 8 marzo 2025, n. 15
Fabrizio Girolami
In tema di proroga del patto di prova nel rapporto di lavoro del dirigente, è legittima la modifica consensuale della durata del periodo di prova intervenuta prima della scadenza del termine originariamente pattuito, purché non superi il limite massimo di durata previsto dalla contrattazione collettiva di settore.
Si tratta del principio stabilito dalla Corte d’Appello di Venezia, Sez. lav., sentenza 8 marzo 2025, n. 15, con riferimento ad una controversia instaurata da un dirigente, il quale, assunto con contratto stipulato in data 5.4.2018, aveva pattuito con il datore di lavoro un primo periodo di prova iniziale della durata di 3 mesi (con scadenza in data 21.8.2018). Successivamente, in data 8.8.2018 (dunque prima della consumazione del termine finale del 21.8.2018), per sopravvenute ragioni organizzative, le parti avevano sottoscritto la proroga della prova fino al 20.11.2018. In data 14.11.2018, il dirigente era stato licenziato ad nutum per mancato superamento della prova stessa.
Nel giudizio di primo grado, il Tribunale di Treviso, con sentenza n. 131/2021, aveva rigettato la domanda di impugnazione del licenziamento (formalmente recesso per mancato superamento del periodo di prova).
La questione prospettata attiene alla legittimità, nell’ambito del rapporto di lavoro dirigenziale, della proroga concordata con atto scritto in data 8.8.2018, prima che l’originario periodo di prova (tre mesi scadenti il 21.8.2018) si fosse consumato e, dunque, scaduto.
Il Tribunale trevigiano, nel disattendere le istanze del dirigente, aveva affermato che la proroga, se intervenuta prima della scadenza del termine originario e nei limiti del massimo contrattuale, non costituisce “rinunzia” a diritto indisponibile ai sensi dell’art. 2113 del codice civile, in quanto, al momento dell’accordo, non sussiste alcun diritto alla stabilizzazione del rapporto, stante il mancato compimento della prova originariamente pattuita e la permanenza, quindi, della situazione di libera recedibilità, propria di tale istituto.
A seguito dell’appello proposto dal dirigente, la Corte veneziana, a conferma della sentenza di primo grado, ha rigettato l’appello medesimo, osservando, tra l’altro, quanto segue:
- nel caso di specie, costituisce un dato non controverso e controvertibile, che le parti hanno pattuito complessivamente, sia con l’accordo iniziale, sia con il successivo accordo di proroga, lo svolgimento di un periodo di prova nel limite massimo consentito di sei mesi;
- la durata massima del periodo di prova (6 mesi) è prevista sia dall’art. 4 del Regio decreto-legge 13.11.1924, n. 1825, sia dal C.C.N.L. dirigenti industria, il quale, all’art. 2, prevede che “l’eventuale fissazione del periodo di prova, limitatamente ai dirigenti di nuova assunzione e comunque per una durata non superiore a sei mesi, potrà essere concordata fra le parti e dovrà risultare da atto scritto”;
- ciò premesso, la facoltà di prorogare (ossia di prolungare) il periodo di prova – istituto che, come noto, risponde all’interesse di entrambe le parti di operare la reciproca valutazione di convenienza del rapporto di lavoro (art. 2096 c.c.) – non può essere limitata da un’iniziale pattuizione se non con riguardo a limite massimo (legale e contrattuale) di sei mesi;
- dunque, se, per definizione, il patto di prova deve essere stipulato in un momento anteriore o contestuale all’inizio del rapporto di lavoro, la successiva modifica della durata della prova non è soggetta ad “inderogabilità”, essendo solo condizionata al rispetto del limite massimo (previsto dalla contrattazione collettiva e che era stato rispettato dalle parti) e, all’interno di tale massima durata, nessuna rinuncia a diritti inderogabili (ex art. 2113 c.c.) è enucleabile;
- inoltre – in conformità alla giurisprudenza di legittimità (cfr., ex aliis, Cass. ord. 26.5.2020, n. 9789, in q. sito con nota di F. DURVAL, secondo cui la clausola del contratto individuale con cui è fissata una durata del patto di prova maggiore di quella stabilita dalla contrattazione collettiva di settore deve ritenersi più sfavorevole per il lavoratore e, come tale, è sostituita di diritto ex art. 2077, co. 2, c.c. salvo che il prolungamento si risolva in concreto in una posizione di favore per il lavoratore) – il prolungamento del periodo entro il limite massimo di durata previsto dalla contrattazione collettiva di settore non viola alcuna norma imperativa, essendo questo limite posto esclusivamente a tutela dell’interesse del lavoratore (dirigente);
- nel caso di specie, la prosecuzione della prova oltre il termine iniziale era stata concordemente prevista nei limiti del periodo massimo di durata fissato dalla contrattazione collettiva e giustificata da “ragioni sopravvenute organizzative”, senza che sul punto sia stato dedotta l’insussistenza delle ragioni determinative del nuovo termine;
- infine, l’argomento dedotto dal dirigente “circa la condizione di precarietà a cui sarebbe sottoposto” con la conseguenza “che sarebbe indotto a sottoscrivere la proroga”, è “risolutivo ma, al contrario, è meramente suggestivo: se così fosse e, quindi, fosse inibita la proroga, la conseguenza paradossale è che il datore di lavoro ben potrebbe determinarsi all’immediato recesso senza alcuna limitazione”;
- pertanto, deve concludersi che “posto il limite massimo del periodo di prova è rispetto ad esso che si atteggia la libertà contrattuale delle parti ex art.1322, c.c.”.
Sentenza
App. Venezia 8 marzo 2025, n. 15
Svolgimento del processo
Con ricorso in appello depositato in data 14 ottobre 2021 (…) ha impugnato la sentenza n.131/21 del giudice del lavoro del Tribunale di Treviso con la quale è stata rigetta la propria domanda di impugnazione del licenziamento (così riqualificato il recesso per mancato superamento del periodo di prova).
Con memoria depositata il 23 febbraio 2023 si è costituita la (…) in amministrazione straordinaria, chiedendo di respingere l’impugnazione. La causa, rinviata pe tre volte fuori udienza per ragioni di carattere organizzativo, è stata discussa all’odiera udienza e, sulla base delle conclusioni in epigrafe riportate, decisa con contestuale lettura del dispositivo.
Motivi della decisione
1) Pacifica è la ricostruzione in fatto delle modalità con le quali il rapporto lavorativo è stato instaurato e si è svolto sul piano formale; come premesso dal giudice trevigiano: “L’8 agosto 2018 era stata sottoscritta la proroga della prova fino al 20/11/18 ed il 14/11/18 il ricorrente è stato licenziato per mancato superamento della prova stessa.”
Unica questione di causa dibattuta attiene alla legittimità della proroga concordata in data 8 agosto 2016, prima che l’originario periodo di prova (tre mesi scadenti il 21 agosto 2018) si fosse consumato.
2) Con la sentenza impugnata il giudice del primo grado, affermata la competenza del giudice del lavoro, ha ritenuto che la proroga al periodo di prova, se intervenuta anteriormente alla scadenza del periodo originariamente convenuto, non costituisse rinuncia a diritto indisponibile ai sensi dell’art. 2113 c.c.: ciò in quanto non sussisteva al momento dell’accordo sulla proroga “alcun diritto alla stabilizzazione del rapporto stante il mancato compimento della prova originariamente pattuita e la permanenza, quindi, della situazione di libera recedibilità.” A ciò non ostava l’incompatibilità della natura “stabile” del rapporto (dovendo essere prevista la prova contestualmente od anteriormente alla conclusione del contratto di lavoro) con la sua libera recedibilità propria del patto ex art. 2096 c.c., in quanto in costanza di prova, il periodo di prova poteva essere consensualmente prorogato, “non verificandosi alcuna variazione al regime di stabilità del rapporto ma semplicemente procrastinandosi la stabilizzazione, peraltro del tutto eventuale stante la recedibilità che contraddistingue il rapporto di lavoro al momento in cui si conviene di prolungare la prova.”
Ha poi ritenuto non pertinente la giurisprudenza di legittimità richiamata dal ricorrente in quanto relativa a diversa questione, ossia la forma che deve assumere la proroga del patto di prova – forma scritta ad substantiam – requisito integrato, nel caso di specie, come pure rispettoso dei limiti previsto dalla contrattazione collettiva era il termine finale concordato (sei mesi).
3) Appella la sentenza il dottor (…) sulla scorta dei seguenti motivi. Col primo motivo reputa errata la sentenza nella parte in cui il giudice ha ritenuto sottratta alla previsione del’art.2113 c.c. la previsione della proroga del periodo di prova in ragione della sua predeterminazione.
Assume che il periodo di prova deve essere inderogabilmente determinata prima che l’esecuzione del contratto abbia inizio; richiama la giurisprudenza di legittimità circa la fattispecie negoziale unitaria, originariamente completa, in forza della quale viene definito “lo specifico assetto di interessi perseguito dalle parti” (richiamando Cass. Civ. Sez. Lav., 26 Novembre 2004, n. 22308). Aggiunge che la contrattazione collettiva di riferimento (il CCNL Dirigenti Industria) non prevede la facoltà di proroga del periodo di prova. In forza di tale ricostruzione reputa che la proroga del periodo di costituisca una rinuncia rispetto al carattere inderogabile del periodo di prova. Da ciò l’ulteriore rinvio per cui la “precarietà” di un rapporto di lavoro condizionato all’esito della prova è ammissibile nei limiti dell’originaria previsione del periodo di prova.
Con un secondo motivo contesta la lettura compiuta dal primo giudice in riferimento alla giurisprudenza di legittimità citata (Cass. n.16214 del 2016).
Valorizza in tale senso il passaggio della motivazione in cui in via incidentale si afferma che la proroga del patto di prova intervenuta in costanza di rapporto, anche se redatta per iscritto, non è valida essendo stata “concordata” in un momento successivo rispetto a quello in cui il lavoratore era stato assunto.
Col terzo motivo reputa errata l’interpretazione adottata dal primo giudice in ordine alla disciplina della proroga regolata dall’art.2 del CCNL di riferimento: “Il tenore letterale della norma – dal quale si desume la specifica volontà delle parti stipulanti – appare sufficientemente chiaro ed univoco e non consente, ad avviso di questa difesa, alcuna interpretazione estensiva.”.
Lamenta, infine, l’eccessiva misura della liquidazione delle spese di lite stante la novità della questione.
4) L’appello non può essere accolto.
4.1) La modifica intervenuta nel corso della prova prevedeva che “Per ragioni sopravvenute organizzativ(o)e, la Società e Lei concordano di rettificare il suo contratto di lavoro stipulato in data 05/04/2018, al punto n.4 “Periodo di prova”. Le parti convengono che il periodo di prova vien fissato in 6 mesi di calendario come previsto da CCNL, e così esteso sino alla data del 20/1172018.”. 4.2) Costituisce dato non controverso, né controvertibile che era consentito lo svolgimento di un periodo di prova nei limiti di sei mesi non solo per legge ex art.4 r.d.l. n.1825 del 1924 (che, ratione temporis, limita a tre mesi il periodo di prova per le categoria diverse da quelle degli impiegati con funzioni equivalenti a quelle di un dirigente), ma anche in forza della previsione del contratto collettivo applicato secondo cui “L’eventuale fissazione del periodo di prova, limitatamente ai dirigenti di nuova assunzione e comunque per una durata non superiore a sei mesi, potrà essere concordata fra le parti e dovrà risultare da atto scritto”.
4.3) Ciò premesso la facoltà di prolungare il periodo di prova -notoriamente e per costante giurisprudenza stipulato nell’interesse di entrambe le parti – non può essere limitato da un’inziale pattuizione se non con riguardo a limite massimo.
Proprio per le ragioni espresse dal primo giudice, rispetto alle quali l’appellante non ha argomentato il proprio dissenso, l’inderogabilità è necessariamente collegato al limite massimo della durata, mentre all’interno di tale massima durata nessuna rinuncia a diritti inderogabile è enucleabile.
4.4) Né l’argomento adotto circa la condizione di precarietà a cui sarebbe sottoposto il lavoratore, con la conseguenza che sarebbe indotto a sottoscrivere la proroga, è risolutivo ma, al contrario, è meramente suggestivo: se così fosse e, quindi, fosse inibita la proroga, la conseguenza paradossale è che il datore di lavoro ben potrebbe determinarsi all’immediato recesso senza alcuna limitazione. Deve avere rilievo, quindi, il principio opposto a quello invocato dall’appellante: posto il limite massimo del periodo di prova è rispetto ad esso che si atteggia la libertà contrattuale della prati ex art.1322, c.c..
4.5) Sotto un diverso versante l’appellante invoca la violazione della regola della predeterminazione del periodo di prova.
Anche per tale aspetto la critica mossa alla sentenza impugnata non coglie nel segno: la regola della contestualità o dell’anteriorità del patto di prova attiene al momento genetico della sua stipulazione: in tale momento risultano essere elementi costituivi essenziali la previsione della prova, l’individuazione delle mansioni e altrettanto può dirsi del termine. Tale previsione risulta rispettata pacificamente, per quanto interessa, con riguardo alla predeterminazione del periodo di prova. Questione diversa è quella relativa alla modificazione della durata, non soggetta ad alcuna regola sull’inderogabilità, se non con riguardo al limite massimo, unico limite che è imposto a tutela dell’interesse del lavoratore:
in tale senso la proroga risulta censurabile solo se tale limite non viene osservato (in tale senso Cass. n.3093 del 1992).
E’ proprio con riguardo a tale limite e alle conseguenze derivanti dalla sua violazione che la giurisprudenza assicura tutela al lavoratore: “La clausola del contratto individuale con cui è fissata una durata del patto di prova maggiore di quella stabilita dalla contrattazione collettiva di settore deve ritenersi più sfavorevole per il lavoratore e, come tale, è sostituita di diritto ex art. 2077, comma 2, c.c. salvo che il prolungamento si risolva in concreto in una posizione di favore per il lavoratore (ad esempio per la particolare complessità delle mansioni), con onere probatorio gravante sul datore di lavoro, poiché è colui che si avvantaggia del tempo più lungo della prova godendo di più ampia facoltà di licenziamento per mancato superamento della stessa.” (Cass.civ. Sez. L -, Ordinanza n. 9789 del 26/05/2020, Rv. 657869 – 01).
Nel caso di specie, al contrario, la prosecuzione della prova oltre il termine inziale era stata concordemente prevista nei limiti del periodo massimo fissato dalla contrattazione collettiva e giustificata da “ragioni sopravvenute organizzative”, senza che sul punto sia stato dedotta l’insussistenza delle ragioni determinative del nuovo termine.
Né può avere rilievo il richiamo alla giurisprudenza di legittimità (n.16214 del 2016) invocato dall’appellante e già oggetto di considerazione con la sentenza impugnata: a ben leggere la vicenda su cui si è pronunciata la Suprema Corte non era in discussione l’astratta possibilità di proroga , ma la necessità che anche essa fosse formalizzata per iscritto; in quale caso era mancata proprio tale modalità di stipulazione della proroga e tanto aveva rilievo per ritenere nulla la stessa per carenza del requisito di forma, ma non per intrinseca contrarietà all’ordinamento della facoltà di prorogare il periodo di prova.
Invero, contrariamente all’assunto difensivo, non si rinviene affatto nella sentenza n.16214 un’incidentale affermazione dei giudici di legittimità circa l’invalidità della proroga “poiché essendo stata “concordata” in un momento successivo rispetto a quello in cui il lavoratore viene assunto, si pone al di fuori del contratto iniziale e pertanto difetta della capacità di incidere sul patto di prova inizialmente convenuto.” 5) Infine, va ritenuta infondata anche l’ultima doglianza in ordine alla statuizione delle spese di lite. Posto che non viene in contestazione la conformità della liquidazione alla previsione del d.m. n.55 del 2014, la circostanza dell’asserita novità della questione in realtà non è tale e, in ogni caso, è risolta in base all’applicazione di principi generali, sui quale non incide la misura della liquidazione (semmai in rilievo per la loro compensazione ex art.92 comma 2 c.p.c., mai evocato col gravame). 6) Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidando in rapporto al valore di causa nel minimo, tenuto conto del carattere preliminare della questione risolutiva del giudizio, in base ai parametri di cui al d.m. n.55 del 2014 e delle successive modifiche ex d.m. n. 147 del 13 agosto 2022.
P.Q.M.
La Corte, definitivamente pronunciando nella causa in epigrafe, rigettata o assorbita ogni diversa istanza, eccezione e domanda, così provvede:
– rigetta l’appello;
– condanna l’appellante al pagamento delle spese di lite del grado liquidate in Euro.8.479,00 oltre iva e cpa e al rimborso forfetario ex lege in favore di ciascuna parte appellata.
Ai sensi dell’art.13, comma 1 quater del D.P.R. 115/2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte dell’appellante di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 -bis dello stesso art. 13.